Gang Signs (…o della criminalità Afroamericana contemporanea)
A cura di Gabriel Seroussi e Stefano Ricaldone
A cura di Gabriel Seroussi e Stefano Ricaldone
Nell'immaginario collettivo le gang stanno alla comunità nera come la Mafia sta agli italiani. Eppure la realtà è ben diversa. La storia delle gang è sia una storia criminale ma anche una di auto-organizzazione dal basso, di risposta comunitaria alle difficoltà imposte dalla società Americana. Grazie al rap, le gang sono poi entrate nella cultura di massa diventando così centrali nel dibattitito pubblico e nell'agenda politica dei presidenti americani.
di Gabriel Seroussi
La storia degli Afroamericani è una storia di criminalizzazione, non si può prescindere da questa premessa. Una narrazione tossica ha investito per secoli - e tutt’ora investe - la comunità Afroamericana. Una distorsione dalle radici assai profonde che si è alimentata nel tempo come risposta dei bianchi statunitensi all’empowerment della comunità nera.
Raccontare la traiettoria delle gangs come forma tipica della criminalità Afroamericana contemporanea significa quindi, innanzitutto, cercare di disintossicare l’argomento dai suoi elementi illegittimi. Per fare ciò è opportuno accordarsi su cosa si intenda con il termine "gang". Con la parola “gang” identifichiamo gruppi armati di diverse tipologie che occupano porzioni di territorio di quello che il sociologo John Hagedorn definisce “world of slums”, ossia l’insieme di quelle aree povere e marginalizzate che a seconda delle lingue prendono il nome di ghetti, favelas o barrios [1]. Il fenomeno delle gang ha quindi luogo in contesti in cui l’oppressione raziale, etnica o economica persiste nel tempo. Questi gruppi spesso sono portatori di una marcata forza identitaria proprio in risposta alla delusione delle aspettative che la società contemporanea riserva a coloro che abitano il world of slums.
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Non è un caso che le prime manifestazioni del fenomeno delle gang si palesino nelle metropoli statunitensi di inizio novecento. È infatti l’urbanizzazione selvaggia dell’occidente, apice dello sviluppo industriale di fine secolo, ad innescare meccanismi sociali nuovi ed incontrollati. Città come New York o Chicago si trasformano nell’arco di qualche decennio da centri mercantili a metropoli industriali la cui espansione non aveva eguali nella storia. Questa espansione è stata sostenuta da un afflusso di migranti senza precedenti. Arrivano italiani, irlandesi, russi e polacchi ma anche tedeschi, scandinavi, ebrei e un gran numero di americani proveniente dallo sterminato entroterra del continente. Si parlano lingue, si professano religioni, si hanno costumi diversi. In questa Babilonia contemporanea ci sono anche gli Afroamericani. Tra il 1910 e il 1940 più di un milione e mezzo di neri raggiunge le metropoli nord-orientali degli Stati Uniti. È la First Great Migration, il primo spostamento di massa di uomini e donne Afroamericane in fuga dal regime di segregazione razziale in vigore negli stati meridionali. Le metropoli industriali americane diventano quindi il punto di incontro tra comunità e culture lontanissime tra loro. La speranza in una vita migliore e il semianalfabetismo sono il comune denominatore per milioni di immigrati provenienti da ogni angolo del pianeta.
Per moltissimi è uno shock culturale senza precedenti. Da un società contadina, innervata su principi religiosi, su gerarchie valoriali chiare, si migra verso una civiltà urbana, concepita sulle basi ideologiche dell’Individualismo ottocentesco. In questo contesto nuovo il concetto di “successo”, inteso come raggiungimento di risultati individuali riconosciuti collettivamente, è un valore centrale; ma nella società americana di inizio novecento il “successo” è qualcosa per pochi. Infatti gli immigrati sono costretti a confrontarsi con un contesto difficile. Le condizioni di lavoro precarie, il razzismo sistemico e la mancanza dei servizi essenziali costringono le comunità trapiantate a trovare delle forme nuove di organizzazione interna.
Così nascono le prime gang: come strumento di realizzazione di un “successo” individuale e come mezzo di autorganizzazione delle minoranze etniche nelle metropoli statunitensi di inizio novecento. In questa fase embrionale le gang si configurano quindi come gruppi di potere interni alle singole comunità che attraverso mezzi legali e non tentano di intervenire nella gestione della vita collettiva. La direzione dei flussi elettorali, l’amministrazione dei rapporti di lavoro, i dissidi interni, la sicurezza e il controllo economico della comunità sono i terreni su cui le gang cercano di imporre il proprio potere. La capacità amministrativa di questi gruppi è ovviamente legata al potere finanziario che sono in grado di esprimere. Oltre ad una serie di business legali, le gang si occupano quindi del gioco d’azzardo, dello sfruttamento della prostituzione, del prestito a usura e, in un secondo momento, della produzione e della vendita di alcolici.
Esclusi pochi esperimenti limitati nel tempo, tra gli Afroamericani non emergeranno soggetti in grado di confederare questi gruppi di potere all’interno di forme associative più complesse. La comunità nera, a differenza di quella italiana ed ebraica, non si struttura su legami familiari intensi e vive una condizione di marginalizzazione quasi totale dal resto della società. Di conseguenza le gang Afroamericane non riescono ad arricchirsi quanto le altre e restano confinate nel recinto della propria comunità. Mentre negli anni trenta la mafia Italoamericana prospera sulle ceneri del proibizionismo, la gang nere non compiono lo stesso salto di qualità.
La comunità Afroamericana resta quindi isolata, povera e sostanzialmente segregata anche nelle metropoli del nord. Perfino nella rinascita sancita dal New Deal – il pacchetto di misure economiche varato dal presidente Roosevelt in risposta alla crisi del 1929 – i neri vengono lasciati sostanzialmente indietro [2].
Con l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale molto sta per cambiare nella comunità. Il conflitto contribuisce alla formazione di una identità collettiva Afroamericana. I milioni di neri che hanno servito la nazione in Europa tornano a casa consapevoli del sacrificio fatto in nome della libertà e stanchi dei soprusi a cui sono sottoposti in patria. Nasce il Movimento per i diritti civili. Nel frattempo si compie un altro esodo di massa: la Second Great Migration. In questo caso la migrazione dei neri ha due diversi approdi: le metropoli nord-occidentali e la California, la nuova frontiera della prosperità americana. Negli anni cinquanta un miglioramento generico delle condizioni di vita investe l’intera popolazione. Anche tra gli Afroamericani si forma una piccola borghesia.
Nell’ambito criminale la mafia Italoamericana è diventata una potenza intercontinentale. Le gang nere tentano con scarsi successi di confederarsi. A Harlem il gangster Afroamericano Bumpy Johnson si assoggetta alla famiglia Gambino per entrate nel business dell’eroina, la “nuova” sostanza che sta rivoluzionando il mercato della droga. Questo tipo di rapporto di sudditanza persisterà negli anni. Soltanto in rarissimi casi le gang nere riusciranno a smarcarsi dal potere della mafia. Questi casi coincidono con i pochi esempi di associazioni criminali complesse emerse nella comunità Afroamericana: l’organizzazione di Frank Lucas a New York e la Black Mafia di Samuel Christian a Filadelfia ne sono gli esempi più celebri.
Negli anni Sessanta negli Stati Uniti il clima sociale è radicalmente cambiato. La cieca fiducia nel progresso si è impantanata nella Guerra in Vietnam. Intanto nella comunità Afroamericana il Movimento per i diritti si è sostanzialmente spaccato in due tronconi. Mentre nello sterminato sud domina il movimento pacifista, cristiano e integrazionalista di Martin Luther King, nelle metropoli del nordest e dell’ovest alla guida c’è l’incandescente “nazionalismo nero”. Questa corrente di pensiero radicale e identitaria ha mille sfaccettature: tutte, o quasi tutte, sono state incarnate dal percorso intellettuale di Malcolm X. Nel 1965 il quartiere nero di Watts a Los Angeles è teatro di uno dei riot più sanguinosi della storia. Dopo cinque giorni di battaglia il bollettino è di trentaquattro morti, mille feriti e più di tremila arrestati. Watts non è un caso isolato. Nell’arco di pochi anni ci sono rivolte ad Harlem, a Detroit, a Newark, a Chicago.
Le cause della rabbia nera sono molteplici. La Second Great Migration ha ingigantito le comunità afroamericane nelle metropoli – a Los Angeles il numero di Afroamericani è cresciuto di sei volte tra il 1940 e il 1960 [3]. Ma, a differenza degli anni cinquanta, l’economia rallenta e la fiducia nell’integrazione razziale diminuisce. Infatti, nonostante gli avanzamenti legislativi nell’ambito dei diritti civili, la comunità Afroamericana resta una minoranza repressa e marginalizzata. Le opportunità di ascesa sociale diminuiscono, la disoccupazione aumenta, i quartieri neri diventano veri e propri ghetti.
In questo contesto la riscossa identitaria proposta dal “nazionalismo nero” rappresenta una speranza di rivalsa per la comunità. L’attivismo politico radicale è un fenomeno di massa tra i giovani neri che abitano le metropoli statunitensi. Negli anni sessanta è quindi possibile osservare una convergenza tra il ruolo delle gang e delle organizzazioni politiche nei ghetti Afroamericani. Alcune organizzazioni politiche - come per esempio la Nation of Islam - utilizzano le gang come “braccio armato” del movimento nero. I concetto di autodifesa, di controllo del territorio, di amministrazione dei rapporti interni alla comunità creano in molti casi una comunione di interessi.
Ma la rabbia degli Afroamericani cresce di pari passo con la paura dei bianchi. La reazione istituzionale alla presa di parola del movimento nero è furiosa. La violenza dello Stato americano decapita il movimento tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.
Una generazione di giovani neri si trova alle porte delle sfide imposte dalla globalizzazione senza più una speranza in un futuro migliore. Impoveriti, delusi, arrabbiati: la gioventù Afroamericana esce distrutta dalla sconfitta sanguinosa del movimento nero.
È qui, nelle macerie lasciate dagli anni Sessanta, che avviene l’emersione delle grandi e diffuse gang Afroamericane.
Note:
[1] Hagedorn, John. 1999.
