Surving Rikers: una storia di incarcerazione di massa a New York
A cura di Vittoria Lamorgese
A cura di Vittoria Lamorgese
Five Mualimm-ak è sopravvissuto a Rikers Island, il più grande e famigerato carcere di New York. Lo abbiamo intervistato questa estate sulle rive dell’East River, al Bronx, a pochi kilometri dal carcere in cui Five ha speso la maggior parte della sua vita adulta. Rikers è però solo un tassello di un puzzle più ampio. Gli Stati Uniti detengono ormai da diversi anni il primato per il tasso di incarcerazione più elevato al mondo. A pagarne il prezzo sono state la comunità Afroamericana e quella Latinoamericana. Tutto ciò non è avvenuto per caso, è stato frutto di decenni di deliberate scelte politiche.
Dai vialetti di Barretto Park nel South Bronx, si scorge, sulla sponda opposta dell’East River, un’imponente costruzione composta da diversi edifici, almeno un paio di ciminiere e numerose recinzioni. Sembra quasi una fabbrica o un’isola industriale troppo militarizzata: è Rikers Island, lo storico carcere di New York City. Il penitenziario è celebre per essere tra i più grandi e disfunzionali di tutto il pianeta: scarse condizioni di salute, aggressioni violente e suicidi sono all’ordine del giorno. Nel corso degli ultimi anni il suo nome ha riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo, definita come “isola della tortura”, “prigione degli orrori”, “carcere infernale” e così via, si parla di una sua eventuale chiusura entro il 2027. Eppure, questa terribile realtà ha fatto da scuola e da modello per le carceri americane e non solo.
Five Mualimm-Ak ha speso dodici anni della sua vita in carcere, di cui quattro scontati tra le mura di Rikers Island. Nel 2012 viene rilasciato e da quel momento dedica il suo tempo alla lotta contro il carcere e alla solidarietà ai detenuti. Nel 2015 fonda l’associazione Incarcerated Nation Corporation. È lui a raccontarci come l’istituzione carceraria sia un ingrediente centrale e pervasivo, oltre che della sua vita, di tutta la società americana.
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La fondazione stessa dello stato di New York poggia, in qualche modo, proprio su due strutture di controllo sociale, Rikers Island ed Ellis Island, rispettivamente detenzione e registrazione degli individui. Il carcere di Rikers Island viene costruito tra il 1932 e il 1935, ma l’isola su cui viene edificato ha alle sue spalle una storia inquietante legata alla tratta degli schiavi. La famiglia olandese Riker acquisisce il territorio intorno al 1650 e utilizza il proprio potere per trattenere gli Afroamericani liberi senza alcun tipo di processo e spedirli al sud, sotto regime di schiavitù. Ancora oggi il carcere porta con sé la matrice razzista del suo nome.
Ellis Island, la celebre isola di accoglienza e registrazione dei migranti, è stata formalizzata solo nel 1892 ma si contano almeno otto milioni di persone passate per di là prima che la struttura venisse messa in regola e inaugurata. Lo stato di New York, sulla carta, nasce nel 1776, alla base ha politiche di controllo e punizione, piuttosto che la tanto decantata libertà americana. Secondo Five, è proprio il modello carcerario a plasmare la vita negli Stati Uniti.
Effettivamente, a oggi, anche in Europa, immaginare una società senza carcere sembra solo una lontana utopia e l’abolizione dell’istituzione penitenziaria un’idea appannaggio di qualche astruso teorico. Il carcere è diventato, a mano a mano, parte fondante del nostro ambiente sociale e del nostro senso comune. Ma come siamo arrivati a questo punto? Come l’istituzione penale, tra l’altro disfunzionale e teatro di torture praticamente in tutto il mondo, è diventata per noi necessaria e immanente?
