Unfitting Gloves: intorno al caso O.J. Simpson
A cura di Mattia Marzà
A cura di Mattia Marzà
Yuri Orlov, uno dei più importanti trafficanti di armi al mondo, vola in Liberia, infiammata da un’atroce guerra civile, per assicurarsi il monopolio della fornitura di armi alle forze governative del sanguinario dittatore Andre Baptiste: passerà la notte in quello che formalmente è un hotel a due stelle, in realtà una stamberga in uno degli slums più poveri della terra, in netto contrasto tanto con il fastoso palazzo presidenziale in cui ha appena siglato un contratto, quanto con la sua lussuosa residenza newyorchese. All’ingresso, con il ronzio dei ventilatori in sottofondo, due uomini sono seduti su degli sgabelli a guardare un televisore sgangherato e a commentare ciò che vedono: un frammento della deposizione di OJ Simpson al suo processo. Questa scena, tratta da Lord of War, blockbuster del 2005, ben dimostra come gli echi del processo OJ continuino a risuonare fragorosamente sia nello spazio- da un tribunale di Los Angeles ai vicoli dell’Africa Occidentale – che nel tempo- dato che il regista ritiene superflua qualsiasi precisazione al di là delle immagini intraviste per un istante sullo schermo nello schermo, nonostante i toni didascalici ed espliciti del film e il fatto che siano passati più di dieci anni dalla vicenda giudiziaria.
In effetti, quasi come l’omicidio di Kennedy o il 9/11, la vicenda giudiziaria che ha visto OJ Simpson accusato dell’omicidio di Nicole Brown e Ronald Goldman è stato un vero e proprio Evento, di quelli che marcano una discontinuità storica e narrativa: chiunque sa, anche solo a grandi linee, di cosa si parla, quali sono le premesse, come è andata a finire. È stato, soprattutto, un Evento nel senso più mediatico del termine, uno show televisivo di mastodontica portata e durata.
Basti pensare che, tra il 17 giugno 1994 e il 23 maggio 1995, i segmenti dedicati alla vicenda sui telegiornali dell’ABC furono di gran lunga superiori, in termini sia assoluti che percentuali, a qualsiasi altra notizia, comprese le elezioni presidenziali del 1994 e l’attentato di Oklahoma City, ad oggi il secondo più sanguinoso nella storia degli Stati Uniti. La trasmissione in diretta del verdetto di assoluzione registrò un’audience di più di 150 milioni di telespettatori, più della metà degli abitanti degli Stati Uniti. Non è una semplice questione quantitativa: la mediatizzazione ha anche prodotto radicali trasformazioni qualitative nel modo in cui nel mainstream si parla di razzismo, violenza di genere e processi penali, sancito nuovi paradigmi narrativi e commerciali, addirittura dato vita a saghe imprenditoriali e di costume, come quella delle Kardashian[1].
Derek Alderman è arrivato a parlare di simpsonizzazione dell’informazione domestica [2]; ovvero, un meccanismo per cui, durante lo svolgimento del processo, questo è diventato la lente attraverso cui leggere ogni notizia nazionale ed internazionale, rappresentando il parametro di contestualizzazione e di significazione degli eventi nel dibattito statunitense nella metà degli anni novanta. Per meglio chiarire il concetto, Alderman utilizza la nozione di hyper coverage: in presenza di una notizia rilevante, l’informazione televisiva tende a generare un flusso pressoché infinito di dati, informazioni, aggiornamenti, che vanno a sommarsi senza soluzione di continuità senza mai produrre una ricapitolazione o una contestualizzazione. Un movimento continuo, dunque, che da l’illusione di un’attività febbrile, di un continuo rovesciamento e cambiamento; una forma di copertura giornalistica che tende a sfumare nell’intrattenimento e nel sensazionalismo; un fenomeno che si autoalimenta in un circolo vizioso, poiché i vari attori mediatici tentano costantemente il rilancio per non essere lasciati indietro dalla concorrenza, producendo una saturazione sia del mercato, che delle narrazioni. L’hyper-coverage è un fenomeno quasi scontato nell’era di internet, ma, per quanto riguarda il medium televisivo, la vicenda OJ ha rappresentato un evento spartiacque. Non è casuale che questa sovraesposizione mediatica si sia prodotta sul campo di un processo penale: la copertura giornalistica dei processi negli Stati Uniti affonda le sue radici addirittura nel Sesto Emendamento, che attribuisce a quest’ultima particolare importanza in qualità di mezzo per garantire il diritto ad un processo pubblico e disarticolare così la possibilità dell’oppressione da parte di un tribunale segreto.
Come tutti gli Eventi, il caso OJ viene da lontano, ed arriva lontano: ha eco profonde e digressioni stellari, rappresenta insieme l’apice di traiettorie passate e il germe del nuovo a venire, è profondamente radicato nel suo contesto per le stesse ragioni per cui lo muta inesorabilmente e, in un movimento incessante, nel parlare di sé rivela sempre dell’altro.
In aggiunta alla scontata rilevanza di una vicenda scandalosa che vede protagonista una celebrità, Christo Lassiter [3] ha sottolineato come la narrazione intorno ad OJ risulti pienamente iscritta nel solco del sogno americano: il self-made man che si eleva dalla miseria di un sobborgo nero di San Francisco alle fulgide vette della carriera sportiva prima, e dell’industria dell’intrattenimento e cinematografica poi. Le sue qualità umane sono quelle che, dai romanzi di Fitzgerald ai serial televisivi, vengono esaltate come intrinsecamente e superbamente statunitensi: la determinazione, la perseveranza, la fiducia in sé stessi, l’adattabilità. In tutte le mitologie, però, all’ascesa dell’eroe fa da contrappeso la sua caduta, un fenomeno da osservare e sviscerare per trarne insegnamento. Di più, OJ era un self-made man nero, che aveva sposato una donna bianca e bionda: oltre a ben fungere da caso celebre di violenza domestica, pretestuosamente utile per aumentare la consapevolezza del grande pubblico sul tema, la vicenda si prestava splendidamente ad una narrazione razzista e, per così dire, vendicativa sugli uomini neri.