[2] Luconi, Stefano. 2015.
di Gabriel Seroussi
La comunità Afroamericana si risveglia frastornata all’alba degli anni Settanta. Le lotte sociali del decennio precedente sembrano un ricordo lontano. L’atmosfera è cupa. La sconfitta del movimento nero è materiale ma anche e soprattutto psicologica. È venuta meno non solo la speranza in un futuro migliore ma la fiducia nei mezzi per ottenerlo. Il metodo democratico e il sogno socialista sono tramontati. La disillusione spinge i giovani Afroamericani ad abbracciare un cinismo cieco e individualista. È una forma nuova di nichilismo inteso “non come dottrina filosofica […] ma come esperienza, vissuta sulla propria pelle, di affrontare una vita di orribile mancanza di significato, di speranza e (soprattutto) d’amore”[1]. Come se non bastasse nuovi ostacoli si prospettano nel futuro della comunità Afroamericana. La ristrutturazione dell’economia occidentale è alle porte. La globalizzazione offre alle imprese l’opportunità di delocalizzare all’estero: si apre la fase di deindustrializzazione dell’economia americana. A pagarne il prezzo sono le fasce più deboli della società. La disoccupazione aumenta mentre i servizi pubblici diminuiscono. I quartieri poveri delle metropoli sono lo spazio in cui convergono questi processi, con l'aggiunta di un generale abbandono e degrado immobiliare. Intere aree di Los Angeles, New York e Chicago diventano sostanzialmente dei territori estranei al controllo governativo. Le gang non fanno altro che riempire questo vuoto lasciato dallo Stato americano.
Sono giovani, armati e neri: gruppi di ragazzi senza più alcuna speranza al di fuori della propria rivalsa individuale. La nuova generazione di gangster è spogliata “di qualunque afflato rivoluzionario, di qualunque ethos socialmente costruttivo”[2].
Gli anni Settanta la fase dell’infanzia del gangsterismo contemporaneo. Un periodo di transizione in cui i gruppi organizzati sono ancora pochi e si spartiscono le briciole di un sistema criminale dominato da realtà più consolidate. A mancare sono sia le opportunità economiche che il know-how per sfruttarle. Nel quadro complessivo della condizione Afroamericana negli anni Settanta, si delineano però contesti differenti che influenzano anche le realtà criminali. Per cui, seppur condividendo moltissimo, le gang nere si sviluppano in forme peculiari nelle diverse zone del Nord America.
Nella fascia nord-orientale degli Stati Uniti spicca chiaramente il caso di New York. La capitale economica del paese si scontra per prima con le conseguenze della ristrutturazione economica vivendo il suo decennio nero. Una profonda crisi attanaglia la città che per la prima volta nella sua storia vede scendere il numero degli abitanti. Intere zone della città vengono abbandonate. La comunità nera - insieme a quella portoricana - è rimasta l’unica ad abitare quartieri ormai degradati. Nel frattempo vengono tagliati sia i servizi essenziali che i progetti sociali - come per esempio la Mobilization for Youth [3] - pensati per offrire alternative ai giovani abitanti delle periferie.
Le gang prendono quindi piede in un contesto di desolazione totale. Questi giovanissimi gruppi organizzati nascono principalmente nel South Bronx, dove il controllo della generazione più adulta della criminalità Afroamericana non può arrivare. Come viene rappresentato – non senza contraddizioni e caricature – da un film cult come I guerrieri della notte, le prime gang sono più impegnate a farsi la guerra tra di loro che a cercare di arricchirsi. Le attività criminali svolte in questa fase sono quindi rapine e furti di poco conto, spaccio di marijuana ed eroina al dettaglio e incendi su commissione per gli speculatori edilizi - una vera e propria piaga dei ghetti newyorkesi. Un aspetto peculiare delle gang che abitano la grande mela è la natura mista dei gruppi organizzati in cui neri e portoricani agiscono come un’unica comunità. In questa fase d’infanzia del gangsterismo è inoltre interessante osservare la nascita di una cultura di strada con propri codici estetici. Anch’essi, nonostante gli elementi comuni, si differenziano ampiamente da costa a costa.
I giovani gangster newyorkesi indossano giacche di pelle su cui sono cuciti i simboli dei rispettivi gruppi. Da Gengis Khan alle svastiche, dai riferimenti satanici ai film dell’orrore: un vastissimo immaginario del maligno è alla base dell’iconografia criminale delle prime gang newyorkesi. Tale simbologia diventa di volta in volta protagonista di tatuaggi, di slogan e di primissimi graffiti. È in questo contesto complesso che nell’arco di qualche anno prenderà piede la cultura hip hop.
La situazione è ben diversa nel Midwest – la zona centro-settentrionale degli Stati Uniti, cuore pulsante dell’industria americana. A dominare questo vastissimo territorio c’è Chicago, una delle metropoli più grandi dell’intero continente. Sulle rive del lago Michigan le gang Afroamericane sono molto diverse dalle bande di giovanissimi che abitano le strade newyorkesi.
I primi gruppi organizzati nascono già a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. La Black Gangster Discipline Nation, i Vice Lords e i P-Stones, insieme ai Messicani-americani Latin Kings, riescono nel corso del tempo a soppiantare l’Outfit, la storica mafia Italoamericana di Chicago. Impegnati nella gestione dello spaccio di stupefacenti, queste gang si spartiscono negli anni Sessanta vaste parti del territorio cittadino.
Molto più che in altri contesti, a Chicago si crea un legame stretto tra l’attivismo politico e la criminalità nera rendendo la linea di separazione tra i due mondi molto sfumata. Nasce la LSD, ossia Lords, Stones and Disciplines, una coalizione tra le gang più importanti della città per sostenere le iniziative delle Black Panthers. Nella stessa fase alcuni gruppi entrano addirittura direttamente nell’agone politico creando società per la promozione di attività sociali - i Conservative Vice Lords ne sono l’esempio più noto. La decapitazione del movimento nero negli anni settanta riporta indietro l’orologio della storia delle gang che ripongono in un cassetto ogni ambizione politica per tornare a dedicarsi esclusivamente alle attività criminali. Si creano così i presupposti per le due grandi alleanze contrapposte che si spartiranno il controllo Chicago per più di tre decenni: la People Nation e la Folk Nation.
Sulla West Coast lo sviluppo delle gang Afroamericane ha tutte altre peculiarità. Innanzitutto le città che costellano la costa pacifica americana si sono espanse in maniera massiccia più tardi rispetto alle altre. Inoltre, la comunità Afroamericana si è stabilita in massa in questi territori solo a partire dagli anni Quaranta. Come i Messicani prima di loro, i neri si sono presto visti esclusi dall’enorme crescita economica che ha visto protagonista la California.
In un contesto di grave segregazione territoriale, la comunità nera ha dovuto rispondere negli anni Sessanta anche a numerosi attacchi da parte di gruppi di bianchi. I "club" per la difesa della comunità, disseminati per i ghetti di Los Angeles, sono in qualche modo lo stampo su cui negli anni successivi sarebbero nate le prime gang. Queste bande sono il braccio armato del movimento nero contro le azioni violente dei suprematisti bianchi. Con la sconfitta delle lotte sociali negli anni Sessanta, i componenti di questi gruppi non hanno scelto di deporre le armi. Nel 1969 nasce una delle gang più famigerate del panorama americano: i Crips. Poco dopo, forse proprio in risposta allo strapotere dei Crips, una compagine di gang decide di confederarsi dandosi il nome di Bloods. La modalità con cui nascono i Bloods mostra un carattere peculiare della criminalità nera della West Coast. Le gang Afroamericane di Los Angeles crescono per affiliazione. Le piccole bande di quartiere scelgono per convenienza di entrare a far parte di insiemi più ampi. L’ingresso all’interno di una confederazione non significa però una perdita di sovranità. Affiliarsi ai Crips o ai Bloods è una modalità per assumere prestigio nel quartiere e coordinarsi con gruppi di altre zone, non ci sono catene di comando assimilabili a quelle di associazioni criminali complesse. L’organizzazione interna prevede la presenza di un capo eletto dai membri della gang.
È frequente che per entrare nel gruppo sia necessario un rito di iniziazione: questo, come altri aspetti, è figlio dell’influenza decisiva che ha la cultura criminale Chicana – ossia Messicano-americana - per le gang nere in California. Come i gruppi Chicanos, le gang Afroamericane scelgono come dress code pantaloni a vita bassa color cachi, camicie Pendleton e scarpe di tela. Per differenziarsi le une dalle altre, le confederazioni di gang si identificano con un colore specifico. Negli anni Settanta l’impegno delle bande che abitano Los Angeles è ancora quello di affermare il controllo sul proprio quartiere. Il principale business criminale, la vendita di marijuana ed eroina, è in questa fase ancora una attività svolta al dettaglio.
Il Sud degli Stati Uniti ha una storia diversa dalle altre zone del continente. Si tratta infatti di un territorio gigantesco che vede al proprio interno aree socialmente e culturalmente lontanissime tra loro. Un aspetto è però condiviso: il Sud non ha metropoli di dimensioni paragonabili a New York, Chicago e Los Angeles. Il carattere policentrico e disperso del Sud è stato un fattore determinante per lo sviluppo delle gang in questo territorio. Infatti un dato balza subito all’occhio: prima degli anni Ottanta nelle principali città degli stati del Sud ci sono pochissime tracce di crimini legati alle gang. La genesi tardiva del fenomeno delle gang non è però dovuta unicamente alle dimensione delle metropoli bensì alle strutture economiche e sociali in vigore al Sud. Il carattere statico di queste aree del continente ha ritardato lo scoppio delle contraddizioni dovute alla ristrutturazione dell’economia americana. Anche gli Afroamericani stessi hanno quindi vissuto condizioni diverse da coloro che abitano le due coste e il Midwest. La comunità nera del Sud non ha subito fenomeni di disgregazione sociale paragonabili a quelli vissuti da coloro che erano stati costretti a trapiantarsi nelle metropoli industriali del nord.
Ma l’onda lunga dello sviluppo delle gang sta per investire anche le città meridionali. Ad Atlanta fino al 1980 non ci sono omicidi attribuibili all’attività delle gang, nel 1996 sono il 20% degli omicidi totali [4]. Negli stati del Sud il numero di crimini legati alle gang cresce del 32% dalla fine degli anni settanta alla metà degli anni novanta. Questi numeri rappresentano un trend riscontrabile a livello nazionale [5]. A Los Angeles dal 1978 al 1988 il numero di gang identificate dalla polizia locale passa da 60 a 557 [6]. Secondo lo stesso censimento, i membri di gruppi organizzati nell’area di Los Angeles quell’anno sarebbero circa 50.000 [7]. Sulla costa orientale le attività delle gang iniziano a diffondersi anche nei centri minori. Philadelphia, Newark e Baltimora vedono una impennata del numero di gang presenti sul territorio. A Chicago il dato che riguarda le morti violente di giovani in età compresa dai 15 ai 24 sale dalle 14 unità del 1985 alle 132 del 1993 [8].
