Elephant in the Room: la questione razziale nell'era di Trump

A cura di Pietro Carignani, Mattia Marzà, Gabriel Seroussi

1. Winning Souls: come Trump prova a conquistare il voto dei Neri

di Pietro Carignani

8min circa

Nei giorni successivi alle elezioni politiche del 2016, mentre i commentatori internazionali cercavano di spiegare l’inattesa vittoria di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, le agenzie analitiche iniziavano a studiare la composizione del voto. Prevedibilmente, gli Afroamericani erano il gruppo razzializzato che maggiormente si era opposto all’ascesa del miliardario newyorkese: solo l’8% dei votanti Neri avevano supportato il Partito repubblicano, una percentuale irrisoria se confrontata al 46,1% raccolto dal Grand Old Party sulla totalità degli elettori[1]. 

Le ragioni dietro questa sproporzione non erano misteriose. Gran parte degli Afroamericani aveva rinnovato la propria fedeltà al Partito democratico dopo la storica elezione di Barack Obama, il primo presidente Nero nella storia degli Stati Uniti. Per costoro votare Hillary Clinton, candidata prescelta nel 2016 ed ex-Segretario di Stato di Obama stesso, era stata una scelta naturale. Allo stesso tempo la retorica di Trump appariva virtualmente inaccettabile per gli elettori non bianchi: un candidato che faceva ampio uso di assunzioni razziste, che incoraggiava l’uso della forza da parte della polizia e criticava le politiche di assunzione delle minoranze non poteva raccogliere troppo successo nella comunità Nera.
Nei successivi otto anni, tuttavia, qualcosa è iniziato a cambiare. Lentamente, ma inesorabilmente, il numero di sostenitori di Trump tra gli Afroamericani è aumentato: quell’8% del 2016 è salito al 12% nel 2020 e, fino a pochi mesi fa, si era assestato a un inaspettato 17%. Al di là dei numeri, l’impressione generale era che il Partito repubblicano, pur mantenendo inalterato il proprio messaggio politico, fosse riuscito ad accrescere la propria credibilità all’interno di una collettività che gli è storicamente ostile[2].

Al contrario di quel che si possa pensare, la vicinanza tra il Partito democratico e le istanze degli Afroamericani è relativamente recente. Erano stati i repubblicani a promuovere l’abolizione della schiavitù, repubblicano era Lincoln, “the Great Emancipator”, repubblicani i primi Neri eletti al Congresso. Di contro, i democratici erano rimasti su posizioni molto meno progressiste tanto che, a seguito della Guerra Civile, si affermarono come la principale forza politica tra i bianchi del Sud. Questa suddivisione, che oggi può sembrare paradossale, è mutata solo nel corso di vari decenni: dagli inizi del Novecento il Partito democratico ha iniziato ad abbracciare idee più progressiste, in un processo compiutosi solo all’alba degli anni Sessanta. Da allora, seppur con molte frizioni e scontri interni, i Dem hanno potuto contare su una solida base elettorale nella comunità Afroamericana, e l’alleanza tra i Neri e il partito liberal è diventata assunto comune nella politica statunitense.

Questa digressione storica è necessaria per comprendere che la propensione politica degli Afroamericani non può essere assunta a priori. Come ogni gruppo sociale essi ricercano dei rappresentanti che possano sentire vicini e che propongano politiche che rispondono ai loro bisogni. Allo stesso tempo va smentito l’assunto che il voto dei Neri negli Stati Uniti sia monolitico e privo di sfaccettature. Nonostante in certi momenti possano apparire come un blocco unico, diversi individui e comunità rispondono a diversi stimoli.

Esiste tuttavia un discorso politico nazionale per gli Afroamericani, e indubbiamente il Partito democratico è stato quello che, nell’ultimo secolo, è riuscito a presentarsi come la migliore opzione per rappresentare la voce di milioni di essi. Per quanto il «blocco di voti Neri» auspicato da Malcolm X già nel 1964 e in grado di decidere il destino politico del paese non si sia mai realizzato[3], decenni di risultati elettorali ci dicono che la schiacciante maggioranza degli Afroamericani vota democratico, e tutto lascia pensare che sarà così anche quest’anno.

