L'Islam in America è stato un elemento significativo del panorama culturale della nazione, sebbene fraintendimenti e critiche ne abbiano influenzato la percezione pubblica. L'islamofobia, alimentata da stereotipi e retoriche xenofobe, ha creato un clima di paura e diffidenza nei confronti delle comunità musulmane. All'interno della comunità afroamericana, l'Islam ha svolto un ruolo cruciale, soprattutto a metà del XX secolo, come forma di resistenza politica ed emancipazione. Ancora oggi, l'Islam continua a influenzare l'identità e l'attivismo afroamericano, sia come percorso spirituale che come strumento di lotta per la giustizia sociale.
1. L'eredità dei Musulmani Afroamericani: da Omar Ibn Said a Malcolm X
di Selam Tesfai
Negli Stati Uniti gli anni ‘50 e ‘60 sono stati cruciali per costruire le fondamenta di tutti i futuri movimenti politici che attraverseranno il paese.
In quegli anni il movimento di liberazione del popolo Nero è sempre più stratificato e dinamico. Sono infatti numerose le anime che al suo interno teorizzano come ottenere l’emancipazione Nera in ogni ambito della vita sociale, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il globo, ovunque ci siano territori colonizzati in lotta per l’indipendenza. Per esempio, studiando il Civil Rights Movement[1] si potranno incontrare organizzazioni estremamente divergenti tra loro: da quelle nazionaliste a quelle per l'integrazione, da quelle rivoluzionarie ai movimenti pacifisti per la non-violenza; tra loro molte furono capeggiate da predicatori religiosi: battisti, cattolici, pentecostali, musulmani, veri e propri leader politici al pari dei nazionalisti neri. A unire mondi così diversi tra loro fu l’unicità del nemico da cui si difendevano: l’uomo bianco, ovvero l’unico vero padrone degli Stati Uniti d’America.
Nonostante questo, i leader politici del Civil Rights Movement, vengono ancora oggi raccontati in modo superficiale e stereotipato, dimostrando quanto poco spazio venga dato a delle analisi capaci di restituire le complessità dei personaggi che animarono questa importante fase di riorganizzazione della società Americana. In un panorama così vibrante e frastagliato, non è semplice comprendere l’evoluzione storica di alcune tra le principali correnti politico-filosofiche presenti nel Civil Rights Movement, per questo è necessario chiedersi: chi erano le Africane e gli Africani che vennero costretti ad abitare gli Stati Uniti tramite l’istituzione del sistema schiavile e della rotta atlantica?
Delle loro storie sappiamo molto poco, una volta raggiunto il continente americano, le persone Africane costrette in schiavitù, venivano separate dai familiari e dalle persone dello stesso clan, in modo che non potessero comunicare tra loro, questo nei fatti impedì la trasmissione della lingua e delle tradizioni culturali e religiose.

Secondo Mary-Jane Deeb, responsabile del Dipartimento di Studi Africani e Mediorientali alla Library of Congress degli Stati Uniti d’America, circa il 20% degli Africani che furono rapiti e schiavizzati nelle Americhe erano musulmani. Tra queste persone spicca la figura di Omar Ibn Said[2], nato nel 1770 a Futa Toro, nell’attuale Senegal, venne rapito a inizio Ottocento e costretto ad attraversare l’Atlantico, fino a raggiungere il porto di Charleston, in South Carolina, dove fu venduto come schiavo.
Degli oltre 12 milioni di persone deportate dall’Africa durante la tratta degli schiavi, circa 400.000 furono spedite nei porti del Nord America e circa il 40% di questi salpò per Charleston. Omar ibn Said fu tra gli ultimi. Le sue memorie ad oggi costituiscono il più antico racconto autobiografico di uno schiavo Africano negli Stati Uniti d’America. La sua autobiografia è appartenuta a collezioni private fino al 2017, quando è stata finalmente acquisita dalla Library of Congress e restituita alla collettività attraverso la sua digitalizzazione.
«Before I came to the Christian country, my religion was the religion of Mohammed. Then there came to our place a large army, who killed many men, and took me, and brought me to the great sea» (Omar Ibn Said, 1831).
La saggia scelta di Omar Ibn Said di scrivere le sue memorie in lingua araba, ci consente oggi di leggere un racconto fedele alle intenzioni delle mani che lo hanno scritto, non filtrato dalla macchina editoriale di proprietà dei padroni bianchi.

L’abolizione formale della schiavitù non metterà fine agli orrori che le persone Afroamericane saranno costrette a vivere, per questo l’inizio del XIX secolo sarà caratterizzato dall’abbandono del profondo Sud da parte di migliaia di ex schiavi, che scapparono dalla povertà e dalle persecuzioni delle leggi Jim Crow, stabilendosi nelle grandi città industriali del nord del paese, da Chicago a New York, Philadelphia e Detroit, dando vita a quella che gli storici chiamano la "Great Migration".
E’ solo durante i primi anni del Novecento che si formeranno le prime vere e proprie comunità di African American Muslim.
Nel 1922 a Chicago, cuore battente del Midwest americano, verrà scattata la prima fotografia di un gruppo di donne Musulmane Nere, rinvenuta dagli storici. La fotografia è pubblicata su un giornale chiamato “The Moslem Sunrise”, del Ahmadiyya Movement, dove sono riportati i nomi delle persone da poco convertite, tra questi c’è quello di Florence Watts[3] una delle prime donne Afroamericane Musulmane di cui si conosce la storia.
Florence è figlia di ex schiavi, nasce e cresce nel Sud degli Stati Uniti che lascerà, insieme al marito, per cercare condizioni di vita migliori, trasferendosi quindi nel South West di Chicago dove troverà lavoro come cuoca e badante. Il lavoro le impedisce di vivere con la figlia, che sarà costretta ad affidare a un collegio per ragazze per tutta l’infanzia e adolescenza. A poche centinaia di metri dal suo lavoro incontra i proseliti dell’Ahmadiyya Movement che incoraggiano la scoperta dell’Islam. Da molti Afroamericani, come Florence, l’Islam viene visto come la possibilità di ricostruire un legame spirituale ancestrale con le proprie origini, infatti sin dall’800 la religione Islamica viene associata alla resistenza al colonialismo e all’imperialismo Europeo nel continente Africano, avvicinandosi così ai movimenti nazionalisti Neri che predicano il ritorno di tutti gli Africani nel continente Africano.