Nel corso degli anni Ottanta c’è un chiaro salto di qualità. Non si tratta infatti solo di una diffusione endemica. Quello a cui si assiste è un cambio di paradigma rispetto alla fase precedente. Le gang entrano nel traffico di stupefacenti all’ingrosso, possiedono veri e propri arsenali di armi da fuoco per farsi la guerra a vicenda, controllano intere aree delle metropoli americane.
Le cause di questa maturazione repentina sono molteplici. Gli anni Ottanta sono infatti la fase della definitiva affermazione dell’ipotesi neoliberista. Tra i dettami di questa ricetta economica c’è una ferma opposizione al welfare state. Il Presidente Reagan – alla guida degli Stati Uniti dal 1981 al 1989 – è quindi promotore di una serie di tagli alle poche forme di assistenzialismo previste dallo Stato Federale americano. Le conseguenze sociali di queste scelte si sono ripercosse sulle fasce già impoverite della società.
Tra queste spicca chiaramente la comunità Afroamericana. I tagli alla sanità, all’edilizia popolare, al trasporto pubblico, all’istruzione sono un duro colpo per i poveri della comunità nera. Al termine del periodo reaganiano il tasso di povertà per gli Afroamericani è al 31%, il picco più alto da quando questo dato viene registrato [9]. L'iperghettizzazione dei neri genera un effetto a catena sulla comunità. Infatti a decadere sono tutti quei meccanismi di controllo sociale che garantiscono la tenuta di una collettività. La disarticolazione dei legami familiari e di vicinato, l’abbandono scolastico, l’assenza di luoghi di socializzazione come chiese e centri culturali sono i risultati tangibili del fallimento delle ricette economiche neoliberiste.
L’aspetto però determinante per l’ascesa delle gang è da ricercare nella così detta politica della War On Drugs. Lanciata inizialmente dal presidente Nixon nel 1971 ma resa poi celebre dal presidente Reagan nel 1982, la Guerra alle droghe nasce come campagna mediatica conservatrice per sostenere una serie di leggi in ambito giudiziario. L’impianto della campagna – profondamente razzista e volto a creare il panico nella società americana – ha avuto come esito l’incarcerazione di massa della popolazione nera negli Stati Uniti.
Dal punto di vista legislativo la War On Drugs si è mossa in più direzioni. In primo luogo ha accresciuto i finanziamenti alle forze dell’ordine – il governo federale nel 1981 erogava alla DEA, l'agenzia antidroga federale, circa 86 milioni di dollari [10], dieci anni dopo la somma era di più di un miliardo. Poi una serie di riforme giuridiche hanno irrigidito il sistema penale americano – due esempi sono la pena minima di cinque anni di carcere per chi sia colpevole di possedere dai cinque grammi di crack in su e l’obbligo a pene detentive lunghe, da 25 anni all’ergastolo, per chi si macchi tre volte dello stesso reato. Infine a cambiare è stato il sistema carcerario stesso. Una serie di agevolazioni – implementate poi dalla Presidenza Clinton – hanno reso le carceri americane un business per i privati. Sono nate così società che hanno investito sulla creazione e l’ampliamento dei penitenziari. Un intero settore molto potente e con forti influenze sul congresso ha quindi visto l’aumento della popolazione carceraria come un beneficio per le proprie finanze. Questa stretta sul sistema giuridico ha portato il numero dei detenuti negli Stati Uniti dalle 400 mila unità del 1982 al milione e 600 mila del 2010 [11]. I dati sono però ancora più scioccanti se si guarda alla comunità Afroamericana. I neri sono il 12% della popolazione americana ma il 33% di quella carceraria [12]. La probabilità di una pena detentiva a vita per un Afroamericano è di sei volte maggiore rispetto a quella per un bianco. Il razzismo intrinseco al sistema americano trova quindi una nuova forma negli anni Ottanta.
L’incarcerazione di massa degli Afroamericani è stata il vero volano dell’esplosione del fenomeno delle gang. Infatti si configura un apparato penitenziario in cui è facilissimo entrare e difficilissimo uscire. Nei primi anni novanta due terzi dei detenuti rilasciati vengono arrestati nuovamente nell’arco di tre anni. Poi, anche se si riesce ad uscire dal sistema carcerario, l’inserimento nella società è reso quasi impossibile. Esiste infatti sorta di “pena invisibile”, variabile a seconda dei casi, fatta di esclusione dalle graduatorie per ottenere le case popolari o di inaccessibilità ai buoni pasto, oltre che dello stigma sociale di essere stato detenuto. Ma l’incarcerazione di massa non risulta essere soltanto una trappola per la comunità Afroamericana ma anche una sorta di scuola per la maturazione delle gang. Entrare in un istituto penitenziario significa implementare i contatti in ambito criminale, sviluppare una più forte identità di gruppo, accrescere le proprie conoscenza sul traffico di stupefacenti. Questo è ciò che permette alle gang di compiere un salto di qualità negli anni ottanta.
È nel contesto di iperghettizzazione e incarcerazione di massa appena descritto che arriva anche l’occasione economica da cogliere per le gang. Il crack, come sottoprodotto a basso costo della cocaina, inizia a diffondersi negli Stati Uniti a partire dal 1984. Il radicamento delle gang nei ghetti Afroamericani e le nuove conoscenze sviluppate attraverso l’esperienza della carcerazione permettono ai gruppi criminali Afroamericani di sfruttare le potenzialità economiche della nuova sostanza.
Nell’arco di pochi anni il crack diventa un fenomeno di massa in alcune delle più importanti metropoli americane. Sulle dimensioni e la definizione del fenomeno ci sono però diverse visioni. Il termine “epidemia” per indicare la diffusione del crack è stato infatti coniato dal presidente Reagan nell’ambito della già nominata War On Drugs. Il carattere strumentale e mediatico che il crack ha assunto nelle politiche repressive del governo americano è rilevato da più parti. Questi dubbi sulla portata del fenomeno sono stati accompagnati da quelli sull’origine dello stesso. Infatti nella comunità nera diverse teorie del complotto hanno preso piede per spiegare l’avvento del crack. Ciò che è certo è che il governo americano ha deciso di risolvere il problema della diffusione del crack nei ghetti Afroamericani attaccando molto più i consumatori e i piccoli spacciatori piuttosto che i cartelli della droga internazionali.
Grazie al crack le gang crescono di numero, si arricchiscono e allargano la propria influenza. In ogni angolo del paese ci sono gruppi criminali attivi. Nasce il gangsta rap come espressione della cultura delle gang nere. Dalla seconda metà degli Ottanta il gangsterismo Afroamericano entra quindi nella sua fase adulta.
[1] "Nihilism is to be understood here not as a philosophic doctrine that there are no rational grounds for legitimate standards or authority. It is, far more, the lived experience of coping with a life of horrifying meaninglessness, hopelessness, and lovelessness." - West, Cornel. 1993. Race Matters.
[2] Alemanni, Cesare. 2020.
[3] Nel 1962, la pionieristica associazione Mobilization for Youth (MFY) inizia il suo programma contro la delinquenza giovanile nel Lower East Side di New York. Nel giro di due anni, stimolata dal movimento per i diritti civili, la MFY si trasforma in una organizzazione presente in molti quartieri di New York. La MFY si è sciolta nel 1970.
[4] [5] Miller, Walter B. 2001.
[6] [7] Brown, Gregory Christopher, James Diego Vigil, e Eric Robert Taylor. 2012.
[8] https://home.chicagopolice.org/statistics-data/crime-statistics/
[9] Bureau of the Census, Department of Commerce (1981, 1984, August), Money Income and Poverty Status of Families and Persons in the United States: 1980-1983
[10] [11] [12] Alexander, Michelle. 2010.
di Gabriel Seroussi
Parlare di gangsta rap significa parlare del sottogenere contemporaneamente più problematico e di maggior successo della storia dell’hip hop. L’essenza divisiva di questa musica si è tradotta in un dibattito pubblico e intellettuale ampissimo. Da una parte la sua natura violenta e machista, dall’altra la sua indole documentaristica ed espressiva: detrattori e sostenitori del genere hanno avuto più di una freccia ai rispettivi archi. Il gangsta rap come prodotto è stato anche il capolavoro dell’industria dello spettacolo americana, capace di trarre del succo anche dai suoi frutti apparentemente meno maturi. La beatificazione del gangsta rap, definitivamente ammesso tra i padri nobili della cultura musicale statunitense, è stata celebrata pochi mesi fa in occasione del cinquantasettesimo halftime show del Super Bowl. L’esibizione targata Dr. Dre è stata la ciliegina sulla torta nel percorso di normalizzazione del gangsta rap: da genere reietto a pietra angolare del mercato musicale internazionale.
A partire dagli anni Ottanta le gang non sono portatrici unicamente di una alternativa materiale ma anche di un fenomeno culturale, sviluppano infatti un proprio immaginario con codici estetici, comunicativi e valoriali peculiari. Diversificata a seconda delle aree del paese, questa cultura di strada si diffonde a macchia d’olio di pari passo con l’ascesa delle gang. In un contesto di totale marginalizzazione dalla società, i giovani gangster rielaborano in senso proprio concetti come il rispetto, la lealtà, l’amore fraterno. Questi valori assumono enorme centralità per la natura comunitaria che caratterizza le gang Afroamericane.
Infatti, a differenza di altre forme di criminalità, la famiglia naturale non ha alcun ruolo nelle strutture organizzative dei gruppi. Per questo motivo le gang si costituiscono anche come piccole comunità riconcettualizzando il sistema valoriale tipico del familismo. In questa rielaborazione ha una grande importanza il machismo che, inteso come una continua esibizione di virilità, diviene la stella polare delle relazioni interumane [1]. Lo slang di strada, i gang signs, i graffiti, l’abbigliamento, il rap: la cultura gangsta comunica questi valori attraverso diverse modalità espressive. L’essere gangsta fornisce quindi ai giovani criminali senso di appartenenza, di identificazione e di opposizione al resto della società. Inoltre, in una stratificazione di significati, la cultura gangsta è anche un codice interno di riconoscimento e comunicazione. Per un affiliato un determinato vocabolo o gesto con la mano può trasmettere informazioni che un soggetto esterno non è in grado di comprendere.
L’hip hop, nonostante provenga dallo stesso contesto, ha invece una storia differente. Figlio di diverse discipline artistiche tipiche della comunità Afroamericana e Caraibica, la cultura hip hop nasce come strumento di pacificazione dei conflitti tra le gang del Bronx, a New York. Gli stessi concetti di rispetto, lealtà, e amore fraterno si fondono in questo caso in un fenomeno culturale dalla forte carica politica e sociale. In maniera assai diversa da ciò che i padri fondatori avevano immaginato, il rap – una delle quattro discipline che compongono l’hip hop insieme al writing, al djing e al breakdancing - è cresciuto repentinamente. L’hip hop negli anni ottanta vive molte metamorfosi. In ogni metropoli in cui la cultura si radica, il rap trova nuove forme di ibridazione con le tradizioni locali.