Inoltre, il successo mediatico si inscrive e, per certi versi, anticipa una tendenza televisiva degli anni 90 e, soprattutto, 2000, ovvero una determinata forma di rappresentazione mediatica della violenza di genere che mescola un’estetica splatter all’attenzione ossessiva per il dettaglio e la psicologizzazione del comportamento omicida: questa estetica ha adoperato come medium dapprima i film slasher, il sottogenere horror in cui un maniaco dà la caccia ad un gruppo di giovani brandendo armi da taglio, e poi il cosiddetto genere true crime. Quest’ultimo, rescindendo i legami con il fantastico, rappresenta un’ulteriore esaltazione del morboso: la dead blonde massacrata, punita per la promiscuità sessuale e l’autonomia, non è più una proiezione immaginata, ma un corpo concreto. Ciò che rimane invariato, in entrambi i generi e nel processo OJ, è l’invisibilizzazione della donna, ridotta a vittima, defraudata di una storia, legata esclusivamente al suo assassino. Non stupisce, quindi, che le indagini di mercato suggeriscano che il pubblico degli slasher e dei podcast true crime sia prevalentemente femminile: Sady Doyle interpreta questo dato come un tentativo di catarsi, un’ossessione derivata dal quotidiano e “una ricerca di consigli utili” [4] .
La dimensione, forse, più rilevante e centrale del caso OJ consiste però nella traslazione del processo da dibattimento in merito ad un duplice omicidio ad agone processuale sulla razza: dal razzismo della polizia alla blackness in quanto tale, da OJ come mera corporeità nera ai bias del sistema giuridico statunitense. Il dibattimento processuale ha mutato significato, deviando dalla sua traiettoria originale, e, al contempo, ha cristallizzato una particolare forma di lettura, che è andata progressivamente a sovrastare o ad eliminare tutte le altre: ha provocato contemporaneamente un’estensione ed una restrizione del dibattito nel suo farsi palcoscenico, rappresentazione, versione. Nel suo esplorare esplicitamente un aspetto della vicenda, ha ridotto la complessità di entrambi: lo spettacolo ha divorato il dibattito, producendo un discorso sul razzismo che, a ben vedere, nulla diceva sul razzismo.
Proprio come l’half-time show del Super Bowl, il race trial di OJ ha inglobato ed eclissato tutti gli altri aspetti di un fenomeno complessivo e generale, diventando l’unico punto su cui soffermare lo sguardo. Se il Super Bowl, e più in generale il football, è un evento che interessa principalmente il mercato americano, l’half-time show è un fenomeno di portata mondiale, le cui significazioni vanno ben al di là di un breve concerto a metà tra i due tempi di una partita: si potrebbe anche dire che la dimensione sportiva è l’aspetto meno rilevante della manifestazione, sia nei termini di audience televisiva che di portata narrativa. Allo stesso modo, il processo per il duplice omicidio, o, meglio, una particolare chiave di lettura di questo, ha assunto una centralità ed una rilevanza tali da mettere in ombra qualsiasi altro aspetto: le riflessioni sulla vicenda umana e sportiva di OJ, il dibattito sulla violenza di genere e sul razzismo, le lotte di potere e di interesse che si agitavano tra i banchi del tribunale di Los Angeles, perfino l’effettivo omicidio. Le origini dell’half-time show risiedono in una strategia commerciale degli anni '20 [5]: nel tentativo di pubblicizzare il suo allevamento di cani di razza, Walter Lingo, un imprenditore dell’Ohio, ideò una nuova forma di intrattenimento sportivo, che prevedeva degli spettacoli ispirati a quelli del circo di Buffalo Bill a margine di gare di football giocate da una squadra formata esclusivamente da nativi americani, gli Oorang Indians. Per quanto la patina più beceramente razzista dell’evento sia stata gradualmente rimossa, è difficile non prendere in considerazione questa sua tara originaria; non tanto perché costituisca una sorta di peccato originale da scontare, ma perché è spesso nei fenomeni di massa che si rivelano con più chiarezza le implicazioni e le traiettorie del dominio, specialmente quando queste, e la loro genealogia, risultano pressoché invisibili. Anche in questo aspetto, il caso OJ Simpson sembra ricalcare il principale evento dello sport che ha reso the Juice [6] una celebrità mondiale.
[1] Il fenomeno mediatico delle sorelle Kardashian, scaturito dalla serie del 2007 Keeping Up With The Kardashians, non sarebbe stato possibile senza le risorse finanziarie e la visibilità di Robert, padre delle sorelle e avvocato che fece appunto parte del team di difesa legale di OJ.
[2] Alderman, D. H. (1997), TV News Hyper-Coverage and the Representation of Place: Observations on the O. J. Simpson Case, Geografiska Annaler. Series B, Human Geography, Vol. 79, n. 2.
[3] Lassiter, C. (1996), The OJ Simpson Verdict: A Lesson in Black and White, Michigan Journal of Race and Law, n. 69.
[4] Sady Doyle, J. E. (2021; ed. or. 2019), Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, traduzione di Laura Fantoni, Roma, Edizioni Tlon, p. 69.
[5] Meler, B. (2017), The Start of Something Big, Big Reads, sportsnet.ca.
[6] Il soprannome di OJ Simpson deriva dal fatto che la sigla OJ è solitamente utilizzata come abbreviazione per Orange Juice.