Le congregazioni religiose diventano presto il nuovo centro socio-economico, nonché spirituale e culturale, delle comunità Afroamericane e furono l’altare da cui diffondere le idee e le organizzazioni del movimento per l’emancipazione delle persone Nere, come la “Universal Negro Improvement Association” guidata da Marcus Garvey.
Malcom X before naming himself
Anche Earl e Louise Little, i genitori di Malcolm X, ammiravano le idee Panafricaniste di Marcus Garvey e diventarono membri attivi dell’UNIA, per questa ragione subirono numerosi attacchi da parte di gruppi di suprematisti bianchi locali, che li costrinsero a cambiare città. Nonostante gli sforzi di proteggere la sua famiglia, Earl Little verrà ucciso dalla Black Legion[4], un’organizzazione suprematista bianca vicina al Ku Klux Klan, lasciando soli la moglie e sette figli.
Anni dopo la sua morte, Louise Little verrà ricoverata in una struttura psichiatrica, mentre Malcolm e i suoi fratelli saranno separati e dati in affido.
L’adolescenza di Malcolm X è segnata dalla mancanza di prospettive, nonostante la sua intelligenza e le abilità scolastiche, gli viene ricordato costantemente che vive in un luogo dove un “Nero orientato alla carriera” e al miglioramento della sua condizione di vita, non ha posto.
La sua storia familiare, segnata dalla violenza inflitta dal suprematismo bianco e dal razzismo, non è diversa o più cruenta, di quella di migliaia di Afroamericani che vivono negli Stati del Sud. Si trasferisce al Nord e inizia una vita fatta di precarietà, crimini e lussuria, che gli costerà il carcere per lunghi anni.
Malcolm X in prigione trova un mentore, John Bremby, che descriverà come: «the first man I had ever seen command total respect ... with words» (Malcolm X, 1964); un uomo colto che accresce in lui il desiderio di leggere e apprendere per ottenere rispetto attraverso la dialettica e il pensiero critico. Grazie alle lettere dei suoi fratelli scopre dell’esistenza della Nation of Islam e inizia a interessarsi ai precetti dell’Islam, restando affascinato dal fatto che questo nuovo movimento religioso predichi il ritorno della Diaspora Africana in Africa, dove potrà prosperare lontana dagli Americani bianchi e dalla dominazione europea.

La Nation of Islam diviene per Malcolm un luogo dove trovare ispirazione e risposte a cui ancorarsi, dove non dover abnegare alla rabbia verso la società bianca razzista che nonostante l’abolizione della schiavitù continua a permettere la segregazione e i linciaggi. Dal carcere inizierà un importante scambio epistolare con Elijah Muhammad, leader della NoI, dopo avergli annunciato il suo desiderio di rinunciare al passato e convertirsi all’Islam.
«I became increasingly frustrated at not being able to express what I wanted to convey in letters that I wrote, especially those to Mr. Elijah Muhammad. In the street, I had been the most articulate hustler out there—I had commanded attention when I said something. But now, trying to write simple English, I not only wasn’t articulate, I wasn’t even functional» (Malcolm X, 1964).
Dalle sue parole è evidente la passione per Malcolm per la Filosofia Politica e la dialettica, stimolata dallo scambio con Elijah Muhammad, ma anche dal desiderio di riscatto da una vita senza scopi e prospettive.
E’ in questo momento che Malcolm Stuart Little abbandona i cognomi trasmessi dal padrone schiavista, che aveva posseduto i suoi avi e diventa Malcolm X, un Afroamericano Musulmano membro ufficiale della Nation of Islam. Il carcere per Malcolm X non sarà solo prigionia, ma un lungo percorso di autocoscienza e di riscoperta della fede e del Black Pride insegnatogli dai genitori, fin dalla tenera età. I miti con cui era cresciuto, insieme allle violenze subite, saranno il seme che durante il carcere e con il supporto, morale e spirituale, della Nation of Islam, gli permetteranno di sbocciare.
Uscito di prigione Malcolm X inizierà una vertiginosa carriera all’interno della Nation of Islam, che negli anni della sua partecipazione, passò da poche migliaia di membri a quasi mezzo millione, in particolare ad Harlem, la Mecca Nera, dove la NoI vide la sua massima espansione. Malcolm X assunse il ruolo di portavoce del ministro Elijah Muhammad, iniziando così a parlare alla stampa, in radio, a comizi e manifestazioni pubbliche, non solo ad un pubblico Afroamericano, ma a tutto il paese: Malcolm X era ormai un leader politico. I suoi discorsi sono crudi e criticano apertamente le organizzazioni che lottano per l’avanzamento delle persone Nere attraverso l’integrazione, termine che smonta dalle sue fondamenta e a cui contrappone la totale segregazione delle persone Nere da una società bianca razzista che non li vuole e che non è disposta ad accettarli in quanto cittadini.
Per Malcolm X la Nation of Islam è la cornice politica dove sperimentare la sua capacità dialettica, organizzando in comunità le persone Nere, per l’autodifesa e il contrasto dello sfruttamento attraverso l’indipendenza economica.
Il suo profilo attira presto l’interesse dell’FBI, in particolare dopo un episodio che ritrarrà in modo inequivocabile l’enorme capacità di Malcolm X di guidare l’azione di migliaia di persone in protesta contro la polizia.
E’ il 26 Aprile del 1957 quando alcuni membri della settima Moschea di Harlem, guidata da Malcolm X, si imbattono in un pestaggio della polizia ai danni di un giovane Afroamericano; alla richiesta degli agenti di lasciare la scena uno di loro, Hinton, risponde: «You’re not in Alabama − this is New York». Hinton viene arrestato e pestato a sangue. Malcolm X e alcuni membri della moschea, si dirigono marciando verso la stazione della polizia. In meno di mezz’ora 50 membri della Fruit of Islam, la sezione paramilitare della NoI, si schierano davanti al distretto. Malcolm X chiede agli agenti che Hinton venga portato all’ospedale di Harlem per ricevere cure mediche, nel frattempo fuori dal distretto le persone sono diventate quasi duemila. Una volta ricevute le cure adeguate per Hinton, Malcolm si avvicina alla folla, alza il braccio e dà un segnale con la mano. Un passante descrisse la scena così: «inquietante, perché queste persone sono semplicemente svanite nella notte. È stato il movimento più ordinato di quattromila o cinquemila persone che abbia mai visto in vita mia, sono semplicemente scomparse, proprio davanti ai nostri occhi».