Si può dire che il gangsta rap sia quindi in primo luogo il prodotto dell’incontro dell’hip hop con la cultura gangsta. Questo matrimonio non è un caso che si sia celebrato a Los Angeles, la metropoli con il maggior numero di gang radicate sul suo territorio. Sulle rive del pacifico la cultura gangsta assume precocemente un ruolo centrale tra i giovani membri della comunità Afroamericana. Dai pantaloni a vita bassa color cachi alle camicie Pendleton, dalle bandane dei colori delle rispettive gang ai gesti con le mani per comunicare. La cultura gangsta di Los Angeles è negli anni Ottanta qualcosa di già ben definito. L’hip hop invece arriva con grande ritardo. All’impegno sociale newyorkese, L.A. risponde con l’evasione e il divertimento. Prima dello sviluppo del gangsta rap i protagonisti della scena musicale di Los Angeles sono i dj di musica funky e techno. I pochi rapper attivi sul territorio sono interessati più a raccontare le assolate giornate a Venice Beach che le cupe notti a South Central.
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A cambiare la storia ci pensa però Ice-T: il padre del gangsta rap. Il rapper classe 1958 era uno dei pochi Mc di Los Angeles ad avere le carte in regola per definirsi un gangsta. Infatti Ice-T, oltre alle sue doti nella scrittura, poteva vantare legami con la Hoover Crips Gang. Così nel 1986, dopo quasi dieci anni da piccolo spacciatore, Ice-T decide di investire una parte dei suoi guadagni nella produzione di un singolo. Lo fa, per sua stessa ammissione, dopo aver ascoltato il brano P.S.K. di Schoolly D, un rapper di Philadelfia che nell’underground si era fatto notare per i suoi testi crudi. Per la prima volta Ice-T si era reso conto che era possibile raccontare dall’interno com’è la vita di un gangster.
Con la spinta di questo precedente, il rapper di Los Angeles scrive 6 ‘N the Mornin, la prima pietra nella storia del gangsta rap. La traccia racconta, passo dopo passo, tra slang e riferimenti a personaggi del sottobosco criminale losangelino, la giornata di un gangster californiano in fuga da una retata. La sfiducia nelle forze dell’ordine, il racconto di una realtà allucinata, la descrizione di un mondo in cui la morte è affare quotidiano: 6 ‘N the Mornin contiene in sé tutti gli elementi destinati a diventare tipici del rap di L.A. Ice-T offre quindi a tutti i rapper emergenti una dimostrazione: non solo è possibile raccontare l’essere gangsta in un brano, ma farlo genera anche grande successo.
La lezione di Ice-T viene recepita molto velocemente da Andre Young, un giovane dj di Compton che sul palco si presentava come Dr. Dre. Dopo il successo di 6 ‘N the Mornin, Dre capisce che il tempo del rap spensierato a L.A. è terminato. Nell’arco di qualche mese, dando prova delle sue innate capacità imprenditoriali, raduna in studio O’Shea Jackson, in arte Ice Cube, e Eric Wright, in arte Eazy-E. Il primo è uno dei ghostwriter più noti del rap losangelino, il secondo è un giovane gangster di Compton.
Con la penna del primo e la realness del secondo, Dr. Dre confeziona nel 1987 Boyz-n-the-Hood: il brano che sancisce la nascita degli N.W.A., il più importante gruppo gangsta della storia del rap. La narrazione documentaristica di Ice-T, che fornisce abbastanza dettagli da essere ritenuta veritiera, viene superata dal racconto in soggettiva di Eazy-E. Ascoltando Boyz-n-the-Hood è evidente che l’autore non è un semplice cronista della storia: vi è materialmente implicato. Questa immersione nella vita di strada viene esaltata dal primo disco ufficiale dei Niggaz Wit Attitude - di cui fanno parte anche Arabian Prince, MC Ren e Dj Yella.
“Straight outta Compton!
Crazy motherfucker named Ice Cube
From the gang called Niggaz Wit Attitude” [2]
Fin dalla prima strofa di Straight Outta Compton – title track del disco - Ice Cube mette in chiaro il ruolo del gruppo nella narrazione: gli N.W.A. non raccontano le gang, sono una gang. A differenza dei Public Enemy e di altri gruppi contemporanei, il messaggio degli N.W.A. è molto più aggressivo e nichilista. Non ci sono interlocutori verso cui esprimere la propria rabbia, nella Los Angeles di Eazy-E e soci ci sono solo gangbangers, drive by shooter e spacciatori; l’antagonista politico è ormai solo una forza di occupazione del territorio [3]. Il successo del gruppo è clamoroso: se ne accorgono i giornali, se ne accorge la polizia. Il brano Fuck Da Police diventa un inno contro le forze dell’ordine. Dopo diverse minacce, la polizia interviene durante un concerto a Detroit arrestando i membri del gruppo per incitazione alla violenza.
Questi fatti contribuiscono alla popolarità degli N.W.A. anche tra i bianchi della classe media che per la prima volta possono spiare dal buco della serratura la feroce realtà dei ghetti metropolitani. Inoltre il nichilismo e l’individualismo espressi con rabbia dagli N.W.A. non sono lontani da quelli raccontati con malinconia dai Nirvana nella stessa fase storica. La prima generazione americana più povera di quella precedente si definiva così in netta contrapposizione all’ottimismo dei propri genitori. L’apprezzamento dei giovani bianchi è una delle radici del successo e della longevità del gangsta rap. La parabola degli N.W.A. è però tanto dirompente quanto breve. Ice Cube abbandona il gruppo nel 1989, seguito da Dr. Dre nel 1991.
Con la fine degli N.W.A. termina la fase “pura” del gangsta rap. Il gruppo losangelino è stato il cavallo di troia dell’hip hop nello show business americano. Una volta fatta breccia nell’immaginario collettivo è stato necessario trovare formule rinnovate per mantenere e ampliare la posizione conquistata. Il gangsta rap quindi si evolve nel corso degli anni Novanta e Duemila seguendo diverse traiettorie. Alcune di queste sono perseguite dai membri stessi degli N.W.A. Mentre Ice Cube - con il disco AmeriKKKa’s Most Wanted - rafforza il contenuto sociale dei suoi brani intravedendo un punto di incontro tra il gangsta rap e il rap politico, Dr. Dre, grazie al suo genio creativo e imprenditoriale, partorisce un nuovo sound destinato a riscrivere la storia del rap: il G-Funk. Con un fine lavoro di cesello Dr. Dre rende i suoi beat più musicali, leggeri e rilassanti. La stessa realtà degli N.W.A. viene qui raccontata sotto una luce diversa. La violenza tra gang, la brutalità della polizia, l’epidemia del crack diventano lo sfondo. In primo piano ci sono le belle ragazze, le macchine decapottabili e marijuana di altissima qualità. La nuova formula – più edulcorata – di gangsta rap è un successo di mercato incredibile.
Oltre alla popolarità dei suoi dischi - The Chronic (1995) su tutti - Dr. Dre dimostra anche una sorprendente abilità nello scovare nuovi talenti. Tupac e Snoop Dogg, modellati dalle sapienti mani di Dre, sono gli archetipi di due modalità nuove di essere gangsta. Il primo è una figura complessa, forse la più complessa della storia dell’hip hop. Un terzo rapper, un terzo attivista, un terzo gangster: Tupac porta una profondità di pensiero inedita nel gangsta rap raggiungendo una popolarità pochi anni prima impensabile. Il secondo è l’incarnazione stessa del G-Funk. La figura di Snoop Dogg, un gangster atipico – più interessato alle donne che alle faccende delle gang – fa breccia nei cuori degli americani. Snoop, nella sua carriera più che ventennale, è la dimostrazione vivente del successo della sintesi tra cultura hip hop ed esigenze di mercato.
La lezione del gangsta rap viene velocemente assorbita anche fuori dalla California. L’influenza di Dr. Dre e soci sull’intera cultura hip hop è infatti tanto profonda da rendere complesso individuare chi non si sia ispirato a loro negli anni successivi. Dal jiggy rap newyorkese alla trap di Atlanta, nessuno ha potuto fare a meno di confrontarsi con l’esempio degli N.W.A. Se il gangsta rap come cultura espressione del sottobosco criminale di Los Angeles resta una esperienza circoscritta geograficamente e temporalmente, il gangsta rap come forma di autonarrazione prospera tutt’ora tanto da poter dire che l’hip hop per come lo conosciamo è figlio di questo sottogenere.
Note:
[1] Morris, Megan. 2014.
[2] Primi tre versi di Straight Outta Compton, brano degli N.W.A. del 1988.
[3] Alemanni, Cesare. 2017.
di Stefano Ricaldone
Los Angeles è una metropoli peculiare, la sua storia e la sua geografia sono al centro di numerosi libri e ricerche. Per molto tempo si è pensato che studiandone le tendenze si potessero trarre dei patterns generali dei grossi centri urbani occidentali. Oggi, invece, si sottolinea come ogni città sia frutto dei fattori contestuali e della storia che l’ha vista partecipe.
Los Angeles non è una città come le altre, già solo per il fatto che è l’epicentro dell’industria culturale statunitense. Dal cinema alla musica, passando per la televisione, la radio e lo streaming, vi è l’onnipresenza delle grosse majors los-angeline.
Se per diversi decenni la narrazione mondiale della città californiana è stata perlopiù positiva e multiculturale, il grande sogno americano, il 1992 segna una cesura epocale. Una delle più estese e intese uprising della comunità Afroamericana irrompe sui canali d’informazione di tutti i paesi. Los Angeles brucia. La città degli angeli è il terreno di scontro di una guerra civile a bassa intensità che si combatte con alti e bassi dagli albori degli Stati Uniti. Colonne di fumo spirano dalle macchine e dai capannoni incendiati, blocchi stradali e scontri con la polizia si diffondono per i quartieri razzializzati di una delle più grandi metropoli globali. Gruppi di giovani Afroamericani e Latini svuotano i supermercati e i negozi. La causa: l’assoluzione degli agenti dell’LAPD (Los Angeles Police Departement) autori di un brutale pestaggio, ripreso dalle telecamere, di un Afroamericano avvenuto ad un posto di blocco stradale.
I media mainstream indicano come incitatori della rivolta, tra gli altri, gli N.W.A. e come responsabili i giovani di Compton. Se per diversi americani questi erano già nomi conosciuti, per molti, al di fuori dell’America, termini come "gangsta rap" e "gangs" erano nuovi.