Un paese relativamente giovane come gli Stati Uniti difetta di un portato storico proprio in cui rinvenire, più o meno fittiziamente, una narrazione epica che funga parimenti da origine e giustificazione mitologica del presente e da manifesto programmatico futuro. Se in Europa i processi di costruzione della nazione hanno potuto affondare le radici in una lettura, spesso ideologica e distorta, del passato (ad esempio, l’impero romano in Italia o una certa narrazione del Medioevo in Germania), negli Stati Uniti quella che Hobsbawm definiva l’invenzione della tradizione ha dovuto sostituire l’epopea storica con la creazione di comunità intorno a principi astratti e universali e con la mitologizzazione del presente. Da qui, ad esempio, “la terra degli uomini liberi” e la centralità di alcuni temi calvinisti abilmente privati dell’aspetto più confessionale- si pensi al In God we trust inscritto nelle banconote- da un lato, l’epopea del Far West e la lettura della guerra di Secessione come un conflitto etico inerente alla questione schiavile, e non politico-economico, dall’altro.
In questo senso, lo sport, o, meglio, la figura individuale dell’atleta, assume nell’immaginario statunitense un ruolo chiave: un’epica contemporanea che sublima i mantra nazionali dell'iniziativa individuale, del merito e della perseveranza, e che riesce a produrre gli effetti benefici dei conflitti armati- aggregazione, identità, volontà di potenza- ad un prezzo ben più basso e in tempi decisamente più brevi. Esattamente come la libertà universale tanto decantata dai padri fondatori, però, riservava i suoi benefici esclusivamente agli uomini bianchi, anche lo sport e la narrazione sportiva hanno escluso dai propri ranghi le persone razzializzate, sia nei termini discorsivi che prettamente fisici. Con la sua semplice logica binaria- noi e loro, vincere o perdere, home e away-, lo sport è un campo perfetto per formulare metafore di senso più ampio: ad esempio, per esprimere e rafforzare le concezioni razziste che pongono i corpi neri come meno che umani, e quindi come meno razionali e più connessi alla natura, qui lodando le doti fisiche e atletiche intrinseche alla nerezza, qui biasimandone la mancanza di lucidità ed intelligenza tattica.
Gli atleti Afroamericani incarnano sia, in quanto atleti, una delle costruzioni ideologiche chiave della società statunitense, sia, in quanto Afroamericani, la sfida alle dinamiche di dominio razziale altrettanto fondamentali nello sviluppo della stessa. Anche lo sport, rappresentazione fedele della società in cui si inscrive, ha conosciuto la segregazione, la riconciliazione e la color-blindness; anche lo sport ha conosciuto il conflitto, l’invisibilizzazione della marginalità, la messa a valore. In questo senso, lo sport è caratterizzato da una forte ambivalenza, costituendo al contempo un efficace strumento per rafforzare e legittimare il dominio e una piattaforma di liberazione.
Nell’era del movimento per i diritti civili, sono state molteplici le figure sportive Afroamericane che hanno sfruttato la loro visibilità per esprimere atti e messaggi di rottura contro il razzismo sistemico statunitense, subendo poi ostracismo ed esclusione. Mohammed Alì venne sanzionato con cinque anni di galera e la squalifica dalle attività sportive per la sua renitenza alla leva obbligatoria e l’opposizione alla guerra in Vietnam; alla premiazione dei duecento metri piani delle Olimpiadi di Messico 1968, Tommie Smith e John Carlos misero in atto una protesta iconica, salendo sul podio scalzi e alzando il pugno durante l’esecuzione dell’inno nazionale, venendo poi espulsi dal villaggio olimpico e terminando di fatto la loro carriera nell’atletica leggera.
C’è da sottolineare, però, che il piano simbolico della lotta al razzismo può anche essere una narrazione che eccede la volontà dei singoli atleti o viene addirittura imposta; talvolta, un messaggio apparentemente progressista può nascondere traiettorie profondamente reazionarie. Ad esempio, la vittoria nel salto in lungo alle Olimpiadi di Berlino 1936 di Jesse Owens venne raccontata come un grande smacco al razzismo nazista e un trionfo della democrazia egualitaria statunitense; cioè, della stessa democrazia che, nel raccontarsi, metteva in ombra il segregazionismo, i linciaggi, il KKK [7]. Nelle sue interviste [8], Jesse Owens raccontava, più che lo sdegno di Hitler, il fatto che, dei partecipanti all’Olimpiade, il presidente Roosevelt avesse ricevuto alla Casa Bianca solo gli atleti bianchi. Similmente, alle narrazioni della guerra in Vietnam come una crociata per la giustizia e la libertà, Mohammed Alì risponderà che “I got nothing against the Vietcong, they never called me nigger”.
In antitesi al paradigma dell’atleta Afroamericano impegnato politicamente, possiamo rinvenire una tipologia di atleta che potremmo definire post-razziale: nel suo elidere e, presuntamente, oltrepassare la questione razziale, questa categoria narrativa qualifica la nerezza in sé come ostacolo e svantaggio, dando il là ad una fantasia di trascendenza razziale [9] che si appoggia su stereotipi ed archetipi in grado di confermare le traiettorie razziste proprio invertendo le “normali” aspettative razziste. Un esempio di questa formula è l’archetipo dell’exceptional negro, dalle doti atletiche e fisiche sovraumane (o bestiali?), spesso adoperato per raccontare l’atleta OJ, veloce come il vento, potente come un uragano: la stessa velocità che gli permise di effettuare l’iconica corsa delle 64 iarde contro l’UCLA lo rese il profilo perfetto per il celebre spot della Hertz del 1978. L’immagine proiettata da OJ in questo breve video lo delinea come modello di nerezza inoffensiva, amichevole: vestito elegantemente, pubblicizza le stesse auto che, se associate con gli Afroamericani, possono più facilmente essere accostate a vicende come quella di George Floyd [10]. È un uomo nero, ma si aliena dalla sua nerezza: potrebbe ben essere un bianco.