La forma prigione appare strettamente legata al funzionamento della nostra società: si conosce la sua pericolosità e inefficienza ma è impensabile sostituirla. La prigione viene considerata “naturale” così come è naturale, nella nostra società, l’utilizzo del tempo per misurare gli scambi: commettere un crimine corrisponderà a uno o più mesi, anni di detenzione. Viene stabilita così un’equivalenza quantitativa tra i delitti e la durata delle pene, privando di un bene di cui tutti, in teoria, siamo padroni allo stesso modo: la libertà. In definitiva, la prigione non è altro che un sistema economico: chi sconta una pena paga il proprio debito nei confronti della società in termini di tempo e libertà. Si presenta così come la forma più immediata e civilizzata di tutte le pene, aderendo perfettamente al funzionamento della nostra società: l’istituzione carcere viene “naturalizzata” e posta a fondamento.
La narrazione che ne viene fatta in termini giornalistici, cinematografici e di racconto non fa altro che alimentare questa convinzione. Se il carcere è entrato a far parte della nostra visione del mondo come qualcosa di essenziale e imprescindibile è anche perché consumiamo in continuazione immagini mediatiche legate al racconto della vita penitenziaria. Negli ultimi decenni le produzioni di questo genere sono aumentate a dismisura, contribuendo a costruire un immaginario invadente, teso a giustificare l’utilizzo sempre più fitto della forma carcere. Dai più classici film cult sulle evasioni, a Orange is the new Black[1], fino all’ultimo fenomeno mediatico italiano Mare Fuori[2] ,solo per citarne alcuni, la direzione è quella di normalizzare e rendere oggetto di “vita quotidiana” la dinamica penitenziaria. I protagonisti vivono le proprie esperienze, i propri drama, all’interno di un ambiente che ci sembra quasi familiare.
La prigione, infatti, oltre al fondamento giuridico-economico di scambio delitti/pene ne ha un secondo disciplinante. Replica al suo interno le dinamiche e i meccanismi del corpo sociale: come una «fabbrica buia, una scuola senza indulgenza, una caserma un po’ stretta»[3]. I dispositivi disciplinari della nostra società vengono portati alla massima espressione ed intensità nel sistema carcere, motivo per cui la vita penitenziaria, romanzata in un film o in una puntata, non ci sembra poi così distante. Il carcere diventa un’istituzione di cui non potremmo mai fare a meno, che replica e inasprisce meccanismi disciplinanti a cui siamo già abituati. Viene raccontato come intrinseco alla nostra società, necessario: la coercizione diventa così l’unico mezzo possibile di punizione e controllo.
Così, anche dove assistiamo al progressivo smantellamento di tutte le istituzioni pubbliche, quella del carcere rimane in costante crescita. Vengono meno i finanziamenti alle scuole, alle università, alle case di cura e via dicendo, ma l’ambito penitenziario, al contrario, è soggetto a un continuo investimento. Esempio chiaro e concreto di questo meccanismo sono proprio gli Stati Uniti d’America: al tracollo dello stato sociale hanno risposto con il sovrasviluppo “necessario” del sistema carcere.
Gli States, con la più grande popolazione carceraria al mondo (un quarto di quella totale), fanno da modello anche qui in Europa. Il sistema carcere diviene l’unica possibile risposta a ogni tipo di problema sociale e/o di malcontento. Rikers Island, nella sua crudele immensità, non è che l’esempio più lampante e violento di una struttura capillare e pervasiva, che opera a trecentosessanta gradi.
Note:
[1] Serie comedy-drama, andata in onda dal 2013 al 2019, che narra le storie di alcune detenute all’interno di un carcere federale americano di minima sicurezza.
[2] Serie televisiva italiana del 2020 che narra le storie di diversi giovani all’interno di un carcere minorile a Napoli (ispirato alla vera casa di reclusione per minori della città partenopea sull’Isola di Nisida). La realtà narrata nella serie, oltre a mescolare i classici pattern della fiction italiana, può essere comparata ai classici teen-drama.