Il mondo inizia a conoscere il lato oscuro della città californiana fatto di segregazione razziale, gangs e povertà.
Immaginari e narrazioni che si scontrano. Da un lato lunghi viali con palme, lussuose ville, macchine scintillanti e belle persone, bianche. Dall’altro un magma di odio, nero, frutto di anni di discriminazioni e violenze che scorre per interminabili strade asfaltate e casette decadenti tutte uguali, frutto del sogno, tradito, del sobborgo americano della classe media. La genesi di una contrapposizione così radicale è molteplice e chiama in causa la geografia della città, le politiche di segregazione e la violenza istituzionale degli apparati politici e polizieschi.
Los Angeles esplode demograficamente nel Novecento. A partire dalla fine dell’Ottocento, vede un improvviso afflusso di persone, conseguenza della forte migrazione interna dal Sud al Nord del paese. La crescita demografica riprenderà poi dopo la Seconda Guerra Mondiale. A questi si unisce un incessante arrivo di migranti dal Centro e Sud America, che ancora oggi è al centro del dibattito nazionale sull’immigrazione. La California infatti confina con il Messico, il paese che è la porta d’accesso dei Latini agli USA.
La città inizia quindi a inglobare le limitrofe cittadine, come per esempio la famosa Hollywood. In linea con la tendenza americana all’espansione incontrollata delle città, si avvia un processo di sprawl[1] urbano, diventato famoso dalle cinematografiche riprese della città.
Per grossa parte del Novecento il sogno della classe media americana è quello della vita al di fuori dei congestionati e caotici centri urbani, epicentro dei luoghi produttivi e quindi residenza della classe lavoratrice. L’immagine della famiglia nucleare bianca che vive in una villetta a schiera e con la macchina parcheggiata in cortile è ancora oggi un sogno diffuso negli States. In questo senso la vastità del territorio americano permette la realizzazione di tale sogno, accompagnato dalla onnipresente macchina, rappresentazione plastica della libertà di movimento individuale. Allo sviluppo immobiliare cittadino si accompagna una forte legislazione segregativa che non permette agli Afroamericani e ai Latini di vivere nei quartieri bianchi. Infatti, viene vietato, a livello amministrativo, la libera allocazione nei quartieri ai neri e a Latini, che vengono spinti e ammassati in specifiche zone della città.
Ovviamente, non serve nemmeno dirlo, le zone in questione sono quelle con l’edilizia più scadente e che hanno poca se non nulla presenza di servizi. Le mappe della città, allora come oggi, sono un patch-work di comunità che non comunicano tra loro, sfere isolate in cui mondi diversi vivono vite parallele che non si incontrano.
Da questo punto parte e si sviluppa la storia di South Central, vasta area di sobborghi a sud del centro città, che tra gli altri comprende Compton. Inizialmente la zona venne concepita per la classe media bianca. Nel caso di Compton il quartiere era fornito di ottimi servizi, come scuole di alto livello e presidi sanitari. La legislazione cittadina permise per lungo tempo di limitare l’arrivo degli “indesiderati” e quando questo non fu più possibile la comunità bianca si organizzò in piccoli gruppi per respingere l’arrivo dei neri. La presenza di comunità differenti da quella bianca diminuiva pesantemente il generale grado di appetibilità del quartiere, con conseguente crollo dei valori immobiliari e dei ratings degli istituti scolastici. Negli USA questo significa minori finanziamenti e qualità scolastica scadente.
Le prime gangs a Los Angeles sono state bianche e il loro obiettivo era colpire tutte le minoranze che si spingevano nei loro quartieri. La rilevanza di tali gruppi è centrale non solo perché settano il clima di violenza razziale cittadina, ma anche perché collaboreranno con la polizia per reprimere l’uprising di Watts del 1965, la prima grande rivolta Afroamericana a Los Angeles.
Dopo la Seconda Guerra mondiale la pressione abitativa su LA è tale che le precedenti norme vengono cambiate. A Compton iniziano a insediarsi i neri e i bianchi, in egual misura, se ne vanno. La qualità scolastica e i valori immobiliari crollano conseguentemente e non ritorneranno mai ai valori precedenti.
Sul finire degli anni Cinquanta iniziano a formarsi le prime gangs nere, che nascono in primo luogo per difendersi dagli attacchi dei bianchi e dalla polizia e poi, anche, come mezzo di arricchimento attraverso l’attività criminale. Quest’ultimo elemento viene contenuto dal nascente Movimento per i diritti civili. La comunità Afroamericana vede in questa fase storica la possibilità politica reale di cambiare la propria condizione. A Los Angeles il movimento è molto forte, tanto che membri delle gangs garantiranno il servizio di sicurezza durante la visita di Martin Luther King in città e intratterranno forti scambi con il Partito delle Pantere Nere (BPP). Questo aveva l’epicentro della propria attività politica proprio nella zona di South Central. I famigerati Crips furono talmente influenzati dalle pantere che, inizialmente, indossavano le giacche di pelle nera e il berretto che le ha sempre contraddistinte.
A Compton prima degli anni Settanta era essenzialmente presente un’unica gang, i Pirus, successivamente se ne aggiungerà un’altra, i Crips. I Pirus, meglio noti poi come Bloods, avevano il proprio centro nella Centennial High School il cui colore di rappresentanza era il rosso, mentre i Crips nella Compton High School che si rappresentava in blu. Le due scuole avevano una forte rivalità sportiva tra le due rispettive squadre di basket e poco ci volle perché questa si riverberasse nelle dinamiche tra le due gangs. A seguito di una partita in cui la Centennial inflisse una dura sconfitta alla Compton, gli studenti di quest’ultima attaccarono gli avversari con bottiglie e mazze da baseball. Negli anni successivi lo scontro aumentò sistematicamente in grado di violenza e portata, dalle bottiglie si passò alle pistole e quella che era una rivalità tra scuole si trasformò in una guerra di strada che perdura in parte tutt’oggi.
Sul finire degli anni Sessanta il Movimento dei diritti civili venne duramente colpito dalla repressione federale. L’FBI attraverso il programma COINTELPRO assassinò i più importanti capi del movimento e assaltò militarmente le sedi del BPP.
Quella che doveva essere una nuova primavera nella storia dei neri Afroamericani si risolse in un bagno di sangue e la disaffezione delle nuove generazioni dalla politica. La situazione si riverberò nei quartieri neri di Los Angeles, le gangs, prima limitate dalle organizzazioni politiche, dilagarono tra i giovani. A questo si aggiunse una generale ristrutturazione del sistema capitalista. Aveva inizio la stagione delle politiche neoliberali, che avranno poi in Reagan il loro promotore più noto.
Deindustrializzazione e disoccupazione colpirono pesantemente le fasce sociali medie e povere americane, con effetti particolarmente devastanti su quelle più socialmente vulnerabili, gli Afroamericani e i Latini. Le nuove generazioni cercarono il loro riscatto nella criminalità, stretti tra l’ideologia del self-made man e le impossibilità sistemiche di riscatto per vie legali. A Compton tutto questo si risolse in un dilagare del mercato della droga e con un incremento dello scontro tra le gangs. L’epidemia di crack colpì tutte le grosse metropoli americane infliggendo i danni più duri alla comunità nera.
La California oltre a essere l’approdo privilegiato dei migranti del Centro e Sud America e anche uno mercati della droga più rilevanti degli Stati Uniti. Per questo motivo l’avvio della guerra agli stupefacenti si concretizzò a LA in tutta la sua violenza. L’LAPD ricevette l’ordine di “ripulire” i quartieri malfamati della città senza limiti nell’uso della forza, vennero schierate le squadre SWAT[3] e si diede avvio all’incarcerazione di massa dei poveri e dei membri delle gangs. Quest’ultimo fenomeno viene comunemente denominato The new Jim Crow, riferendosi all’incarcerazione di massa su base razziale. La militarizzazione della polizia non farà che peggiorare il già complicato rapporto tra agenti e comunità nera e latina, costituendo uno dei presupposti per la successiva uprising del 1992.
In questo clima generale di revanchismo urbano[4], si sviluppa a Compton un nuovo stile musicale, il gangsta rap. Le sue radici sono da ricercare nella sperimentazione artistica condotta da Ice-T e poi sviluppata e portata a risonanza internazionale dagli N.W.A. Il genere non poteva che nascere a Compton, alla luce del contesto e della metropoli in cui è inserita. Essenza del gangsta rap è l’evocazione dell’imaginario gangster e della sua celebrazione. Quale città migliore per produrre una nuova rivoluzione nel rap se non quella che produce gli immaginari e i significati stessi della cultura statunitense? Nessuna, ed è per questo motivo che la cosa ha fatto ancora più scandalo. Nella città in cui si producono film che rappresentano perlopiù gli USA come bianchi e pacifici, un gruppo di “scappati di casa” stava costruendo una contro-narrazione che si diffuse a macchia d’olio per tutti gli States. Straight Outta Compton, il loro primo album, venderà nell’arco di due anni più di un milione di copie.
Quello che ci interessa sottolineare è il rapporto che gli artisti hanno avuto con le gangs del loro quartiere. Infatti, gli N.W.A. non solo rimarcano la provenienza da Compton ma anche il loro rapporto con le arcinote Crips e Bloods gangs, che diventano così uno degli elementi distintivi della città.
Il riferimento a una delle due gangs continua ancora oggi tra alcuni artisti di Los Angeles, per esempio, Snoop Dogg, nel concerto del 2022 del Super Bowl, ha indossato una tuta colore blu con grafica tipo bandana, esplicito riferimento alla Crips gang.
L’album, tra le altre cose, rimarca il diffuso odio nei quartieri neri contro la polizia. La famosa canzone Fuck tha police diventa così il megafono di una generazione, che ha vissuto il razzismo poliziesco e la guerra alla droga delle istituzioni cittadine.
Lo stile musicale è intenzionalmente molto problematico e provocatorio. Dagli innumerevoli insulti razzisti alla misoginia che trasuda dai testi, oltre alla già citata esaltazione della violenza e dell’uso delle armi. Se da un lato vi sono diverse criticità, dall’altro non si può sostenere che il gangasta rap sia uno dei fattori che hanno istigato la rivolta del ’92. Come già sosteneva Ice-Cube all’uscita della canzone Fuck tha police, l’obiettivo degli N.W.A. era raccontare la vita nella metropoli e di una parte degli Afroamericani, compresi anche gli aspetti più violenti, senza filtri.