L'evento attirò l'attenzione dei media sulla Nation of Islam, ma anche su Malcolm X in quanto leader, che si guadagnò la reputazione di uomo che «poteva fermare una rivolta razziale, o iniziarne una». Naturalmente, non fu solo il pubblico di Harlem, ma anche la polizia di New York a prenderne nota. Il comando silenzioso di Malcolm lasciò anche una forte impressione sulla polizia di New York. L'ispettore capo sulla scena si rivolse al reporter dell'Amsterdam News James Hicks e disse: «Questo è troppo potere per un uomo solo». Per questo inviò rapidamente una serie di richieste urgenti ai dipartimenti di polizia e alle agenzie governative del Michigan e del Massachusetts, richiedendo i precedenti penali di Malcolm. Malcolm divenne anche una preoccupazione primaria per la neonata unità di sorveglianza della polizia di New York, il Bureau of Special Services and Investigation (BOSSI).
La Nation of Islam presentò tre cause legali contro il Dipartimento di Polizia di NYC, la più grande delle quali da un milione di dollari. Il risarcimento ottenuto da Hinton di 70.000 dollari fu il più alto che la città avesse mai pagato in un caso di brutalità della polizia e fu concesso da una giuria composta esclusivamente da persone bianche. L’eredità del caso Johnson X Hinton non fu semplicemente l’esplosione di Malcolm X sulla scena locale e nazionale, ma un importantissimo precedente nel contrasto alla brutalità della polizia attraverso la combinazione di cause legali e proteste pubbliche.
Il leader Nero resta solo: la strada verso il Panafricanismo
All'inizio degli anni '60 Malcolm sta attivamente trasgredendo la politica ufficiale di Elijah Muhammad: la Nation of Islam non doveva essere coinvolta nell'attivismo politico.
Malcolm X non solo incontra ad Harlem Fidel Castro, leader della rivoluzione cubana, ma si espone ferocemente contro l'amministrazione Kennedy per la sua indecisione sui diritti civili, fino ad arrivare nel 1963 a commentare così l’assassinio del Presidente J.F. Kennedy: «chickens coming home to roost», questo commento costò 90 giorni di interdizione dalle apparizioni pubbliche al portavoce della NOI.
I tentativi di Malcolm X di rinvigorire la sede centrale della NOI a Chicago, inasprirono ulteriormente i suoi rapporti con la gerarchia della NOI, alimentando insidiosi timori che stesse puntando a diventare l’erede di Elijah Muhammad. Attraverso informatori e intercettazioni telefoniche, l'FBI fomenta questo vespaio, cercando di indebolire la NOI dall'interno e garantire che rimanesse distaccata dal movimento per i diritti civili. La strategia di Hoover[5] era quella di dividere e conquistare.

L’8 Marzo del 1963, dopo tre mesi di silenzio, Malcolm X abbandona la Nation of Islam e il 12 Marzo con una conferenza stampa, davanti al Park Sheraton Hotel di New York, fonda la Muslim Mosque Inc. e l’Organizzazione dell’Unità Afroamericana. Con questo discorso si allontana dalle posizioni più intransigenti del nazionalismo Nero:
«Non sono uscito dalla NoI per combattere le altre organizzazioni o gli altri leader neri. Noi dobbiamo trovare un approccio e una soluzione comuni a un problema comune. [...] Il problema che affrontano i nostri fratelli qui in America è più grande di tutte le nostre divergenze organizzative o personali. Perciò, in quanto leader, dobbiamo smetterla di preoccuparci delle presunte minacce che crediamo di poter arrecare al prestigio dell’altro, e dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla soluzione di questo dolore senza fine che viene causato quotidianamente alla nostra gente qui in America» (Malcolm X, 2020).
Non perderà occasione di prendere le distanze dalla nonviolenza e parlare della legittimità della violenza quando necessaria:
«Riguardo la nonviolenza: è criminale che a un uomo costantemente vittima di attacchi brutali venga insegnato a non difendersi. Possedere una pistola o un fucile è tanto legale quanto legittimo. Crediamo nell’osservanza della legge, ma in quelle aree dove la nostra gente è continuamente vittima di brutalità, e dove il governo sembra incapace o nolente di proteggerla, dovremmo formare dei club di tiratori scelti per difendere le nostre vite e le nostre proprietà» (Malcolm X, 2020).

I viaggi in Africa e in Medio Oriente amplieranno il suo orizzonte, culturale e religioso. In particolare dopo il suo viaggio alla Mecca, dove uomini e donne di ogni angolo del mondo pregano insieme: è proprio qui che Malcolm X sperimenta e comprende la capacità dell’Islam di annullare i confini nazionali a favore di un discorso universalista.
La sua figura cambia, il suo approccio politico diventa più maturo e consapevole: saldo nelle sue posizioni ma pronto alla costruzione di alleanze. Malcolm X diventa così un pericoloso aggregatore, in anni in cui lo scontro razziale e le elezioni della nuova presidenza vogliono mettere fine alle capacità del Movimento dei diritti Civili di formare leader Neri capaci di parlare all’intera nazione. La fama tra i giovani, la sfrontatezza verbale, l’intelligenza e il rigore, lo rendono affascinante e pronto a essere leader di un movimento trasversale, la sua persona è sempre più scomoda.
Il 21 Febbraio del 1965, a soli 39 anni, Malcolm X viene colpito da un attentato durante un’orazione nella sua moschea. 16 colpi di arma da fuoco lo colpiscono al torace, morirà all’istante. I colpevoli si scoprirà sono tre membri della NoI, l’organizzazione negherà qualsiasi coinvolgimento.
Malcolm X legacy
A 60 anni dalla sua morte cosa continuano a svelare le parole di un uomo Nero, figlio degli Stati Uniti della segregazione razziale, la cui vita venne spezzata ancora prima di raggiungere i 40 anni?
I suoi discorsi si schieravano contro l’integrazione, una proposta politica ipocrita usata per ottenere i voti elettorali delle comunità Afroamericane, da conquistare con false promesse che premevano sul desiderio di pacificazione e di sicurezza dai continui attacchi e violenze razziali. Per Malcolm X i processi di emancipazione della popolazione Nera, attraverso battaglie legali e legislative, non potevano essere l’unica strada da percorrere. In questi tentativi, apertamente supportati dai bianchi progressisti, vedeva come risultato il consolidamento della condizione di cittadino di serie B per le persone Afroamericane, che se fossero state considerate cittadine con pari diritti non avrebbero dovuto lottare per leggi ad hoc.