The Juice sceglie di essere esclusivamente un atleta, ad esempio rifiutando, nel 1968, di aderire ad una campagna di atleti per i diritti civili. La carriera attoriale di OJ, per esempio nel ruolo goffamente comico interpretato ne Una pallottola spuntata, rafforzerà questa estetica rassicurante ed ingenua, che elimina la questione razziale semplicemente ignorandola; sulla stessa scia, Michael Jordan rifiuterà di sostenere il candidato democratico Harvey Gantt, dato che «Republicans buy sneakers too» [11], e, più in generale, incarnerà e sosterrà una narrazione di sè totalmente spogliata della nerezza. La storia di Jordan è emblematica anche per la dissonanza che c’è tra la sua retorica color-blind e la geografia della sua vita: la sua carriera è infatti legata a luoghi come la North Carolina, un feudo del KKK, dove giocò nei campionati universitari, e Chicago, la città che, contemporaneamente, eleggeva a suoi idoli atleti Afroamericani in ogni sport e veniva ritenuta una delle città del nord più segregate a livello residenziale- la città dove il vento soffia sugli homerun di Ernie Banks [12] e sul sangue di Fred Hampton [13]. La medesima compresenza, discorsiva e spaziale, tra figure sportive Afroamericane di successo e conflittualità sulla linea della razza è, inoltre, una delle ragioni del cospicuo investimento televisivo sulla copertura del processo OJ.
Infatti, negli anni immediatamente precedenti al delitto, il pestaggio di Rodney King da parte degli agenti del LAPD e l’uprising conseguente, insieme all’emersione mediatica delle gang, avevano restituito l’immagine di una Los Angeles sconquassata dalla violenza, una giungla urbana di droga e miseria. La vicenda di OJ Simpson, a partire dal suo- non particolarmente- rocambolesco inseguimento con la polizia, era perfetta per deviare ed incanalare questa narrazione: l’audience bianca aveva un delitto efferato da godersi e da commentare, senza (essere indotta a) temere di essere una possibile vittima, un dibattito sul razzismo negli Stati Uniti che offriva più certezze ed opinioni che radicali autocritiche e, come imputato, un volto noto dal sorriso smagliante, piuttosto che un anonimo balordo. Cancellare la patina di violenza che aveva ricoperto le narrazioni di Los Angeles era ormai impossibile; piuttosto, si poteva ricondurla nell’alveo di Hollywood e dei vip in limousine, al contempo valorizzandola e ridimensionandola.
Se, quindi, OJ ha aperto una pista, l’atleta Afroamericano che ha più legato la sua storia ad un’idea vincente ed inoffensivamente apolitica di blackness è stato il già citato Michael Jordan. Joshua Wright [14] analizza l’impatto della figura di Jordan, evidenziandone sia gli elementi di continuità con atleti a lui precedenti- OJ su tutti- sia le discontinuità in termini di caratteristiche ed impatto: l’autore considera Jordan il paradigma del black athlete dilemma, ovvero della scelta dolorosa tra l’esposizione politica e la carriera individuale. Se il cestista ha rappresentato l’apice della cosiddetta Me-Generation, Wright sottolinea come la generazione di atleti successiva a Jordan sia riuscita, in qualche modo, a coniugare il successo personale con l’attivismo sociale. È altrettanto vero che anche oggi l’esposizione su temi politici rimane, se non un tabù, un atto passibile di rappresaglia, a seconda della profondità delle critiche e delle soggettività coinvolte: oltre alle difficoltà sistemiche che una donna nera può incontrare in uno sport tradizionalmente bianco e borghese come il tennis, Serena Williams si è spesso ritrovata al centro di forti polemiche per il suo discostarsi da un modello conforme- composto e gentile- di femminilità, e ha più volte espresso posizioni forti contro il razzismo ed il sessismo nel mondo del tennis. Se Lebron James ha ricevuto plauso e stima per le sue parole a favore di BLM, Colin Kaepernick è stato estromesso dal mondo del football dopo essersi inginocchiato in segno di protesta durante l’esecuzione dell’inno americano nell’estate 2016. A fronte dell’ostruzionismo del mondo dello sport e del partito repubblicano [15], Kaepernick ha invece incontrato aperture importanti dal mondo aziendale: lo spot Nike che lo vede protagonista dimostra la complessità del posizionamento sulla questione razziale e la capacità capitalista di integrare ed inglobare elementi di rottura, mettendoli a valore e, di fatto, depotenziandoli.
[7] Ku Klux Klan.
[8] Fling, S. (2021), “Running Against the World”. Jesse Owens and the 1936 Berlin Olympics, The White House Historical Association.
[9] Chau, J. e Walton, P. (2018), “I’m Not Black, I’m O.J.”: Constructions, Productions, and Refractions of Blackness, Canadian Review of American Studies, A48 n.1.
[10] Secondo tutti gli studi più recenti, è molto più probabile che una persona nera alla guida sia fermata dalla polizia e sottoposta a perquisizioni: più che l’opera di alcune “mele marce” o un esempio di eccesso di zelo, la vastità del fenomeno lo configura come l’esito abituale di una profilazione criminale su base razziale. Anche per esulare degli Stati Uniti- dove le violazioni stradali hanno valore penale, e non amministrativo- si può ricordare in Italia il caso di Tiémoué Bakayoko, calciatore del Milan fermato alla guida della sua auto nel giugno 2022: gli agenti di polizia, insospettiti da una persona nera alla guida di un’auto di lusso, gli puntarono contro una pistola prima di avvedersi dell’errore.