Negli ultimi anni a Compton vi è stata una forte riduzione della violenza tra gangs e tra gangs e forze dell’ordine, ma le problematiche nei quartieri di South Central persistono tutt’oggi. Difficili condizioni socio-economiche, scadente qualità dell’istruzione, forte militarizzazione dell’LAPD e carcerazione massiccia persistente, sono solo alcuni dei problemi che permangono nei quartieri non bianchi di LA.
I Bloods e i Crips continuano ad essere in conflitto e ad esercitare un forte controllo nelle zone di South Central e nel sistema carcerario. A loro però si affiancano sempre più gangs di altra matrice razziale e etnica, in particolare quelle degli Ispanici e dei Latinos.
Vi è stata anche una ripresa del movimento dei neri e delle minoranze in tutti gli Stati Uniti, aprendo anche a scenari inediti.
Un rappresentante di questi nuovi sviluppi e della rinnovata politicità della comunità Afroamericana è Kendrick Lamar, anch’esso cresciuto a Compton e sintesi della storia che l’ha preceduto ma che, a differenza dei sui predecessori, è molto più politico nei testi musicali e punta il dito non solo contro i poliziotti, ma anche al sistema nel suo complesso.
Note:
[1] Per sprawl si intende lo sviluppo incontrollato del tessuto urbano nelle aree circostanti la città, un esempio italiano è la zona della Brianza vicino a Milano.
[2] Costituite a fine anni Sessanta a LA, vennero impiegate per attaccare le sedi del BPP, fare irruzione nelle case degli esponenti del movimento dei diritti civili e infine controllare le manifestazioni.
[3] Il termine venne coniato da Neil Smith negli anni Novanta per denominare l’insieme delle politiche urbane, sostenute perlopiù dalla classe media bianca, avviate a New York per diminuire la criminalità e combattere il “degrado”. La più nota è qualla del sindaco Giuliani: la zero-tollerance, applicata a New York e basata sulla teoria Broken windows.
di Stefano Ricaldone
Situata sulle sponde sud-ovest del Lago Michigan, parte della regione dei grandi laghi Nordamericani, la storia della terza metropoli più popolosa degli Stati Uniti ripercorre le tappe dello sviluppo economico del paese, l’articolarsi della grossa impresa, l’amalgama di popoli diversi e le contraddizioni di un rapido e repentino sviluppo urbano. Chicago non è rilevante solo da un punto di vista numerico ma è stata, ed è, insieme a New York e Los Angeles, uno dei tre epicentri economico-culturali del Nord America.
Se la storia metropolitana di Los Angeles prende avvio a partire dagli anni ’30 del Novecento e si sviluppa poi nel secondo dopo guerra, Chicago invece inizia a espandersi già sul finire dell’Ottocento. La città dell’Illinois ha molti più punti in comune con NY che non con la città californiana. Agli inizi del Novecento, la centralità industriale e l’arrivo esponenziale di migranti fa di Chicago la metropoli americana a più rapida espansione, più di New York, la sua perenne rivale, con cui tutt’oggi perdura la competizione per il primato di città maggiormente rilevante degli States.
Epicentro industriale del grande Midwest americano e snodo cardine dei trasporti commerciali navali e ferroviari, la città passa da 30 mila a 1 milione di abitanti tra il 1850 e il 1890.
L’esponenziale crescita demografica si traduce in forte effervescenza culturale ma, soprattutto, anche in profondi conflitti tra le diverse comunità etniche e tra le comunità e le istituzioni cittadine, messe sotto stress da un processo di crescita di cui non riescono, o non vogliono, controllare l’andamento. In questo contesto di profonde trasformazioni sociali viene fondato il primo dipartimento universitario di sociologia, in cui nasce un nuovo approccio alla disciplina: la Scuola di Chicago. Questa svilupperà nuovi campi di ricerca, tra cui la sociologia urbana. Della Scuola sono infatti i primi lavori sull’urbano e sulle popolazioni e i gruppi che lo vivono e attraversano. Rilevante per il nostro argomento è il libro The City, scritto da Park e Burgess, in cui si traccia una prima geografia di dove i gruppi sociali si situano nel tessuto cittadino. In questo lavoro è riscontrabile già la formazione di grosse aree di povertà e di una forte contrapposizione etnica con la classe media bianca che già “scappa” dal centro città per vivere negli sterminati sobborghi.
Forte pressione industriale e sfruttamento del lavoro dunque, a cui si aggiunge un onnipresente razzismo istituzionalizzato. I migranti europei sono inizialmente fortemente emarginati, ma come a New York, alcuni di loro diventeranno presto vasti bacini elettorali e strumenti politici nelle mani delle elites. Gruppi etnici in cui si svilupperanno organizzazioni di autodifesa, che diventeranno gangs e, in alcuni casi, grosse organizzazioni criminali.
Prende così avvio la storia parallela della città, quella fatta di razzismo, segregazione spaziale, uprisings, rivendicazioni politiche e organizzazioni criminali.
La storia delle gangs a Chicago ha radici profonde. Nel 1927 Frederic Thrasher, ricercatore della Scuola di Chicago, pubblicherà il primo studio sul fenomeno delle stesse. Il libro, The gang, un classico negli studi sulla devianza urbana, propone una prima mappatura della presenza delle gangs in città cercando di individuarne le traiettorie e la composizione. Se il lavoro ha il merito di avviare gli studi sulla questione, dall’altro presenta forti lacune, ancora più evidenti attraverso le lenti di lettura odierne. La questione razziale viene affrontata unicamente in termini di variabile dipendente al contesto urbano occupato e non come determinante nelle traiettorie dei gruppi sociali. Nella Scuola di Chicago, infatti, si sosteneva come tutti i gruppi etnici avrebbero passato le fasi di discriminazione, assestamento e infine assimilazione con conseguente spostamento dalle zone povere della città verso altre più benestanti. Come è noto, la comunità Afroamericana non sarà mai completamente riconosciuta e questo non solo a Chicago.
Fatte queste premesse, la storia delle gangs di Chicago inizia nella comunità dei migranti irlandesi, che formano i Social Athletic Clubs. I clubs nascono con l’obiettivo primario di confinare e attaccare la comunità Afroamericana nella ristretta zona della cosiddetta Black Belt. Si vuole infatti impedire che la popolazione nera si stabilisca in altri quartieri diversi da quelli assegnati loro. I motivi sono sia razziali che elettorali, gli irlandesi sono infatti il bacino elettorale democratico, mentre la comunità nera quello repubblicano. Le gangs irlandesi sono dunque lo strumento attraverso cui si riproduce la segregazione razziale e il mantenimento dello status quo politico della città. Solo in un secondo momento questi gruppi si occuperanno anche di gestire attività illecite nei propri quartieri.
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Nel 1919 in città scoppia una delle più cruente rivolte razziali americane. A seguito dalla Prima Guerra Mondiale vi è forte instabilità nel mercato del lavoro e l’arrivo in massa di neri dagli stati del Sud attiva la recrudescenza del razzismo dei clubs irlandesi che attaccano in forze i quartieri dei nuovi arrivati. Tra gli esponenti di queste gangs vi è Richard J. Daley che sarà sindaco della città dal 1955 al 1976. L’evento attivò la comunità Afroamericana che costituì così diversi gruppi armati di veterani della Grande Guerra. Questi risposero al fuoco delle gangs irlandesi diventando poi il germe delle future gangs nere della città. Come nel caso di Los Angeles, anche qui la formazione di gruppi armati nella comunità nera avviene prima di tutto per difesa dall’attacco continuo e indiscriminato del razzismo bianco[1].
Negli anni Venti inizia la fase “matura” della criminalità in città attraverso la formazione dell’Outfit, l’organizzazione criminale guidata da Al Capone, che vede gli italiani in prima linea nel contrabbando di alcolici e nelle azioni di racket. L’Outfit però non è il classico gruppo mafioso Italoamericano. A differenza delle famiglie newyorkesi, i membri non sono esclusivamente italiani, ma anche irlandesi e ebrei (in forma anche abbastanza proporzionale: 31% italiani, 29% irlandesi, 20% ebrei). Nel pieno della guerra tra bande per il controllo del traffico di alcolici, Al Capone sarà il primo capo criminale bianco a fare un accordo di “non belligeranza” con un’organizzazione nera, i Policy Kings, il gruppo allora dominante nella Black Belt. I termini dell’accordo sono il non ingresso dei Kings nel traffico di merci in cambio di pace tra i due gruppi. Poiché allora la principale fonte remunerativa della criminalità era proprio il contrabbando, il gruppo fu così escluso da un’elevata fonte di guadagno, rimanendo povero e segregato nella sua zona.
La segregazione nera peggiorò fino agli anni Cinquanta. L’arrivo in massa di neri dal Sud per lavorare nelle fabbriche durante la Seconda Guerra Mondiale aumentò la già elevata violenza razziale bianca con attacchi indiscriminati con armi da fuoco e bombe nei quartieri a maggioranza nera. Anche in questo periodo l’obiettivo era duplice: proteggere i posti di lavoro “bianchi” e impedire l’insediamento al di fuori delle zone canoniche.
Negli anni Cinquanta la seconda grande migrazione Afroamericana verso le grandi metropoli del Nord portò ancora una volta in primo piano la questione abitativa della comunità nera in città. L’amministrazione, guidata ora dal sindaco razzista Daley, continuò a portare avanti una politica abitativa segregativa. Le vecchie case del South Side vennero sostituite con alti palazzi di edilizia popolare e senza superare le rigide divisioni territoriali si continuò a riprodurle aumentando la capacità delle strutture architettoniche. Gli Afroamericani rimasero confinati nella zona che abitavano al loro primo arrivo nella città dell’Illinois.
Negli anni Sessanta esplode il Movimento dei diritti civili, prima, e del black power, poi. Chicago è uno degli epicentri di questo periodo e in particolare del secondo, più rivoluzionario e critico nei confronti dell’establishment. Le gangs nere, ormai istituzionalizzate sul territorio, partecipano attivamente all’agitazione. L’attività criminale passa in secondo piano in favore dell’attività politica, che diventa il principale impegno. Se in un primo momento i gruppi svolgeranno solo il ruolo di supporto e difesa armata dei capi politici e delle manifestazioni (come nel caso della visita di Martin Luther King), successivamente assumeranno un ruolo di primo piano nella militanza politica. Momento cardine di questo periodo è l’avvicinamento al Black Panther Party (BPP). Grazie ad un fine lavoro politico, il capo della sezione di Chicago delle Pantere, Fred Hampton, riesce a riunire i Lords, i Kings e i Disciplines, allora le tre gangs più importanti, in un unico gruppo l’LSD (dalle iniziali dei rispettivi gruppi) che si unisce alle altre anime del movimento nero.