Il coraggio delle sue posizioni era sostenuto da ragionamenti lucidi, pragmatici, che mettevano al centro la riconquista della dignità per tutte le persone Afroamericane, attraverso lo sviluppo di un’autonomia economica, della necessità di promuovere il diritto all’autodifesa dalla brutalità della violenza razziale e la promozione di politiche che unissero la comunità Afroamericana al di là delle differenze religiose e ideologiche. I suoi discorsi non erano rivolti ai bianchi che ricoprivano cariche di potere, non tentava di addolcire la pillola, non chinava la testa davanti a un paese che non lo considerava un cittadino, e per questo rifiutava il patriottismo americano, che molti leader neri abbracciavano per paura di essere zittiti.
«No, io non sono americano. Sono uno dei ventidue milioni di neri che sono vittime dell’americanismo, uno dei ventidue milioni di neri che sono vittime della democrazia che non è altro che un’ipocrisia sotto mentite spoglie. Non vengo qui a parlarvi da americano, da patriota, non sono uno che saluta la bandiera o che la sventola a ogni occasione, no! Io vi parlo da vittima di questo sistema americano e vedo l’America con gli occhi di una vittima. Non riesco a vedere nessun sogno americano. Quello che vedo è un incubo americano» (Malcolm X, 2020).
Ciò che negli anni ‘60 ha attratto e formato un’intera generazione di militanti-attivisti Neri furono il carisma, la dialettica, l’analisi sociale e il messaggio di resistenza militante, non il dogma religioso della NOI o le credenze mistiche del suo autoproclamato profeta E. Muhammad.
La religione diede a Malcolm risposte, uno scopo, delle regole a cui aggrapparsi e una luce di speranza in un momento in cui la costruzione dell'identità Nera nella società Americana veniva osteggiata con forte violenza. La rivoluzione a cui aspirava doveva essere supportata da un processo di ricostruzione delle comunità Afroamericane in lotta per la libertà, serviva un nuovo mito, basato sull’orgoglio, l'autonomia e la fratellanza con tutte le popolazioni Nere oppresse nel mondo.
In quanto portavoce ufficiale della NOI, durante le sue apparizioni pubbliche, poteva sfoggiare le sue capacità dialettiche, affrontava con serenità interviste che suonavano più come interrogatori. Malcolm riusciva infatti a non farsi mai mettere nell’angolo e quasi sempre finiva per condurre lui stesso l’intervista, sfiancando i conduttori bianchi a furia di ripetere le sue parole d’ordine o correggendoli continuamente, rifiutando così la posizione di sudditanza in cui provavano a rinchiuderlo. Malcolm X ha mostrato come sia fondamentale che le comunità oppresse e costrette ai margini non si concentrino sul rispondere alle domande poste da uomini bianchi, che sono quasi sempre impegnati nella difesa del loro status di privilegio, dato da un sistema suprematista dannatamente impegnato nella sua autoconservazione. Le interviste diventano così il palcoscenico da cui ridicolizzare il potere e dove determinare una contronarrazione volta a smontare le retoriche suprematiste; per costruire una generazione di Afroamericane e Afroamericani senza paura, capace di denunciare apertamente il sistema che troppo a lungo aveva insegnato, anche attraverso i leader Neri, a “soffrire pacificamente”.
Il motivo per cui ancora oggi l’Enfant Terrible di Harlem è considerato pericoloso è semplice: Malcolm X predicava il diritto all’autodifesa contro la violenza razziale, rifiutava di farsi zittire dai bianchi che lo accusavano di essere un fomentatore d’odio affermando che nessun uomo bianco potesse dare lezioni di civiltà con mani grondanti di sangue. Questi discorsi andavano a colpire l’atavica paura delle persone bianche di svegliarsi un mattino e scoprire la vendetta delle comunità oppresse.
Chi pensa che Malcolm X fomentasse l'odio non sa cosa significa subire la violenza del potere. Le sue parole hanno permesso di legittimare la rabbia della comunità Afroamericana, una rabbia mossa da amore e desiderio di riscatto, una rabbia degna di esistere e di essere espressa.
Note:
[1] Il Movimento nacque nella prima metà degli anni '50, aveva lo scopo di ottenere la parità di diritti e porre fine alla segregazione e all'esclusione su base razziale. Entro la fine del decennio successivo, il Movimento, ottenne i cambiamenti radicali di cui si era fatto promotore, assicurando la protezione legale di libertà e diritti per gli Afroamericani (Library of Congress).
[2] «I Am Omar». A quest for the true Identity of Omar Ibn Said, a Muslim man enslaved in the Carolinas. The Post and Courier. Sunday, May 29, 2022.
[3] https://www.youtube.com/watch?v=vN8bg2UiiVg&t=152s
[4] African American Registry organization. https://aaregistry.org/story/the-black-legion-formed/
[5] J. Edgar Hoover. West Philadelphia Collaborative History.
From Beliefs To Beats: il ruolo dell’hip hop nell’affermazione della “Musulmanità” Afroamericana
di Hajar Ouahbi
Scritto ascoltando questa playlist:
«Hold up the peace sign, as-salamu alaykum», rappa Big Daddy Kane alla fine di Ain’t No Half-Steppin’. Per decenni, i musulmani Neri hanno adoperato l’hip hop come piattaforma per asserire la loro identità all’interno della Ummah musulmana, trasformandolo al contempo in un potente strumento di liberazione. Attraverso questa forma d’arte, hanno ridefinito l’intersezione di fede e cultura: non solo per loro stessi, ma anche per le altre comunità marginalizzate.

L’influenza duratura dell’Islam sull’hip-hop
Quando ho sentito per la prima volta Plain Jane di A$AP Ferg, sono rimasta stupita dal suo uso ripetuto delle espressioni “Hamdullah” e “Mashallah”. Da musulmana, mi sono chiesta quali fossero le sue motivazioni. Riflettendo sul tema, Ferg ha chiarito: «Non sono musulmano. Mio nonno era musulmano, ma io no. È semplicemente un altro modo per dire “lode a Dio”. Dopo tutto, c’è un solo Dio, giusto? C’è una sola energia». Questa influenza risale a pionieri dell’hip-hop come Rakim, Afrika Islam ed il Wu-Tang Clan. Ad esempio, Mos Def apre il suo album Black on Both Sides con la frase del Corano “Bismillah Ar-Rahman Ar-Rahim”, a riecheggiare la tradizione islamica di purificare le intenzioni prima di iniziare qualcosa. GZA, del Wu-Tang Clan, fa riferimento a Medina, una delle città più sacre dell’Islam, nella sua canzone Gold: «I’m deep down in the back streets, in the heart of Medina/ About to set off something more deep than a misdemeanor». Persino il nome d’arte RZA è un’abbreviazione di Rakim Zig-Zag Allah. Esempi simili evidenziano la profonda impronta dell’Islam sulla cultura hip-hop.