[3]Foucault, M. (2014) Sorvegliare e punire. Torino: Einaudi
Gli Stati Uniti detengono ormai da diversi anni il primato per il tasso di incarcerazione più elevato al mondo. Secondo i dati di Prison Policy Initiative, aggiornati a settembre 2023, arriviamo a 565 arresti ogni 100mila abitanti e a oltre due milioni di persone costrette nelle quasi cinquemila carceri statunitensi (distinte tra federali e statali) e negli istituti penitenziari per minori e migranti, più tutti coloro che sono sottoposti a diverse forme di libertà vigilata (on probation; on parole[4]). Sono questi gli ultimi numeri della mass incarceration americana, e, nonostante siano ancora delle cifre esorbitanti, sono numeri finalmente in calo. Con il termine "mass incarceration” si fa riferimento, però, a un fenomeno complesso e profondo, che non riguarda solo la moltitudine di persone detenute o il dato esclusivamente quantitativo. Ci si riferisce a un’articolata struttura in cui possiamo individuare tre diversi livelli, tra loro correlati: un sistema carcerario profondamente razzista, una larga rete di istituzioni e forze sociali e a una serie di conseguenze e danni inflitti sulle vite delle persone, ben oltre le mura delle celle.
Mass incarceration è un apparato di regole, leggi e politiche tese a controllare una fascia ben definita di popolazione, ritenuta pericolosa o improduttiva. Si tratta di un intero sistema politico-giudiziario costruito per isolare, marginalizzare e reprimere senza possibilità alcuna di riabilitazione. Un organismo repressivo che penetra tutti gli strati della società, garantendo il potere sulle fasce più povere e compromettendo ogni possibilità di mobilità sociale.
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Tutto ciò, lungi dall’essere casuale, è il risultato volontario di anni e anni di politiche attuate in questa direzione, di cui possiamo individuare un’origine ben definita. Siamo negli anni Ottanta e a capo degli Stati Uniti è appena stato eletto Ronald Reagan: è il momento in cui si afferma definitivamente il modello neoliberista, si assiste a un drastico taglio del welfare e della spesa pubblica e alla riduzione quasi completa di ogni forma di assistenzialismo sociale. A pagarne le conseguenze sono le classi più povere, sempre più frammentate e con sempre meno possibilità: a metà degli anni Ottanta il consumo di crack le travolgerà, arrivando a prendere le dimensioni di un fenomeno di massa. Il governo Reagan, come risposta, riprende la war on drugs annunciata dal presidente Nixon nel 1971 e utilizza “l’epidemia[5]” di crack come pretesto per reprimerle e marginalizzarle ancora di più. Le aspre punizioni della guerra alla droga ricadono infatti su consumatori e piccoli spacciatori, piuttosto che sui grandi trafficanti, unici responsabili reali di una così ampia diffusione. A scontarne il caro prezzo sono principalmente le comunità Black e di Latinos. È in questi anni che la popolazione carceraria inizia a crescere in modo esponenziale: tra il 1980 e il 2000 il numero delle persone incarcerate nelle prigioni statali passa da 3000mila a più di due milioni, con l’incremento in particolare delle reclusioni per piccoli reati; i detenuti per reati non violenti passano da 50mila a 400mila tra il 1980 e il 1997. Il dito è puntato esplicitamente contro le fasce di popolazione già marginalizzate ed escluse, contro le comunità Afroamericane e di Latinoamericani, contro chi viene considerato improduttivo. Si distoglie l’attenzione dai crimini strutturali per rivolgerla verso le classi subalterne, con l’obiettivo di ridurle alla totale impotenza di fronte a un sistema politico e giudiziario costruito contro di loro. La matrice razzista delle misure della war on drugs è piuttosto esplicita: per il possesso di cinque grammi di crack (consumato principalmente da neri) la condanna era a cinque anni di reclusione; per arrivare alla stessa sentenza per possesso di cocaina (consumata per lo più da bianchi ricchi) bisognava arrivare a cinquecento grammi.