L’FBI si attivò per reprimere e spezzare una simile alleanza, che vedeva anche un coinvolgimento della comunità latina e, eccezionalmente, una timida partecipazione della classe lavoratrice bianca. L’operazione COINTELPRO colpì duramente il movimento di Chicago, poiché, se estesa al resto del paese, una simile alleanza avrebbe avuto serie pretese rivoluzionarie, o perlomeno, di trasformazione radicale. Le pantere vennero assassinate brutalmente[2] e i membri delle gangs arrestatati in massa dagli agenti dell’FBI e dalla polizia di Chicago, composta perlopiù da bianchi irlandesi.
Le carcerazioni di massa non sciolsero le gangs, ma anzi, ne migliorarono l’organizzazione e l’efficacia criminale. I membri, nelle carceri, appresero le conoscenze e le competenze per potenziare le proprie attività e per estendere il proprio controllo affiliando nuove reclute.
Le politiche razziali d’incarcerazione di massa presero avvio contemporaneamente alla deindustrializzazione del Midwest, tra le più importanti del paese. Gli anni Settanta passarono e i pomposi Ottanta arrivarono con tutto il loro carico di riforme neoliberiste e rilancio del mercato finanziario. La deindustrializzazione americana fu una macelleria sociale e le città del Midwest ne furono tra le più colpite. Paesaggi apocalittici di rovine industriali si alternavano a grossi complessi abitativi in decadenza, la disoccupazione dilagava e di pari passo si diffondeva la tossicodipendenza. Le politiche raeganiane colpirono duramente i poveri e l’ormai decaduta classe lavoratrice, aumentando il divario economico e riducendo ulteriormente il sempre limitato welfare state americano. In zone come quella di South Side le gangs criminali rappresentavano per molti giovani l’unico canale di lavoro e mezzo per inseguire la ricchezza tanto narrata e pubblicizzata dai media.
Sconfitta politica del Movimento dei diritti civili, deindustrializzazione, disoccupazione e aggravamento delle condizioni di povertà spinsero migliaia di giovani neri di Chicago nelle file delle gangs, ormai mature e strutturate.
L’epidemia di crack si diffuse a macchia d’olio e con essa lo scontro interno tra le gangs e con la polizia. Il tasso di omicidi crebbe esponenzialmente in tutte le grandi metropoli inclusa Chicago. La risposta istituzionale fu la generale criminalizzazione della comunità nera e l’accentuarsi di pratiche poliziesche razziste e militari. Come a Los Angeles e a New York, anche a Chicago si cercò di colpire duramente il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti e i crimini comuni, non intervenendo sui fattori strutturali e di contesto che riproducevano la povertà e la criminalità.
I grossi complessi abitativi del South Side negli anni Ottanta e Novanta furono la base delle potenti gangs, che oltre a gestire i traffici illeciti della zona, ne controllavano il territorio. Il legame con quest’ultimo e la popolazione, sempre stato particolarmente intenso, in quegli anni raggiunge l’apice. Il riprodursi storico di politiche segregative e di violenze razziali diffuse, aumentarono i legami interni di solidarietà nella comunità. Le gangs erano parte attiva di questo rapporto, rappresentavano infatti un mezzo di difesa, ma anche di supporto al reddito. In questo senso la comunità ha spesso tollerato le loro attività, diversamente da New York dove i legami erano meno intensi.
Sul finire degli anni Novanta il tasso di omicidi in città non diminuì, come avvenne generalmente in tutte le città americane. Il sindaco decise dunque di adottare una soluzione che causò polemiche internazionali: l’abbattimento dei grossi complessi di edilizia popolare di Chicago, in particolare quelli del South Side[3]. L’azione, politicamente e socialmente violenta, espulse dal quartiere più di centomila Afroamericani, con una ricollocazione prevista solo per il 15% degli abitanti.
Dopo l’abbattimento dei projects, la zona è tra quelle a più rapido ed esteso sviluppo immobiliare della città. L’arrivo del Chicago L (la metro di Chicago) ha visto un ulteriore aumento dei valori immobiliari. Dei vecchi residenti, pressocché nessuno ha potuto rimanere nel quartiere a causa dei costi ormai insostenibili. Ricerche recenti hanno infatti rilevato come la maggior parte degli abitanti si siano ricollocati in altre aree fortemente segregate e a scarsi livelli di opportunità di Chicago. La distruzione dei complessi ha avuto un ulteriore effetto, ovvero la ricollocazione delle gangs in altri quartieri, con il conseguente avvio di scontri per il controllo del territorio e il traffico di droga. Le zone di ricollocazione della vecchia popolazione di South Side sono oggi quelle a più alto tasso di omicidi della città.
La storia culturale e gli immaginari che definiscono Chicago sono stati profondamente determinati dalla comunità Afroamericana. Per esempio, Chicago ancora oggi rivendica lo status di città che accoglie migranti a prescindere dalla legalità del loro ingresso negli Stati Uniti. La legislazione federale riconosce infatti la sovranità decisionale del comune all’interno dei confini della città. Questo ha fatto sì che, prima con i neri che scappavano dagli stati schiavisti del Sud, e poi oggi con i Latini che entrano dal Messico, il territorio cittadino si sia sempre configurato come un safe-heaven per persone in fuga, in cerca di una vita migliore. Nei comuni delle città americane del nord per essere riconosciuti come residenti e beneficiari delle misure di welfare comunali (es. public housing) basta avere la patente di circolazione e il suo rilascio non è vincolato al permesso di soggiorno. Questo fa si che tanti migranti clandestini tutt’oggi riescano a vivere nelle metropoli del nord a patto di non uscire dai confini cittadini. Seppur importante questa idea di Chicago non è particolarmente diffusa all’estero, dove invece si riconosce la città come una delle capitali della musica black e in particolare del blues, jazz e soul. Ancora una volta, come per Los Angeles e New York, l’identità della metropoli e ciò per cui è famosa proviene da quella popolazione nera tanto odiata, discriminata e segregata.
La storia della Windy City è in parte paradigmatica della storia americana recente. A partire dal rapporto tra comunità nera e bianca, al rapporto tra istituzioni e criminalità, al processo di deindustrializzazione e in fine alla generale ascesa e poi caduta del sogno americano. Contraddizioni profonde, che si sostanziano oggi nell’essere allo stesso tempo sia la regione metropolitana da cui proviene il primo Presidente nero degli Stati Uniti, Barack Obama, sia anche uno dei grossi bacini elettorali trumpiani.
Note:
[1] I riots del 1919 portano anche un’altra novità: i drive by shooting compiuti dagli irlandesi, che saranno poi resi celebri dall’Outfit di Al Capone.
[2] Le foto dell’omicidio di Fred Hampton fecero il giro del mondo.
[3] Nel 2004 Miloon Kothari, massimo esperto dell’ONU per la questione abitativa, visitando il Cabrini-Green project disse: “evictions of public housing residents in the United States clearly violate international human rights, including the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination and the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights”.
di Gabriel Seroussi
Il Novecento è stato per molti motivi “il secolo americano”. La leadership politica, economica e culturale esercitata dagli Stati Uniti in tutto il mondo è stata evidente. Però, come spesso accade nella storia, l’apogeo di un fenomeno è il primo sintomo della sua disgregazione. Con la sconfitta della sua nemesi storica – l’Unione Sovietica – lo stato americano ha iniziato la sua parabola discendente i cui risultati più palpabili si osservano al giorno d’oggi.
Finita l’ubriacatura reaganiana, i nodi della società statunitense sono venuti uno dopo l’altro al pettine nel corso degli anni Novanta. L'uprising di Los Angeles del '92 ha raccontato il razzismo sistemico su cui si fondano gli Stati Uniti. Il Massacro di Waco ha portato alla luce il problema della diffusione delle armi [1]. Il sexgate del Presidente Clinton ha dimostrato al mondo che gli States sono ancora un covo di puritani [2]. L’apogeo del secolo americano non è quindi né la fine della storia né tanto meno la luna di miele del pianeta. Tra i protagonisti inattesi di questa nuova era americana ci sono anche le gang.
La conclusione del “secolo americano” vede l’ingresso prepotente del gangsterismo nero nell’immaginario collettivo. Il gangsta rap spopola in tutto il mondo mentre i dati sulla violenza nelle metropoli statunitensi continuano a crescere. Negli anni Novanta vengono raccolti i frutti di decenni di scellerate scelte politiche. Il conto da pagare per la società americana è quanto mai salato. Il numero di città che riportano problemi legati alle gang aumentano dalle 270 del 1970 alle 2.547 del 1998 – una crescita dell’843%. Nella contea di Los Angeles la percentuale di omicidi attribuiti all’attività delle gang sulla totalità degli omicidi annuali passa dal 15% del 1984 al 45% del 1995 [4].
Le gang Afroamericane, diventano apparentemente l’unico ascensore sociale per i giovani abitanti dei ghetti urbani. Inoltre nell’assenza totale di modelli, il gangsterismo fornisce una identità ad una comunità ormai priva di riferimenti politici e culturali in cui riconoscersi. Il successo del gangsta rap ha in questo senso un ruolo cruciale nell’istituzionalizzazione e nell’omologazione del fenomeno delle gang. Le cultura gangsta, come rielaborazione della tradizione criminale di Los Angeles, diventa il terreno comune per il gangsterismo nero in ogni angolo del paese.
È però la crescita del consumo di cocaina e dei suoi derivati il vero volano per l’avanzamento delle gang. I cartelli della droga colombiani - e successivamente Messicani - importano tonnellate di cocaina negli Stati Uniti appaltando poi alla criminalità locale il taglio, lo smercio e i rischi connessi a questo business. Il ruolo delle gang all’interno di questo sistema economico è variabile. A seconda dei contesti locali alcune gang tendono a prevalere naturalmente su altre, a siglare accordi e a combattere guerre. Il carattere comune è però il salto di qualità organizzativo ed economico. La gang Black Disciplines di Chicago si struttura attraverso delle piazze di spaccio permanenti in cui il prezzo al dettaglio è stabilito dai vertici dell’organizzazione. Il complesso di case popolari Robert Taylor Homes nel South Side della città diventa così centrale nell’organizzazione criminale che la soluzione adottata dalle autorità locali è stata scioccante. L’intero quartiere viene raso al suolo tra il 1998 e il 2007 [5].
La crescita del dato sugli omicidi non è però dovuto unicamente alle continue guerre tra gang per il controllo dello spaccio. Ciò che è aumentata è la qualità e la quantità delle armi da fuoco. La diffusione di armi da fuoco automatiche di facile utilizzo ha permesso lo sviluppo di pratiche di conflitto più letali. Quello che diventa il marchio di fabbrica delle gang è senza dubbio il drive-by-shooting – l’assalto da una macchina in corsa.