Per comprendere questa connessione, è fondamentale distinguere tra due forme di hip-hop plasmate dall’Islam: l’Islamic Hip Hop e l’American Muslim Hip Hop. Il primo si attiene rigorosamente ai principi islamici: limita gli strumenti musicali, evita il turpiloquio e si concentra su temi dottrinali. Con i loro testi ispirati dalla fede e la loro adesione ai valori dell’Islam, gruppi come i Native Deen, attivi negli anni duemila, sono un perfetto esempio del genere. Di contro, l’American Muslim Hip-Hop è radicato nella relazione di lunga data tra le comunità Afroamericane e l’Islam. Anche se apparentemente paradossale, soprattutto perché nell’Islam la musica viene considerata “haram” (proibita), questo legame affonda le sue radici nella storia, quando la musica è diventata uno strumento politico. «Perché l’Islam?», chiede Elijah Muhammad, leader della Nation of Islam e mentore di Malcolm X: «Perché insegna prima di tutto la conoscenza di sé. Ci dà la conoscenza di noi stessi. Allora, e solo allora, riusciamo a comprendere ciò che ci circonda [...] Questo tipo di pensiero produce persone industriose ed indipendenti».
La Five-Percent Nation: una pietra angolare dell’influenza islamica sull’Hip-Hop negli U.S.A.
La maggior parte dei riferimenti islamici nell’hip-hop statunitense si rifanno alla Five-Percent Nation, un movimento fondato nel 1964. I suoi membri, “il cinque per cento di Allah”, ritengono che il 10% della popolazione sia un élite che occulta la verità all’85% ignorante, mentre il 5% illuminato si adopera per diffondere la conoscenza.

Come ha notato Vice Magazinenel suo articolo sul rapper musulmano Jay Electronica, la Five Percent Nation è stata connessa fin dagli albori con l’hip hop, coniando termini come “ciphers” e “dropping science”. Addirittura ribattezzava i quartieri: Harlem diventava Mecca, e Brooklyn era Medina. Questa influenza si estende ad un’ampia schiera di artisti, inclusi alcuni che non si definiscono musulmani, come il World’s Famous Supreme Team, Busta Rhymes, J. Cole, Jay-Z, Method Man, Brand Nubian, Nas, Common, i Poor Righteous Teachers, Erykah Badu e AZ.
L’Islam e l’hip hop in Europa: un lascito ibrido
Sebbene le radici dell’hip hop affondino saldamente negli Stati Uniti, la sua influenza si è estesa ben oltre, plasmando e venendo ri-plasmata dalle culture di tutto il mondo; Europa inclusa. Tuttavia, la presenza dell’Islam nei testi rap europei non è una mera eco dell’influenza americana. Per molti immigrati di seconda e terza generazione in Europa, l’Islam diventa un’eredità rivendicata, un fondamento che viene adattato e trasformato all’interno della loro duplice realtà culturale: le identità si fondono, creando un’espressione unicamente ibrida. In The Musical Expression of European Muslims: Creation of Tones in the Event of the Religious Norms (2009), l’antropologo belga Farid El Asri spiega: «Gli artisti musulmani europei riformulano le loro identità e forgiano contorni musicalmente islamici, culturalmente ibridi e globalizzati a partire da un sistema di senso definito dalla religione».
La vastità degli imperi coloniali europei ha attratto immigrati di vari paesi con lingue, storie e tradizioni distintive. Malgrado queste differenze, le loro esperienze in Europa spesso convergono: segnate dal razzismo, dalla marginalizzazione e dalla ghettizzazione. Per i musulmani, e persino per i non musulmani, che vivono queste realtà, l’Islam spesso fornisce profondità e coerenza al messaggio del rap. In alcuni casi, l’Islam trascende le divisioni etniche, unendo comunità attraverso credenze condivise. Come dice il gruppo rap francese Ministère A.M.E.R. in un’intervista per la fanzine rap Yours: «Le persone Nere in Francia non hanno una forza collettiva o un legame unificante, dato che vengono da paesi differenti, con differenti storie, lingue e periodi di migrazione. Niente li unisce davvero. Quindi, ai miei occhi, l’Islam è sembrato una delle soluzioni. Per me, l’Islam è un’amalgama per le persone Nere».

Sebbene ci siano dei parallelismi sul ruolo dell’Islam nell’hip hip tra le due sponde dell’Atlantico, le dinamiche differiscono significativamente. In Europa, le comunità Nere che praticano l’Islam spesso aderiscono a tradizioni sunnite simili, per quanto arricchite da sfumature culturali. Questo quadro religioso condiviso generalmente rafforza l’unità della Ummah. Di contro, gli Stati Uniti riflettono un differente intreccio storico e politico tra l’Islam e i movimenti di liberazione Afroamericani. Questa connessione, esplorata in precedenza, ha favorito lo sviluppo dell’ “Islam Nero”.
Islamofobia, segregazione e “Islam Nero”: la negazione dell’Islam per le comunità nere
All’interno degli Stati Uniti, dove i musulmani formano una minoranza multirazziale, persistono delle tendenze segregazioniste; sia esternamente che internamente. Esternamente, i musulmani Afroamericani spesso fronteggiano la negazione della loro identità musulmana da parte dei non-musulmani. Gli studiosi sostengono che ciò sia prevalentemente dovuto al predominio delle tradizioni sud asiatiche e arabe nella formazione della rappresentazione pubblica dell’Islam negli Stati Uniti. Nella sua opera seminale Islam and the Blackamerican: Looking Toward the Third Resurrection (2005), Sherman Jackson esamina come i musulmani Neri negli Stati Uniti lottino per ritagliarsi uno spazio in una comunità musulmana in cui le tradizioni dei migranti spesso impongono cosa vuol dire essere un “autentico” musulmano. Questo paradigma esclude l’Africa dal cosiddetto “mondo musulmano” e rafforza una definizione ristretta dell’Islam che marginalizza i musulmani Neri.