Ancora oggi i numeri parlano chiaro: in ogni stato americano il tasso di incarcerazione degli Afroamericani è almeno il doppio di quello dei bianchi, e in media in tutti gli States, è sei volte maggiore. Il sistema penitenziario americano è, tutt’ora, strutturalmente razzista. La lotta contro il crimine, “cracking down on crime”, diviene il nuovo strumento politico-mediatico per proseguire delle politiche discriminatorie e di segregazione in termini sia razziali che economici. La prigione va così a sostituire sul piano funzionale il dispositivo del ghetto: assicurare la reclusione di una parte di popolazione, stigmatizzata per la sua provenienza etnica o giudicata inutile sul livello economico. Chi è vittima del sistema penitenziario americano viene infatti completamente estromesso dal corpo sociale: la mass incarceration porta alla «morte civica di tutti coloro che essa cattura[6]». Una volta che si è entrati nella rete carceraria, uscirne è praticamente impossibile: l’esclusione si estende su un piano culturale, politico e sociale, fuori e dentro la prigione. Si viene privati del diritto di voto e da ogni possibilità di partecipazione alla vita politica e civile: a oggi, in America, un nero su sette è bandito dai seggi elettorali attraverso l’interdizione legale e sette stati negano la possibilità di votare a più di un quarto dei loro residenti Afroamericani. L’accesso all’istruzione di secondo grado e alle borse di studio viene negata, si perde la possibilità di entrare in graduatoria per ottenere una casa popolare e si è esclusi dal poter ricevere qualsiasi tipo di sussidio e dalle poche forme di welfare esistenti. Anche dopo aver scontato la propria pena si è costretti all’interno del meccanismo penitenziario. L’incarcerazione di massa è diventata la politica sociale statunitense, tesa a garantire il disciplinamento dei poveri e il confinamento dei “reietti”, tenendo una salda distinzione tra chi è economicamente sufficiente (e bianco) e una classe di “parassiti” che non possono o non meritano di far parte della società. È la riproduzione di una disuguaglianza economica e razziale su più livelli, a cui partecipano diversi attori sociali: dalla polizia locale ai pubblici ministeri, fino ad attori aziendali privati che traggono profitto economico.
Ai tre livelli della mass incarceration, quello strutturalmente razzista, quello che porta a pagarne le pesanti conseguenze anche fuori dal carcere e quello di un sistema politico che non fa altro che garantire tale status quo, se ne aggiunge un quarto: quello economico industriale. Gli Stati Uniti investono, ogni anno, un totale di 182 miliardi di dollari nel sistema penitenziario, diventato al giorno d’oggi uno dei business americani più redditizi. Intorno a questa spesa si ramifica una larga rete di società, gruppi d’interesse e profitti sia pubblici che privati: è il “Prison-Industrial Complex” o complesso carcerario industriale. Il carcere, così inquadrato, è sinonimo di denaro e profitto, si investe nell’edilizia, nelle forniture e nella gestione stessa dei penitenziari.
Da una parte abbiamo le prigioni private, fonti dirette di guadagno per le società che le gestiscono; dall’altra quelle pubbliche, a loro volta sature dei profitti ottenuti dai prodotti e i servizi offerti da altri enti privati. Entrambe sono legate a doppio filo all’economia delle grandi imprese.
La privatizzazione del sistema penitenziario si è diffusa su larga scala negli anni Ottanta: simultaneamente al massiccio taglio della spesa pubblica si dà il via a un consistente progetto di edilizia penitenziaria. Vengono costruite sempre più carceri, sempre più gestite da imprese private. Nel quadro di uno smantellamento totale dello stato sociale e di un’economia dedita esclusivamente al profitto, i corpi imprigionati diventano nient’altro che fonti di lucro. Lo stato, infatti, paga alla società un quantitativo per ogni prigioniero recluso, per cui ogni società avrà interesse a trattenere i detenuti il più a lungo possibile e a mantenere piene le proprie strutture. Il rapporto tra il tasso di criminalità e quello di incarcerazione salta completamente: l’aumento della popolazione carceraria è legato anche alla possibilità di sfruttarla come fonte di guadagno. Cracking down on crime non è altro che una formula per mascherare la volontà di rendere economicamente conveniente il crimine stesso, per i privati e per lo stato americano. Nonostante i tassi di criminalità continuino a calare si fa leva su politiche iper-securitarie, tese ad alimentare la paura, aumentando sempre di più la distanza tra la criminalità percepita e quella reale. I detenuti divengono così delle pedine in una fitta rete economica, che coinvolge tutti i piani del sistema penitenziario: dall’edilizia, agli impiegati, alle forniture di beni e servizi.