[11] Nel documentario del 2020 The Last Dance, Jordan ha ammesso di aver effettivamente pronunciato la frase, sostenendo, tuttavia, che si trattasse semplicemente di una battuta scherzosa.
[12] Considerato uno dei migliori giocatori di baseball di tutti i tempi, Banks ha giocato tra il 1953 e il 1971 per i Chicago Cubs: in un sondaggio del Chicago Sun Times del 1969, venne incoronato miglior atleta di sempre del club.
[13] Coordinatore del Black Panther Party per lo stato dell’Illinois, venne assassinato nel suo letto nel 1969 dagli agenti dell’FBI: il suo omicidio faceva parte del COINTELPRO, un programma segreto delle forze dell’ordine federali che prevedeva lo smantellamento e l’eliminazione, anche fisica, delle organizzazioni politiche “sovversive”, specialmente quelle marxiste ed antirazziste.
[14] Wright, J. (2016), Be Like Mike?: The Black Athlete’s Dilemma, Spectrum: A journal on Black Men, Vol. 4, n. 2
[15] Anche a suoi livelli più elevati: ad un anno dal gesto di Kaepernick, a cui non era già stato rinnovato il contratto dai San Francisco 49ers, centinaia di atleti si unirono alla protesta contro il razzismo sistemico, spesso inginocchiandosi durante l’esecuzione di The Star Spangled Banner. In un discorso ad Huntsville, Alabama, il 22 settembre 2017, l’allora Presidente Trump commentò: «Wouldn’t you love to see one of these NFL owners, when somebody disrespects our flag, to say “Get that son of a bitch off the field right now. Out! He’s fired. HE’S FIRED!”».
Kobe Bryant, Cristiano Ronaldo, Mike Tyson, Tiger Woods: cos’hanno in comune queste figure, al di là di essere stati i numeri uno del loro sport, sicuramente per un dato periodo, forse di tutti i tempi? Sono tutti stati al centro di procedimenti giudiziari per violenza sessuale e di genere.
Si potrebbe obiettare, e a ragione, che la violenza di genere è un discorso che riguarda la maschilità nel suo insieme, e non una categoria più o meno ristretta al suo interno; e, soprattutto, che soffermare lo sguardo su una specifica cerchia rischia non solo di disarticolare un discorso complessivo ed efficace sulla maschilità tossica, impedendogli di innescare trasformazioni e decostruzioni, ma anche di spostare il focus da una dimensione sociale e culturale ad alcune caratteristiche precise (in questo caso, la fisicità e la tendenziale bassa scolarizzazione) che incarnano narrazioni ugualmente tossiche e dominanti, come quelle classiste o razziste. È altrettanto vero, però, che le tendenze complessive di una società si configurano con intensità e vigore differenti negli specifici contesti, e che, se l’essenza e le traiettorie del dominio rimangono invariati, altre caratteristiche possono invece assumere aspetti e sviluppi profondamente differenti. Inoltre, alcuni contesti sono particolarmente rilevanti per la loro diffusione di massa, per l’importanza sociale assunta e per la loro conseguente capacità pedagogica: lo sport- e la sua narrazione- è a tutti gli effetti un campo di formazione, che replica, tramanda e inculca, in maniera sottile ed implicita, alcune delle regole fondamentali della nostra società.
Il cameratismo maschile, il culto della forza fisica e della determinazione, la competizione che si fa volontà di annullamento, l’idea che “se vuoi qualcosa e lotti duramente contro tutte le aspettative e le porte in faccia, prima o poi lo otterrai”, l’esistenza di porzioni spazio-temporali in cui tutto è concesso, data la posta in palio e la sacrosanta adrenalina che scorre a fiumi: sono tutti valori posti a fondamento della pratica sportiva agonistica ed incessamente rinnovati e celebrati in essa, ma che potrebbero figurare tranquillamente in un’analisi descrittiva della mascolinità patriarcale. Tenere insieme entrambi questi blocchi di ragionamento- della maschilità sportiva come configurazione specifica della maschilità e della maschilità sportiva come nuda maschilità- può rappresentare un valido punto d’avvio per una riflessione che possa illuminare il rapporto spesso taciuto tra la violenza di genere e la creazione di un modello di maschilità attraverso lo sport.
Dietro al divorzio tra OJ e Nicole Brown c’erano anche i frequenti maltrattamenti ed abusi dell’ex giocatore: nel corso del processo, l’accusa portò come prove anche una serie di registrazioni di chiamate effettuate da Brown al 911, la più grave delle quali risaliva al capodanno del 1989, in cui la donna denunciava un brutale pestaggio ed esprimeva il timore di essere uccisa. È emblematica la risposta della difesa, che screditò la linea dell’accusa sostenendo che, dei 4 milioni di donne all’anno che denunciavano degli abusi dal partner negli Stati Uniti, solo 1500 di loro venivano poi uccise da questo; dunque, i maltrattamenti passati non potevano essere considerati una valida argomentazione.
Da un lato, è un perfetto esempio di come si possa, manipolando un dato e formulando un sillogismo apparentemente valido (piuttosto, ci sarebbe da chiedersi quante di queste vittime di femminicidio fossero state assassinate dal partner abusivo- nel 90% dei casi), esprimere una conclusione terribile ed errata dandogli una patina di buonsenso; dall’altro, quanto poco conti la testimonianza di una donna e di come la violenza sulle donne possa essere sminuita e ritorta contro di loro. Occorre, quindi, non pensare esclusivamente per numeri e statistiche, ma piuttosto per traiettorie e tendenze, per riuscire a produrre discorsi capaci di smuovere trasformazioni e avanzamenti sulla questione.