Internamente, alcuni circoli musulmani esprimono disagio nei confronti della non ortodossia percepita di determinate pratiche islamiche Afroamericane. Su’ad Abdul Khabeer affronta questa complessità inquadrando l’Islam Nero come un “grande cappello” che include diverse espressioni di fede. Scrive: «Utilizzo il termine “grande cappello” per descrivere le differenti forme di credenze e pratiche islamiche che troviamo negli Stati Uniti Neri. Sotto questo grande cappello, includo l’Ahmadiyya Muslim Community, il Moorish Science Temple, la Nation of Islam e la Five Percent Nation of Gods and Earths, così come le ortodossie sunnita e sciita (incluse le tradizioni Sufi). Questo approccio apparirà controverso ai musulmani sunniti e sciiti che identificano alcuni di questi gruppi come non ortodossi o addirittura non musulmani. Ciò deriva dal disaccordo sull’interpretazione del Corano e delle tradizioni del Profeta Maometto, e parimenti dai modi in cui le pratiche culturali dei musulmani statunitensi di origine araba e sud asiatica definiscono l’Islam. Ad esempio, i fez e i turbanti dei Moorish, i papillon della NoI e persino i gele (foulard) indossati da molte donne sunnite Nere negli Stati Uniti sono spesso considerati come eccedenti i confini del “vero” Islam. Comunque, non utilizzo questo termine per definire arbitrariamente cos’è o meno il “vero” Islam».
Queste differenti tradizioni dell’Islam Nero condividono uno scopo comune: combattere le ingiustizie affrontate dalle comunità Nere, per quanto la loro influenza vada al di là di questo. Ognuna di queste tradizioni opera per sfidare i sistemi ingiusti offrendo nuovi modi di pensare, organizzarsi e vivere che contribuiscano all’empowerment degli individui e delle loro comunità. L’empowerment, difatti, è fondamentale in questa storia. Nell’epoca post-11 settembre, in cui i musulmani affrontano un’intensificazione della sorveglianza e del sospetto ai loro danni, la solidarietà entro ed oltre l’Islam Nero è divenuta essenziale per la resilienza e la sopravvivenza. Hisham Aidi, in Rebel Music: Race, Empire and the New Muslim Youth Culture (2014), esplora come le esperienze Afroamericane abbiano modellato la diaspora musulmana globale. Enfatizza il ruolo della musica per i giovani musulmani come strumento per esprimere frustrazione di fronte alle politiche che prendono di mira le loro comunità con il pretesto dell’antiterrorismo. Questi si sarebbero riuniti intorno ad un nuovo sound hip hop come forma di resistenza.
“Muslim Cool”: come la musulmanità Afroamericana plasma l’identità musulmana negli Stati Uniti
Su’ad Abdul Khabeer introduce il concetto di “Muslim Cool”, che re-inquadra intorno alla Nerezza l’identità musulmana statunitense, fornendo un contrappunto alle predominanti influenze sud asiatiche e arabe all’interno delle comunità musulmane americane.

Nel suo studio etnografico, Abdul Khabeer sostiene che la Nerezza sia fondamentale per plasmare una precisa identità musulmana americana. La descrive come una cornice che non solo affronta le diseguaglianze sistemiche e razziali, ma invita anche i musulmani americani a confrontarsi profondamente con la loro fede ed identità. Illustra la tesi con la storia di un uomo libico-americano che riscopre l’Islam attraverso l’hip hop. Influenzato dalla filosofia del Five Percent e dal Muslim Cool, arriva a definire l’Islam attraverso principi come “conoscenza, saggezza, comprensività, giustizia, libertà, uguaglianza, amore, pace e felicità”. Per Abdul Khabeer, l’hip hop e l’Islam Nero offrono ai musulmani americani una lente trasformativa per navigare parimenti la loro fede e il loro posto nella società.
Abbracciare il Muslim Cool implica affrontare delle sfide, persino all’interno delle comunità musulmane nere. Alcuni lo rigettano, prediligendo pratiche legate alle norme sud asiatiche e arabe. Abdul Khabeer osserva che queste reazioni spesso si traducono nel controllo di ciò che è ritenuto autenticamente Islamico, contribuendo a normalizzare la marginalizzazione delle espressioni culturali Nere. Certamente, il “Muslim Cool” sfida direttamente queste norme restrittive. Radicato nell'etica dell'hip hop e dell'Islam Nero, afferma che, così come l’hip hop incarna l’Islam, l'Islam incarna la libertà.
Note:
[1] Muhammad, E. (23 novembre 1960). Elijah Muhammad Speaks on the Importance of History. WNTA Radio, New York.
[2] Vice Magazine. (2013). The Prestige, The Five Percenters, and Why Jay Electronica Hasn’t Released His Debut Album. https://www.vice.com/en/article/the-prestige-the-five-percenters-and-why-jay-electronica-hasnt-released-his-debut-album/
[3] Fanzine Yours.
[4] Abdul Khabeer, S. (2016). Muslim Cool: Race, Religion, and Hip Hop in the United States. New York, NY: New York University Press
3. (Dis)orientalizing Amreeka da Aladdin a Malcolm X : come Hollywood ha alterizzato i musulman*
di DARNA
«Oh, provengo da una terra
Da molto lontano
Dove vagano carovane di cammelli
Dove ti tagliano l’orecchio
Se non gli piace la tua faccia
È da barbari, ma ehi, è casa»
Le Notti d'Oriente - Bruce Adler
Benvenut* ad Aghrabah città del mistero
È il 25 Novembre del 1992, le sale cinematografiche si riempiono di famiglie intere. Le luci si spengono e sullo schermo viene proiettato Aladdin, il lungometraggio Disney di Ron Clements e John Musker. Le prime scene si aprono con la popolarissima canzone Arabian Nights, Notti D’Oriente in italiano. Nonostante il film sia diventato una pietra miliare della cultura pop occidentale, non è molto conosciuta la discussione che ne ha accompagnato l’uscita. Nelle prime settimane, il film ha ricevuto molte critiche dalla American-Arab Anti-Discrimination Committee (Commisione Araba-Americana contro la discriminazione) che con le sue proteste ha spinto affiché la seconda metà del secondo verso del brano di apertura fosse cambiato in «It’s flat and immense, and the heat is intense». Secondo la ADC il testo originale suggeriva che questo “posto lontano”, probabilmente un paese Arabo, fosse terra di persone violente e barbare e quindi diseducativo e discriminatorio: «Where they cut off your ear, If they don't like your face ». Il presidente della commissione ADC commentò il caso affermando: «Non voglio che i miei nipoti siano esposti agli stessi vecchi e logori stereotipi di cui i miei figli erano imbarazzati quando crescevano. E' da tempo giunta l'ora che Hollywood ritragga gli Arabi e gli Arabo-Americani con la stessa complessità e dimensione che vengono ora accordate alle altre minoranze. [...] E vogliamo attori, registi e sceneggiatori Arabo-Americani che ci diano una visione nuova e fresca del mondo arabo, fedele alla cultura e fedele alla storia»[1].