La questione delle prigioni private è infatti solo una piccola fetta del sistema carcerario industriale e dell’impianto speculativo costruito nel complesso penitenziario americano. Dagli anni Ottanta in poi l’afflusso di capitali nell’economia penale è cresciuto sempre di più e il carcere è diventato un importante ambito di investimento. Vi sono coinvolte grandi aziende che riforniscono le carceri di qualsiasi bene o servizio, ma anche lavoratori sottopagati, imprese di costruzione, compagnie telefoniche, aziende che gestiscono i servizi di ristorazione e le strutture mediche, società private di libertà vigilata e via dicendo. Il sistema capitalistico americano individua un’eccedenza umana che non può far parte della società, quella classe di “parassiti” e “reietti” di cui sopra, e la mette a frutto. Povertà e detenzione formano un circolo vizioso da cui uscire è praticamente impossibile, ne è un esempio lampante il sistema delle cauzioni. Pagare una cauzione (in media intorno ai 10.000 dollari) è praticamente impossibile per la gran parte della popolazione carceraria, la maggior parte dei detenuti vivono, già prima dell’arresto, sotto la soglia di povertà. L’impossibilità di pagare ti costringe a rimanere recluso e una volta scontata la pena sarà impossibile trovare un impiego: «la capacità di sopravvivenza dei poveri è sempre più vincolata all’incombente presenza del carcere[7]». Ancora una volta Rikers Island è l’esempio più eclatante di questo meccanismo, l’85% della sua popolazione carceraria è in attesa di giudizio e sconta la propria pena per non aver potuto pagare la cauzione. Sono diversi i casi di suicidi commessi nella prigione di New York da detenuti che ancora non avevano neanche ricevuto una sentenza[8].
In conclusione, il sistema carcerario industriale marginalizza un’intera fascia di popolazione, escludendola dal corpo sociale e rendendola una fonte di profitto, guadagnando sulla sua detenzione e sulla possibilità di ottenere manodopera a basso costo se non gratuita. Mentre i budget statali vanno sempre più diminuendo, le prigioni lanciano nuovi programmi per il lavoro: i detenuti riparano le fognature, puliscono le strade, gestiscono gli spazi pubblici e, oltre a svolgere servizi “socialmente utili”, lavorano per grandi aziende come Victoria’s Secret, Starbucks o Wal-Mart a una paga di molto inferiore a quella minima, se non nulla. A chi lavora in queste condizioni non è consentito, inoltre, sindacalizzarsi. La schiavitù, nelle prigioni americane, non sembra essere un fenomeno poi così lontano.
Note:
[4] Probation: Alternativa alla pena detentiva, prevede che il soggetto incriminato sia sottoposto alla sorveglianza del tribunale per un periodo minimo di sei mesi e massimo di tre anni.
Parole: Rilascio anticipato dalla pena detentiva a patto che non si commetta nuovamente il reato, in quel caso si torna direttamente in carcere.
[5] Espressione coniata dal presidente Reagan nell’ambito della war on drugs come strumento mediatico per giustificare la forte repressione agita contro le fasce più povere di popolazione.
[6]Wacquant, L. (2002) Simbiosi mortale. Verona: Ombre Corte
[7]Davis, A. (2022) Aboliamo le prigioni?. Roma: Minimum Fax
[8]Caso celebre è quello di Kalief Browder (1993-2015), giovane del Bronx arrestato per il presunto furto di uno zaino. Sconterà tre anni a Rikers Island senza ottenere un processo. Rimase in isolamento due anni e per più di trecento giorni consecutivi, le Nazioni Unite considerano più di 15 giorni tortura. Kalief si toglierà la vita a 21 anni.