Tuttavia, non si tratta semplicemente di parlarne: il punto, piuttosto, è come se ne parla. La rappresentazione mediatica della violenza di genere è sensazionalistica, fa spesso ricorso a cliché ed archetipi ben noti, che pongono la lora attenzione sulla mostruosità individuale dell’assassino e sulla colpa, urlata o soltanto suggerita, della vittima. Per negare ed invisibilizzare le sue responsabilità sistemiche, la civiltà patriarcale legge lo stupro nei termini della deviazione animalesca (la bestia, il lupo) e, in generale, non-umana (il mostro, l’orco) dal comportamento razionale; la stessa operazione, del resto, compiuta per legittimare il suo dominio sulle linee della razza e del genere. Quando queste due presunte alterità irrazionali- lo stupro e una soggettività non bianca- condividono uno spazio di discorso, le narrazioni patriarcali e razziste assumono, se possibile, un’intensità e una forza ancor più dirompenti. Non è stato un uomo a stuprare, a molestare: è stato un malato, una bestia, un nero. E che fare, per esempio, di un nero che «indossa la livrea che gli ha fatto il bianco» [16]? Semplice, lo si riporta alla sua Nerezza, all’«oggetto fobogeno e ansiogeno» [17] che è il nero nelle società razziste e coloniali: ad esempio, scurendogli artificialmente la pelle nelle foto, com’è successo ad OJ sulla copertina del Time Magazine di giugno 1994, o accentuando, con artifici retorici o con l’editing fotografico, le caratteristiche comunemente più associate alla nerezza. Nell'amplificazione della carnagione dark-skinned di OJ viene messa in luce la saldatura profonda tra il dominio razzista e quello patriarcale; saldatura che si rafforza proprio nella produzione di un discorso capace di selezionare quali punti illuminare e quali elidere, e, dunque, di affermarsi soprattutto nella sottrazione.
Nel football americano, il blind side indica un’area ai lati del quarterback, preclusa alla sua vista dal momento che questi è concentrato sul campo di fronte a lui, e quindi particolarmente esposta agli attacchi avversari: un lato cieco, dunque, una porzione di spazio interdetta, invisibile, dei fenomeni al cui interno non è possibile avere contezza. La stretta relazione tra violenza di genere e cultura sportiva si produce appunto in un blind side, nello spazio in cui gli avvenimenti, per così dire, sportivi rompono la narrazione che li vuole esclusivamente inerenti alla dimensione ben delimitata dello sport; nello spazio che apre, o, meglio, evidenzia, le connessioni tra il particolare e il generale, le correlazioni tra gli andamenti del dominio e le condotte che, apparentemente, non c’entrano, lo stacco tra le narrazioni ideologiche e la materialità di una tendenza. Ma The Blind Side è il titolo di un fortunato film del 2009 con Sandra Bullock, che descrive la storia di Michael Oher, giocatore nero di football che ha il ruolo di offensive tackle, il giocatore appunto preposto al controllo del blind side: il film esplora soprattutto la sua nascita in una condizione socio economica disastrata e la sua ascesa nel mondo del football, permessa e supportata dalla madre adottiva bianca Leigh Anne Tuhoy, che si potrebbe definire la vera protagonista del film. Quattordici anni dopo l’uscita del film, però, Oher ha intentato una causa contro Leigh Anne ed il marito Sean, accusandoli di non averlo mai legalmente adottato, ma, piuttosto, di averne ottenuto la tutela unicamente per sfruttarlo economicamente.
D’altronde, uno spazio in cui non si vede è anche uno spazio in cui non si capisce perfettamente, in cui è facile confondersi e travisare i fenomeni: lo sguardo con la coda dell’occhio del quarterback non legge le figure, piuttosto intravede dei movimenti, senza per questo avere la matematica certezza di una distanza o di una strategia. Nel blind side, è facile percepire un avversario più vicino o lontano di quanto in realtà non sia, dirsi certi di uno scatto in avanti solo accennato o immaginato, scambiare di posto amici e nemici: leggere una storia di sfruttamento economico nel solco del suprematismo bianco come una vicenda di riscatto individuale, solidarietà, amore che rompe le barriere della razza.
La dimensione forse più rilevante del blind side risiede tuttavia nel suo essere uno spazio da proteggere, da difendere a tutti i costi: il dominio non si riproduce solamente per l’assenza di un’analisi, ma soprattutto per un complesso di forze e poteri che ne salvaguardano l’esistenza. Una delle lezioni rivolte ai rookies dell’NBA nei corsi tenuti dalla federazione è incentrata su come difendersi dalle presunte gold-diggers: donne che, per poter ottenere denaro e visibilità, ronzano intorno agli atleti, seducendoli e, magari, accusandoli di stupro- approfittatrici, streghe, sirene. È doveroso sottolineare che non è necessario attraversare l’Atlantico per trovare esempi simili: nel 2015, quattro calciatori della primavera del Brighton vennero accusati di stupro e la società decise di sottoporre l’intera squadra ad un corso sul consenso intitolato PIP (Protect Inform Prevent). L’azienda erogatrice descrive il corso come «un esclusivo pacchetto formativo progettato per aiutare a salvaguardare la reputazione e le carriere degli atleti professionisti e dei loro club dalle accuse di violenza sessuale» [18].
[16] Fanon, F. (2015; ed. or. 1952), Pelle nera, maschere bianche, traduzione di Silvia Chiletti, Pisa, Edizioni ETS, p. 47
[17] Ivi, p. 143.
[18] Le pagine dell’azienda Liberton Investigations e dell'associazione Life Center non sono più disponibili: tuttavia, il testo è consultabile all’indirizzo https://web.archive.org/web/20150408095550/https://libertoninvestigations.com/pip_training.php.