Indipendentemente dalla modifica poi apportata all’uscita del film in VHS, è importante notare come la frase finale, «It’s barbaric, but hey, it’s home», che nella versione italiana recita: «Che barbarie ma è la mia tribù!», sia stata mantenuta ed è cantata tutt’oggi. Aladdin fa parte di un largo immaginario a cui siamo stati esposti consciamente e subconsciamente fin da bambini.
Per l’intellettuale Palestinese Edward Said, il quale si è dedicato estensivamente al rapporto tra discorso e potere, tra l’immagine di “Occidente” e la sua creazione di un indefinito “Oriente”, la rappresentazione mistificata dell’Arabo ha come scopo la sua completa alterizzazione, in modo da giustificare la dominazione coloniale sotto il segno della “civilizzazione”. Said chiama Orientalismo questo sguardo che, al servizio del colonialismo prima, e del razzismo istituzionale e dell’islamofobia poi, descrive i popoli Arabi come incapaci di governarsi da soli, irrazionali, selvaggi e barbari, e quindi domabili.
Quando si parla di cinema e della sua storia, si tende spesso a ignorarne le origini coloniali e a non collocarlo nel tempo. Il cinema come mezzo di narrazione nasce in Francia a fine Ottocento, in pieno espansionismo coloniale e costruzione degli stati-nazione. Quindi, ne deriva logicamente che, se da un lato la pellicola rappresentava la scoperta di un nuovo modo di raccontare il mondo, di divulgare e far scoprire, dall’altro lato è pure vero che il cinema nelle colonie arriva come strumento di potere e di costruzione di una narrazione romanzata e valorosa dell’impresa coloniale Europea. Cosa eredita l’industria di oggi, di questo patrimonio narrativo e politico? E soprattutto, è stato decostruito?
Nel documentario sperimentale Introduction to the End of an Argument (1990), Elia Suleiman mostra come questo artificio abbia attivamente partecipato all’occupazione sionista della Palestina. Il regista, mettendo in serie scene di film hollywoodiani, Europei e Israeliani, documentari e servizi giornalistici, mostra il rigurgito mediatico occidentale e la sua rappresentazione del “Medio Oriente”, della cultura Araba e dei Palestinesi. L'immaginario è lo stesso che struttura i versi di Arabian Nights: l’inciviltà è la regola, ma è pur sempre casa. Casa del terrorista, del saggio con il dashiki, della hijabi da salvare, della danzatrice del ventre esotica, dell’Imam pazzo e del musulmano moderato. Queste sono le figure caricaturali e archetipiche di una visione totalizzante e imperialista, di origine coloniale, che popolano i film di Hollywood e da anni legittimano la violenza verso le comunità Arabe e Musulmane. Tuttavia, così come i popoli resistevano alla colonizzazione, molti cineasti locali vedevano nella cinepresa un’arma per sovvertire il potere coloniale; è il caso del Terzo cinema, corrente cinematografica indipendente e rivoluzionaria strettamente legata alla decolonizzazione.

È proprio da questo universo visivo che abbiamo maturato l’esigenza di realizzare Darna, in arabo “casa nostra”, per contrastare e decostruire narrazioni dominanti stereotipate. Sentiamo il bisogno di creare e riappropriarci di spazi per far circolare narrazioni che sono intenzionalmente relegate ai margini, di dare risalto a linguaggi cinematografici autentici, costruiti da e per le stesse comunità rappresentate. Il nostro obiettivo è stato fin da subito quello di spostarci da una visione eurocentrica della circolazione mediatica. Nell’ambito del cinema commerciale, ma che non si relega solo a questo , c’è questo tacito assunto per cui le traiettorie mediatiche viaggiano da un “Nord” che spesso coincide con Hollywood, verso un “Sud” che riceve e assimila passivamente o imita. Sovvertire questo binomio significa supportare e promuovere narrazioni ai margini non al fine di assimilarle a un “centro” economicamente e socialmente costruito, ma per ridare centralità alle voci subalterne.
Proviamo a pensare dove si trovano la stragrande maggioranza dei fondi e finanziamenti per il cinema. Non è tanto difficile individuare come le stesse dinamiche di potere coloniali continuino a riprodursi e mantenersi in un mondo in cui lo “spettro” del colonialismo non ha mai cessato di esistere. Molte registe e registi della diaspora sono costretti a scendere a compromessi per realizzare i loro progetti. Spesso questi prodotti vengono modellati per poter attingere da un universo simbolo più “familiare” al pubblico occidentale. Il film American Fiction (2023) lo racconta con tono ironico e pungente smascherando l’ipocrisia dell’industria dell’arte americana.
«The only good Arab is a dead Arab» - American Sniper
Nel corso della storia, i due termini “arabo” e “musulmano” vengono intenzionalemente sovrapposti come se coincidessero, con il fine ultimo di alimentare un artificio narrativo politicamente elaborato. Gli Arabo-Americani, di maggioranza cristiana (con componenti musulmane, giudaiche e laiche) rappresentano una comunità complessa e plurale, proveniente dalla regione SWANA[2], mentre i Musulmani d’America sono figli di diverse diaspore e aree geografiche come l’Asia Sud-Orientale o l’Africa Subsahariana. Cherien Dabis mostra bene questo luogo comune in Amreeka (2009), quando Mr. Novatsky si stupisce nello scoprire che la protagonista Muna è Palestinese cristiana.
Parallelamente alla crescita del numero dei musulmani in America, è aumentata anche l’islamofobia. Nell’immaginario comune, quest’ultima, è associata agli eventi dell’11 settembre, ma odio e discriminazioni contro la comunità Musulmana risalgono a decenni prima. Ne parla Mahmoud Abdel Raouf in By the dawn’s early light: Chris Jackson’s Journey To Islam (2004), cestista statunitense la cui casa è stata bruciata da un’incursione del Ku Klux Klan. Nel documentario Reel Bad Arabs: How Hollywood Vilifies a People del 2006 di Sut Jhally, il ricercatore Jack Shaheen descrive sinteticamente la rappresentazione degli arabi e dei musulmani dopo aver visionato circa 1000 film realizzati tra il 1896 e il 2000. Shaheen conclude che questa rappresentazione è il risultato di una caricatura stereotipata: circa 900 film offrivano una rappresentazione negativa, 52 erano neutrali, e pochi ne mostravano una positiva.