Per quanto possiamo guardare al sistema americano come lontano ed eccezionale, da indagare come caso studio, purtroppo la realtà non è affatto così. La direzione data dagli States in termini di gestione penale della povertà e della disuguaglianza sta diventando sempre di più attuale anche qui in Europa. L’obiettivo rimane lo stesso: controllo sociale, segregazione e contenimento di intere fasce di popolazione, considerate intruse o indesiderabili.
Negli ultimi decenni, in diversi paesi dell’Unione Europea, abbiamo assistito all’incremento della popolazione carceraria, composta in particolare da stranieri, immigrati di seconda generazione e persone di origine non occidentale. Anche qui la parte più consistente delle detenzioni è per reati minori contro la proprietà, spaccio o consumo di sostanze stupefacenti. Si tratta, ancora una volta, di una classe già svantaggiata sul piano economico, vulnerabile sul mercato del lavoro e discriminata per le sue origini “etniche”. A parità di reato, un tribunale sarà più predisposto a condannare se l’imputato non possiede la cittadinanza. L’intero meccanismo è teso a rendere l’immigrazione «una questione continentale di sicurezza», così come è scritto nei trattati di Maastricht e Schengen, considerandola alla stregua del terrorismo o della criminalità organizzata. Il paradosso si fa esplicito: i trattati hanno la finalità di rendere più agevoli gli spostamenti e di garantire la libertà di movimento in territorio europeo, ma solo per una classe ricca e, possibilmente, bianca. Il sistema capitalistico si rimodula geograficamente in Europa e in America individuando una classe marginale e povera, nera o straniera che sia, per controllare la forza lavoro in termini politici ed economici. Il dispositivo che abbiamo già osservato nel caso americano si riproduce anche in Europa, con altre forme e nuove vittime. Il caso più eclatante ed esplicito di queste politiche in territori a noi più vicini è solo di qualche mese fa, quando il governo inglese ha rinchiuso circa cinquecento richiedenti asilo in una chiatta al largo di Portland, facendoli vivere e dormire in dei container. Corpi imprigionati ormai ridotti a merce, rifiutati dalla “libera e democratica” società occidentale e relegati in un enorme parallelepipedo galleggiante.
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In Italia l’esempio concreto di questo meccanismo è rappresentato dai CPR[9], centri di detenzione amministrativa per migranti considerati irregolari perché senza permesso di soggiorno e in attesa di rimpatrio (che solo raramente avviene). I detenuti possono rimanere diversi mesi in un limbo di reclusione senza aver commesso alcun reato, attendendo la propria sorte, così come i detenuti in attesa di giudizio a Rikers Island. I centri di permanenza per il rimpatrio non hanno alcuno scopo se non la detenzione, non prevedono percorsi educativi o ricreativi né sono finalizzati all’accoglienza. Lo stato italiano, solo per il 2023, ha investito quasi sei milioni[10] in queste strutture. La scelta politica è chiaramente di esclusione. Un detenuto non rimpatriato e reinserito in società, rimane “irregolare”, l’inclusione della classe migrante nel corpo sociale non è prevista in alcun modo.
Non siamo poi così distanti dagli Stati Uniti d’America, così come ci dimostra anche l’istituzione delle carceri speciali, che nulla hanno da invidiare alle prigioni di massima sicurezza a stelle e strisce. Dalla loro inaugurazione nel 1977 il sistema penitenziario italiano si ramifica in due circuiti: uno per i detenuti più combattivi (spesso legati al mondo dei movimenti politici e sociali) e l’altro per la grande maggioranza dei “diseredati”, stranieri e poveri. Le condizioni di reclusione sono sempre più dure e i prigionieri sono sottoposti a isolamento, mancata comunicazione con i propri familiari, perquisizione continue e controlli costanti da parte degli agenti. La misura del 41-bis[11], o “carcere duro”, porta alla massima intensità questo dispositivo, sottoponendo i reclusi a condizioni disumane, in cui si è sorvegliati h24. Il caso di Alfredo Cospito[12], negli ultimi mesi, è riuscito a mettere in luce le ombre del nostro sistema penitenziario, crudele tanto quanto il modello americano.