Sin dalla scelta di John Cochram- precedentemente avvocato di alcune vittime di pestaggi della polizia durante l’uprising di Rodney King e del detenuto politico del BPP Geronimo Pratt- come avvocato di punta del pool legale di OJ, era evidente come la linea scelta della difesa fosse quella di far assurgere l’imputazione di duplice omicidio ai danni di OJ ad esempio paradigmatico del razzismo della polizia. Da un lato, questa linea poggiava sulla specifica accusa di razzismo e di manipolazione delle prove ai danni dell’investigatore Mark Fuhrman, che aveva rinvenuto sulla scena del delitto i famigerati guanti insanguinati: la difesa fece ascoltare in aula una serie di registrazioni dell’agente, in cui utilizzava un linguaggio pesantemente razzista e alludeva al fatto che, di fronte ad una colpevolezza manifesta, le prove in qualche modo saltano fuori. Dall’altro, non c’era neanche bisogno di produrre prove a sostegno della tesi: bastava la materialità dell’esperienza vissuta dalle persone nere negli Stati Uniti. È in questo senso che va inquadrato il generico supporto ad OJ da parte della comunità Afroamericana, come presa di posizione su una questione specifica sulla base di una tendenza sociale complessiva e profondamente biografica: d’altronde, «ciò che sembra ragionevole ad una vita persona nera può non sembrare tale ad una persona bianca, specialmente in questioni che riguardano la polizia»[19]. Questo supporto, naturalmente, non va sovrastimato e va sempre inquadrato alla luce delle disparità di genere e di classe: ad esempio, Ellie Bulkin e Becky Thompson sottolineano come, in relazione al processo Simpson, venisse richiesta l’opinione delle donne nere in quanto donne o in quanto nere, mai come insieme; quasi che dovessero scegliere quale delle due parti sostenere, schiacciate dal ricatto dell’appiattimento della complessità.
Insomma, c’era un interesse condiviso, sia dal team di difesa legale, sia dall’accusa- non tanto nel senso strettamente giuridico, quanto in quello complessivo di una società che si scaglia su un imputato per difendere ed affermare sé stessa-, nel condensare e circoscrivere la totalità del processo nella riduzione a nuda nerezza di OJ. Come ben sottolinea Ralph Wiley in un articolo particolarmente caustico verso OJ Simpson ed il documentario del 2002 di HBO incentrato sulla sua vicenda giudiziaria[21], the Juice è stato spesso presentato come un unifying symbol for all races; ma c’è da chiedersi, piuttosto, cosa voglia dire riconciliazione e chi volesse essere riunito, e in che termini. Se il documentario comincia con una scena in cui the Juice dichiara che «I’m a black guy, always been a black guy, always been nothing than a black guy», Wiley definisce Simpson come un uomo che «ha provato ed è quasi riuscito ad essere tutto fuorché un uomo nero»[22].
Anche dopo il duplice omicidio, sostiene l’autore, OJ non è stato trattato semplicemente da persona nera, ma, piuttosto, da persona ricca: ha avuto la possibilità di uscire su cauzione, di essere inseguito in macchina a velocità ridottissima e con in sottofondo le suppliche dell’LAPD- stop, OJ, please, we love you- e i cori dei suoi tifosi appollaiati sui cavalcavia, di andare a processo a Los Angeles, e non in una cittadina a stragrande maggioranza bianca, e di avere una giuria multi-razziale. Da un lato, quest’ultimo fattore rappresenta, in teoria, una forma di tutela e garanzia di un equo processo; dall’altro, fornisce un bersaglio perfetto. Nel dibattito contemporaneo al processo, emerge spesso l’accusa ai giurati neri di aver optato per l’assoluzione esclusivamente per difendere OJ in quanto nero; e non perché il processo penale si pone come oggetto di indagine non tanto la verità dei fatti, quanto un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. La riflessione sull’importanza della composizione razziale delle giurie si rovescia, dunque, di direzione e di traiettoria: da strumento per livellare i bias razzisti, fornire una rappresentazione il più possibile piena e democratica delle varie comunità e riaffermare la natura profondamente umana e sociale del processo penale, torna a perpetrare, con veste diversa ed identifica forza, lo stesso razzismo che pone come bersaglio.
La presenza di una sorta di anticipazione del movimento me-too sulla linea del colore, e non del genere, e la constatazione del razzismo dei commentatori e degli analisti bianchi, nella loro granitica certezza che i giurati neri avessero emesso un verdetto di non-colpevolezza sulla base della comune identità razziale, sono fenomeni perfettamente coerenti tra loro; lungi dall’escludersi vicendevolmente, sono piuttosto configurazioni differenti di una stessa traiettoria. La stessa traiettoria che unisce il fenomeno della color-blindess, l’appiattimento della complessità su un’unica- per quanto ampia e pervasiva- chiave di lettura e il razzismo più retrogrado e sfrontato; la stessa traiettoria tipica, d’altronde, di un sistema socio-economico che, nell’arco di poche generazioni, ha declinato il dominio razziale in forme diversissime tra loro (dalla schiavitù alla segregazione all’elezione di un presidente nero) senza tuttavia mutare, a livello sistemico, né il dominio bianco, né l’apparato economico contemporaneamente prodotto e produttore del sistema razziale.
Da un lato, la narrazione del processo OJ come di un processo sulla- alla- razza adombrava il fatto che, sul piatto del dibattimento, ci fosse una violenza di genere; dall’altro, leggeva la seconda esclusivamente nel solco della prima, in un meccanismo che potremmo definire di intercambiabilità degli assi di dominio. Questa narrazione era agevolata dal fatto che il duplice omicidio rappresentava contemporaneamente una variazione e un’aderenza agli stereotipi sulla violenza di genere: era la prova che la violenza domestica trascendesse la dimensione di classe e “succedesse anche nelle migliori famiglie”, ma collimava perfettamente con le narrazioni razziste della predatorietà dei Neri, soprattutto se nel ruolo- esclusivo- di vittima c’era una donna bianca e ricca.