Sullo schermo dunque, è questa l’immagine che appare: quella di un blocco monolitico di persone che ignora l’esistenza di una comunità Americana più ampia e complessa. Tuttavia documentari come New Muslim Cool (2009) e An Act Of Worship (2022) e film come The Taqwacores (2010) e Jinn (2018) hanno contribuito all’inclusione di storie di portoricani convertiti, musulmani punk e donne Nere.
Tornando ad Aladdin, una settimana prima della sua uscita nella versione “originale”, veniva proiettato negli USA Malcolm X (1992) di Spike Lee, che cattura l’essenza dell’uomo politico e religioso, offrendo una nuova visione dei Musulmani Afroamericani. La comunità Musulmana Nera, infatti, rappresenta oltre la metà dei musulmani radicati in America da tre generazioni, ha una storia secolare nella costruzione delle culture musulmane Americane. Nonostante ciò, la sua presenza è spesso trascurata o associata a stereotipi negativi, come l'eterodossia e l’odio anti-americano. Se nella visione orientalista viene rappresentata la dicotomia “Good Muslim” e “Bad Muslim”, la stessa viene impiegata nella raffigurazione del “bravo Musulmano Nero” che per non essere una minaccia, necessita di essere un’agente dello stato come Ahmet in Five Fingers (2006). Durante gli anni ‘90, però, film come Daughters of the Dust (1991) e South Central (1992) iniziano a includere personaggi Musulmani Afroamericani, esplorando le intersezioni tra identità religiosa e culturale, tra la lotta politica e spirituale. I film Afroamericani iniziarono a offrire rappresentazioni più articolate, anche se spesso confinate al racconto di figure iconiche come Muhammad Ali o Malcolm X.
Invisibili e ingombranti allo stesso tempo
Nel processo di selezione di film per le proiezioni Darna, spesso riscontriamo difficoltà nel trovare film fiction di genere validi, prodotti in Europa o in America: fantascienza, horror o una banale commedia romantica sembrano non appartenerci. Consapevoli delle cause citate fino ad ora, e senza voler cascare nel rigido separatismo tra “cinema e cinema documentaristico”, la conclusione che abbiamo riscontrato è che i musulmani esistono: o come stereotipi e caricature in “Mediascapes”[3] che non gli appartengono, o in rappresentazioni iperrealiste per contrastare le prime; oppure non esistono affatto e vengono quindi invisibilizzati.
Ci sono chiaramente delle eccezioni, come le serie di Ramy (2019) e Mo (2022), che rappresentano un approccio innovativo alla narrazione delle vite dei Musulmani Americani. Ramy, un giovane Egiziano-americano, affronta il conflitto tra fede e modernità, mentre Mo, un rifugiato Palestinese, cerca un equilibrio tra le sue radici culturali e la vita negli Stati Uniti. Entrambe le opere hanno suscitato dibattiti per la rappresentazione progressista dell’Islam e delle complessità identitarie, offrendo però uno sguardo autentico e sfaccettato su fede, lavoro, famiglia e amore.
D’altro canto, il documentario resta il mezzo più diretto per la denuncia sociale. In The Feeling of Being Watched (2018), Assia Boundaoui esplora il sistema di sorveglianza che colpisce i musulmani nel suo quartiere a Chicago e in generale negli Stati Uniti. Le leggi Patriot Act del 2001 e Muslim Ban del 2017 hanno normalizzato il razzismo e l’islamofobia nel paese, rendendo una probabile minaccia ogni persona musulmana. Queste leggi hanno contribuito alla diffusione di uno sguardo intrusivo e coloniale sulle comunità Musulmane Americane.
Mostrare punti di vista alternativi e subalterni può essere un modo per complessificare il “mito della rappresentazione”. Come osserva Boundaoui: «È nell’atto di guardare indietro e parlare a voce alta che diventiamo meno alienati, meno paralizzati dalla nostra paranoia. Forse l’unico modo per interrompere la sorveglianza è fare in modo che anche coloro che osservano siano osservati»[4] Ribaltare lo sguardo, trasformando gli osservati in osservatori, non è solo una forma di rivendicazione, ma un atto di autodeterminazione. Non vogliamo più essere oggetti passivi di narrazioni imposte, ma soggetti attivi delle nostre storie.
Lista Letterboxd curata da DARNA con i pochi (pochissimi) film americani con personaggi musulmani oltre il jihadista e la danzatrice del ventre:
Note:
[1] Ziad Asali in: Arab Stereotypes and American Educators by Marvin Wingfield and Bushra Karaman p. 3 Articolo della ADC; parte di: Beyond Heroes and Holidays: A Practical Guide to K-12 Anti-Racist, Multicultural Education and Staff Development, edited by Enid Lee, Deborah Menkart, and Margo Okazawa-Rey (AK Press, 2007).
[2] S.W.A.N.A. è una parola decoloniale per la regione del Sud-Ovest Asiatico/Nord Africa (South West Asian/ North African - S.W.A.N.A.) al posto di Medio Oriente, Vicino Oriente, Mondo Arabo o Mondo Islamico che hanno origini coloniali, Eurocentriche e Orientaliste e sono state create per confondere, contenere e disumanizzare i popoli che vivono queste regioni geografiche (SWANA Alliance).
[3] "Mediascapes" neologismo con il quale, l’antropologo indiano Arjun Appadurai, ha definito quei «repertori di immagini e narrazioni in cui il mondo del consumo, delle notizie e della politica si mescolano grazie alla circolazione delle immagini»(Meltemi, 2018).
[4] Tratto dal film: The feeling of Being Watched (2018), Assia Boundaoui.
Riferimenti
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3) Malcolm X and Nation of Islam: https://youtu.be/uZZ-j4ZB-Go?si=d1ltqIeyuETyD1Mm
3) Malcolm X debates Bayarn Rustin: https://www.youtube.com/watch?v=YmVjIooLCe8
4) Malcolm X on Reparations: https://www.youtube.com/watch?v=YmVjIooLCe8
5) Meeting Castro: https://youtu.be/6b34FU53phw?si=N_mMnfGPjjXtUwJO
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Musica
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