Gli aspetti del sistema carcere Italiano ed europeo da prendere in analisi sarebbero diversi, dal sovraffollamento all’utilizzo della detenzione preventiva, fino agli abusi di potere in divisa, ma per approfondirli servirebbe un articolo a sé stante. L’importante forse è individuare il filo rosso che segna la gestione penale di tutto il mondo occidentale: reprimere, controllare e disciplinare a ogni costo. Nel 2020, durante la pandemia covid, i detenuti e le detenute, che hanno visto i loro pochi diritti negati, si sono ribellati. A Modena[13] come a New York la risposta è stata la stessa: reprimere violentemente, fino ad uccidere, chi ha provato a spezzare quel filo rosso, ad aprire un varco nel sistema penitenziario.
Forse, il nostro compito, senza essere arroganti, può essere quello di riprendere quelle voci spezzate e provare almeno a porci delle domande. Forse immaginare una società senza prigione non può più essere una lontana utopia.
Note:
[9] Noti fino al 2017 come CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione), sono un sistema detentivo posto sotto il controllo diretto del Ministero degli Interni e non quello di Grazia e Giustizia, che gestisce il normale circuito penitenziario italiano. Questo, per la natura giuridica dei reclusi e per il Ministero che se ne occupa, fa sì che lo stato non sia tenuto a garantire i normali diritti dei reclusi.
[10]Fonte Openpolis
[11] L’articolo 41-bis è un dispositivo dell’ordinamento penitenziario italiano introdotto nel 1975 per reprimere le rivolte carcerarie e isolare i detenuti politici accusati di terrorismo e sovversione dello stato. L’articolo è stato ulteriormente articolato nel 1992 dopo le stragi di mafia. Oggigiorno la maggior parte dei detenuti italiani sottoposti a questo regime sono accusati-condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis del codice penale). Questo tipo di detenzione, tra le altre cose, prevede: il totale isolamento della persona in una cella singola piccola, il divieto totale di comunicare verso l’esterno del carcere e con gli altri detenuti, la riduzione dell’ora d’aria e delle visite parentali.
[12] Alfredo Cospito è un anarchico condannato per terrorismo nel 2023 e sottoposto a regime di 41-bis già durante la carcerazione preventiva a partire da maggio 2022. Il 20 ottobre 2022 ha iniziato uno sciopero della fame contro il dispositivo che si è protratto per 100 giorni. Lo sciopero ha polarizzato l’opinione pubblica italiana e attirato l’attenzione mediatica internazionale, con accuse da parte delle associazioni umanitarie contro il sistema giuridico e penale italiano.
[13]L’avvento della Pandemia Covid-19 ha innescato rivolte in tutte le carceri italiane. I detenuti protestavano contro l’inasprimento generale della detenzione e le proteste sono state represse nel sangue con il silenzio generale dei media. Nello specifico, la rivolta nel carcere Sant’Anna di Modena, esplosa l’8 marzo 2020, si è conclusa con la morte di 9 detenuti, secondo la versione ufficiale dell’autorità penitenziaria morti per “overdose di metadone”, tutte le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti hanno dichiarato inaffidabile se non totalmente falsa tale conclusione.A distanza di anni tutti i procedimenti contro gli agenti responsabili per i drammatici fatti avvenuti in quelle settimane (pestaggi, torture e uccisioni) sono finiti nel nulla, tutti assolti o prescritti.
Alexander, M. (2020). The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness. New York: New Press.
Christie, N. (1996). Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag. Milano: Eleuthera
Davis, A. (2022). Aboliamo le prigioni?. Roma: Minimum Fax
Fassin, D. (2018). Punire. Una passione contemporanea. Milano: Feltrinelli.
Foucault, G. (2014). Sorvegliare e punire. Torino: Einaudi Editore
Mathiesesn, T. (1996). Perchè il carcere?. Torino: Edizioni Gruppo Abele.
Soss, J., Fording R. C., Schram S. F. (2022). Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà. Milano: Mimesis.
Wacquant, L. (2002). Simbiosi Mortale. Verona: Ombre Corte