Bulkin e Thompson hanno evidenziato il punto centrale della narrazione mediatica dominante intorno al caso OJ: ogni giorno, i telespettatori sono stati bombardati con immagini, ricostruzioni e riflessioni che ricordavano come un uomo nero avesse ucciso una donna che incarnava l’idea dominante della femminilità bianca. Vite ridotte a vittime, spogliate della propria umanità e sfruttate come arma; un femminicidio depauperato della propria complessità e trasformato in un’estenuante campagna razzista; un grande spettacolo dove il punto da tenere a mente è che, per quanto ricco o famoso, un nero è sempre e solo un nero, barbarico, disumano, pronto a uccidere le nostre donne. Le autrici ben evidenziano anche come quest’operazione non sia esplicita, ma sottile ed insidiosa, guadagnando forza e inscalfibilità proprio a partire dall’assenza di una dimensione manifesta: è più difficile rilevare e controbattere a qualcosa che non viene mai detto chiaro e tondo, a qualcosa di evidente, ma sempre occultabile e negabile, e dunque «ciò che ai bianchi è stato insegnato essere scortese da dire a parole viene piuttosto comunicato attraverso le immagini» [23].
La celebrità e il colore della pelle di OJ produssero un aumento massiccio della copertura giornalistica in materia: non solo è da sottolineare che, in seguito all’emissione del verdetto, quasi tutte le pubblicazioni ritornarono ai livelli precedenti al caso OJ, ma anche che la stragrande maggioranza degli articoli pubblicati rientravano perfettamente nella forma canonica di racconto della violenza maschile- ovvero, articoli incentrati sull’azione mostruosa del singolo, che spettacolarizzavano il delitto o gli abusi rimuovendo qualsiasi analisi sociale e contestuale ad eccezione dell’esposizione delle normative giuridiche in materia o dei consigli per le vittime (numeri verdi, telefono rosa e affini), che, in ultima analisi, facevano ricadere sulla donna vittima di abusi la responsabilità di mettervi fine [24]. Anche nelle riflessioni sulle sanzioni legali per la persona abusante si può scorgere l’emersione di traiettorie razziste e patriarcali: difatti, ai casi che vedono come colpevoli uomini neri e famosi viene data una visibilità particolare ed elevata, e anche il contenuto degli specifici dibattiti può nascondere nei suoi rivolti le profondità del dominio. Ad esempio, nella vicenda OJ, era opinione comune che, se fosse emersa la possibilità della pena capitale, i giurati avrebbero preferito esprimere un verdetto di non colpevolezza, piuttosto che vedere the Juice nel braccio della morte: sempre Bulkin e Thompson fanno notare, da un lato, come la pena capitale negli Stati Uniti si configuri come una vera e propria evoluzione giuridica del linciaggio, essendo questa comminata in percentuali abbondamente maggiori alle persone razzializzate; dall’altro, come questa venga molto di rado presa in considerazione in caso di femminicidi e delitti di genere, se non, appunto, in presenza di un uomo nero che uccide una donna bianca. Volta la carta, e sotto le accuse di violenza di genere esce a sorpresa il maglio del razzismo; volta la carta, e sotto processo non c’è un uomo violento, ma una donna in quanto tale.
L’ultima autorete dell’accusa, impantanata in un processo complessissimo per temi ed esposizione mediatica, venne siglata dall’assistente procuratore Christopher Darden: se, sino a quel momento, l’accusa aveva tentato un’esposizione lineare e ragionata, scontrandosi tanto con l’ignoranza di pubblico e giuria sulle questioni “tecniche” (ad esempio, il valore come prova del DNA era ancora poco riconosciuto a livello di massa), quanto con la sua stessa incapacità di argomentazione e spiegazione, il 15 giugno decise di azzardare un colpo ad effetto. Il procuratore portò in aula i guanti rinvenuti sulla scena del delitto e chiese ad OJ di indossarli, per poi ammutolire di fronte alla vista dell’ex giocatore che infilava a fatica dei guanti ormai striminziti: un assist perfetto per Cochran, che potè pronunciare la frase poi assurta a grande simbolo del processo- if it doesn’t fit, you must acquit. Non si era considerato che lunghi mesi in un deposito giudiziario e l’incrostarsi del sangue potessero aver ristretto i guanti; né si poteva sapere che, forse, OJ aveva smesso di assumere le sue medicine contro l’artrosi per premunirsi da una simile eventualità; soprattutto, che un processo penale, come il dipanarsi di una società razzista e patriarcale, è una faccenda complessa, sfaccettata, di mille rivoli che si disperdono in varie direzioni per poi giungere, in qualche modo, allo stesso mare. Che, se alle diramazioni ingarbugliate della razza e del genere si preferisce la linearità spettacolare, qualsiasi riflessione è destinata a rimanere un unfitting glove.
[19] Butler, P. Black Jurors: Right to Acquit?, citato in Chau, J. e Walton, P. (2018).
[20] Bulkin, E. e Thompson, B. (1994), The Spectacle of Race and Gender in the O.J. Simpson Case, Off Our Backs, Vol. 24, n. 9.
[21] Wiley, R. (2002), White Lies: HBO Gets it Half Right, ESPN Page 2
[22] Ibidem
[23] Bulkin, E. e Thompson, B. (1994).
[24] Borum, C., Hornik, R., Huxford, J. e Maxwell, K.A. (2000), Covering Domestic Violence: How the O.J. Simpson Case Shaped Reporting of Domestic Violence in the News Media, J & MC Quarterly, Vol. 77, n. 2.
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