Anche la criminalità di origine Messicana, Centroamericana e Caraibica cresce a dismisura. Sia gruppi dalle origini antiche come i chicanos Latin Kings sia gang figlie di una più recente immigrazione come la Salvadorena MS-13 diventano organizzazioni strutturate e competitive sul territorio tanto quanto la criminalità afroamericana.
Un altro fenomeno che si delinea negli anni Novanta è l’espansione delle gang fuori dai confini delle metropoli. Le gang crescono quindi nella sterminata provincia americana. Questa espansione è particolarmente chiara nel Midwest e negli Stati del Sud, in particolare quelli che confinano con il Messico. Nella seconda metà degli anni Novanta aumenta infatti il peso dei cartelli della droga Messicani nel mercato internazionale degli stupefacenti. La reazione a catena è l’aumento del numero di gang attive in stati come il Texas, l’Arizona e il New Mexico.
Nel frattempo l’isteria collettiva della War on Drugs prosegue speditamente. È in questa fase storica che nasce il mito delle gang organizzate a livello nazionale. Questa idea si sviluppa a causa del crescente numero di gang che si auto-definisco come Crips o Bloods. La fama di questi nomi, resi ancora più celebri dal gangsta rap, permettono alla stampa di associare il fenomeno delle gang ad un idea di criminalità organizzata sul territorio nazionale. In realtà è stato il successo culturale dell’immaginario criminale losangelino ad aver determinato questo cambio della toponomastica nelle gang Afroamericane. I Bloods e i Crips sono diventati una sorta di brand. Le gang che raggiungono le dimensioni e la fama necessarie chiedono di affiliarsi a questi gruppi per assumere prestigio. In questi casi l’affiliazione a compagini criminali più ampie non prevede una perdita di sovranità o l’ingresso in meccanismi organizzativi più complessi. Le gang restano quindi lontanissime dalla criminalità organizzata, specialmente da quella di stampo mafioso. Infatti anche dove questi gruppi sono molto strutturati non arrivano mai al livello di pervasività delle organizzazioni mafiose. È una questione in primo luogo di integrazione nei sistemi di potere. La forza di una organizzazione come Cosa Nostra Americana è stata l’influenza politica, l’infiltrazione nelle amministrazioni pubbliche, i legami con gli imprenditori locali. La linea del colore non ha mai permesso alla criminalità Afroamericana di compiere questo salto di qualità.
Negli anni Novanta i gruppi criminali afroamericani sono al centro dell’agone politico più volte nell’arco del decennio. Un caso su tutti accende l’attenzione mediatica sul mondo delle gang: la morte di Stephanie Kuhen - una bambina di solo quattro anni - per mano di una gang chicana a Los Angeles nel 1995. L’indignazione collettiva per la morte di una innocente costringe il presidente Clinton ad una conferenza stampa pubblica per annunciare una rinnovata offensiva contro le gang.
Il vero cambio di paradigma sul piano repressivo avverrà però con qualche anno di ritardo grazie all’applicazione del Patriot Act, la legge varata dal presidente Bush nel 2001 sull’onda emotiva dell’attentato alle Torri Gemelle. L’aumento di potere dei corpi di polizia e spionaggio statunitensi allo scopo di ridurre i rischi di nuovi attentati terroristici inaugura una fase di durissimo controllo sociale da parte dello stato sui cittadini. L’uso estensivo della fattispecie di “terrorismo domestico” ha permesso infatti di reprimere anche fenomeni criminali non connessi al terrorismo di matrice islamica [6].
La stretta repressiva partita dal Patriot Act è proseguita poi nel 2007 con l’approvazione U.S. Gang Deterrence and Community Protection Act. Questa misura ha reso federali alcuni reati connessi alle gang applicando ad essi la pena minima di cinque anni.
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Un recente studio prodotto dal Great City Institute in collaborazione con la University of Illinois at Chicago si è concentrato sugli effetti delle politiche pubbliche statunitensi dell’ultimo ventennio sul fenomeno delle gang. Le misure attuate - sia sul piano nazionale che locale – hanno indebolito le gang più numerose ma non hanno prodotto un miglioramento sensibile sui dati relativi alla violenza correlata alle gang. Infatti secondo il Great City Institute ciò che si è profilato è unicamente una ristrutturazione interna al mondo criminale afroamericano in una direzione di frammentazione in piccoli gruppi. Più difficili da imbrigliare nelle maglie della repressione le gang contemporanee non hanno perso la propria centralità nei ghetti urbani.
A Chicago per esempio la decapitazione della Folk Nation e della People Nation – le due grandi alleanze criminali cittadine – non ha portato né ad una diminuzione del numero dei membri di gang in città né tanto meno ad una diminuzione del numero di omicidi. Lo studio citato in precedenza dimostra quindi l’esigenza urgente di riorientare le politiche pubbliche, in particolare la costruzione di alternative valide nei quartieri più poveri delle metropoli americane. La comunità nera continua ad essere in questo senso la più vulnerabile. Un dato parla in questo senso da solo: gli Afroamericani sono il 30% della popolazione di Chicago ma il 75% degli omicidi vede come vittima o artefice una persona Afroamericana [7].
Note:
[1] Il massacro Waco è stato l'assedio del complesso appartenente alla setta religiosa dei Davidiani avvenuto nel 1993 da parte delle forze federali americane. L'assedio, durato 51 giorni, teminò con un incendio dell'intero complesso che provocò la morte di 76 adepti, tra cui 25 bambini.
[2] Il sexgate Clinton-Lewinsky è stato uno scandalo politico-sessuale che ha coinvolto il Presidente americano Bill Clinton durante il suo secondo mandato.
[3] Brown, Gregory Christopher, James Diego Vigil, e Eric Robert Taylor. 2012.
[4] Kenny Duckworth, il padre di Kendrick Lamar, è nato e cresciuto nelle Robert Taylor Homes ed è stato affiliato alla gang Gangster Desciple.
[5] Alexander, Michelle. 2010.
[6] Aspholm, Roberto; Córdova, Teresa; Papachristos, Andre; Williams, Lance; Hagedorn, John. 2018.
di Stefano Ricaldone
Il 2 giugno 2002 l’emittente americana HBO manda in onda per la prima volta la sua nuova serie televisiva The Wire, scritta e diretta da David Simon e ambientata nelle strade di Baltimora, allora la città con il tasso di omicidi più alto degli Stati Uniti. Lo show è un successo immediato che andrà avanti per cinque stagioni, cambiando radicalmente il modo di fare tv e portando sul grande schermo tematiche quali: la povertà, lo spaccio, la lotta tra gangs e organizzazioni criminali, la crisi economica, la repressione poliziesca e le trasformazioni urbane.
Se negli Stati Uniti la serie è stata un successo nei termini di critica e nel numero di spettatori, in Europa ne sono arrivati gli echi solo molti anni dopo, forse perché così incentrata, apparentemente, su dinamiche americane molto distanti dalla vita delle città del vecchio continente o forse perché negli stessi anni andava in onda, sempre per la HBO, un’altra grande serie di successo: The Sopranos.
Ogni stagione si incentra su una tematica differente, in ordine dalla prima alla quinta: le gangs e lo spaccio, il porto e il contrabbando, il governo della città e la burocrazia, il sistema scolastico pubblico, il sistema dei media.
Lo stile scelto da Simon è crudo, realista. La serie non adotta un unico punto di vista e anche se veniamo calati nella città di Baltimora dal detective Jimmy McNulty, non ci sono “santi” in The Wire, non c’è la banale divisione tra buoni e cattivi, tra poliziotti e criminali. La narrazione salta da un personaggio all’altro in un intreccio continuo di razzismo, povertà, violenza sistemica, denaro e interessi, facendo dello show un’opera magistrale di rappresentazione degli attori che agiscono nella grande metropoli americana.
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La particolarità dello show non è solo nelle tematiche ma anche nella scelta del cast e del linguaggio impiegato, molti attori e attrici sono di Baltimora e l’accento utilizzato cerca di ricalcare quello degli abitanti della città. Personaggi come l’anarchico-criminale Omar (Michael K Williams) che ruba alle gangs dello spaccio, il businessman-mafioso che insegue il sogno americano Stringer Bells (Idris Elba) e la sicaria Snoop (Felicia Pearson, realmente condannata per omicidio di secondo grado), sono entrati nell’immaginario collettivo di milioni di americani.
Il tema delle gangs è affrontato, soprattutto, in rapporto alla guerra alla droga, i cui attori sono gangs e istituzioni che però non agiscono in modo monolitico. Entrambe le parti sono formate da personaggi i cui interessi e ambizioni travalicano il proprio schieramento e spesso entrano in conflitto con i vertici delle organizzazioni d’appartenenza. Vi sono dunque spaccature all’interno delle gangs tra gli spacciatori, i soldati e i capi; ma allo stesso modo vi sono anche nella polizia e nelle istituzioni cittadine, con poliziotti e politici corrotti. La guerra allo spaccio viene rappresentata nelle sue conseguenze sociali: uno strumento di controllo dei quartieri poveri della città che lascia sull’asfalto decine di morti. Nel procedere della storia, diventa anche il mezzo con cui la politica avvia i processi di riqualificazione e speculazione immobiliare, di cui a farne le spese è la popolazione povera.
I giovani di Baltimora ovest sono costretti in una morsa: entrare nel business dello spaccio con l’illusione dell’american dream o vivere di lavori sottopagati. Sullo sfondo di questa scelta aleggia costantemente l’ombra della tossicodipendenza e della povertà assoluta.
Questa condizione è rappresentata in una scena della prima stagione dai dialoghi tra tre personaggi. D’Angelo (responsabile della piazza di spaccio) spiega a Bodie e Wallace (due giovani spacciatori) come giocare a scacchi. Per essere comprensibile trasporta la realtà nel gioco: il re diventa il capo dell’organizzazione, la regina il braccio destro che coordina, la torre la droga e i pedoni i soldati (gli spacciatori). D’Angelo spiega come lo scopo del gioco sia prendere il re avversario e che normalmente i pedoni, a meno di non raggiungere l’altro capo della scacchiera e diventare regine, sono i primi a morire. Bodie a questa affermazione gli risponde però che questo non succede ai pedoni che sanno come muoversi e che quindi vincono. In quest’ottica l’obiettivo finale del gioco, prendere il re avversario, sfuma e l’unica cosa da perseguire è la riuscita individuale, diventare regine. Il gioco diventa così allegoria della realtà: la riuscita individuale nell’organizzazione, ovvero la scalata al successo e al potere, è l’unica cosa che conta.
Articoli e volumi:
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