Siamo quindi ben lontani dal poter prevedere un abbandono del partito da parte della sua base più fedele, ma per come funzionano le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, anche una piccola fluttuazione potrebbe risultare decisiva.

Com’è noto, infatti, a determinare la vittoria di questo o l’altro candidato sono spesso poche decine di migliaia di voti, quelli espressi nei cosiddetti swing states, vale a dire quegli stati dove, alla vigilia delle elezioni, il margine tra i due partiti risulta estremamente ridotto. In un contesto equilibrato come quello che si prospetta il prossimo novembre, per Kamala Harris e a Donald Trump sarà necessario vincere in questi stati chiave per conquistare la Casa Bianca. È in questo scenario che si inserisce il crescente investimento che la campagna repubblicana sta facendo verso la comunità Afroamericana: Trump sa benissimo che non potrà mai ottenerne la maggioranza dei voti, ma sa che spostarne poche migliaia negli stati giusti potrebbe essere sufficiente a farlo tornare presidente.

In alcuni di questi swing states, peraltro, la popolazione Afrodiscendente rappresenta una porzione importante dell’elettorato, e ha già dimostrato in passato di poter essere decisiva. È il caso della Georgia, tra i più popolosi stati dell’Old South, che nell’ultimo decennio ha subito una profonda trasformazione culturale e demografica che l’ha portata dall’essere una roccaforte repubblicana a decretare una clamorosa vittoria di Biden nel 2020[4]. In uno stato dove gli Afroamericani sono un terzo degli abitanti, le forze politiche in campo hanno capito rapidamente che il loro voto sarebbe stato fondamentale: è così che si arriva alle elezioni per il Senato del 2022, quando per la prima volta nella storia della Georgia i due candidati dei principali partiti sono due Neri[5].

Altrettanto importanti saranno poi alcuni stati della Rust Belt, la regione che era stata decisiva per la vittoria di Trump nel 2016 e che è tornata in mano democratica nel 2020. In Wisconsin, Michigan e Pennsylvania i black republicans stanno tentando di recuperare il terreno perduto facendo leva sulla sfiducia nei confronti dei democratici, un tema uscito con prepotenza dall’ultima convention di Milwaukee per bocca del senatore Tim Scott, forse il più influente tra i conservatori Neri.

In North Carolina, infine, dove i dem hanno vinto solo una volta negli ultimi quarant’anni, i repubblicani hanno candidato a governatore Mark Robinson, un altro nome in ascesa tra i politici Afroamericani. A poche settimane dal voto, Robinson è finito al centro di uno scandalo per una serie di dichiarazioni razziste, arrivando ad autodefinirsi «black nazi», ed ora rischia di costare al suo partito uno stato fondamentale.

Analizzando questi casi, appare evidente l’esistenza di una strategia repubblicana per ottenere voti da quella che dovrebbe essere la base più solida dei democratici. A questo scopo, la candidatura di sempre più Afroamericani è sinonimo della volontà di creare una narrativa in cui i cittadini si possano riconoscere. Più che sul loro programma politico, Trump e i suoi alleati stanno cercando di appropriarsi di una identità Nera diversa da quella richiamata dai democratici, di far leva quindi sulle sfaccettature dell’elettorato per rompere il blocco avversario.

Il crollo di popolarità subito da Biden negli ultimi mesi ha certamente facilitato questa strategia. La stessa base elettorale che aveva supportato l’attuale presidente nel 2020 ha progressivamente preso le distanze dalle sue politiche, insofferenti verso le numerose promesse non mantenute. Allo stesso tempo, Biden si è trovato a fare i conti con un problema di immagine: il suo profilo da normalizzatore è sembrato improvvisamente inadeguato, danneggiato dai segni dell’età e non più in grado di ispirare fiducia nel suo partito. 

Il suo ritiro, tuttavia, e la conseguente candidatura di Kamala Harris, hanno ribaltato questa tendenza: improvvisamente i democratici presentano in cima al ticket una politica Nera, giovane e apparentemente di rottura rispetto agli ultimi dieci anni di politica americana. Questa svolta sembra aver sorpreso l’establishment repubblicano, Trump stesso mostra fatica nel gestire la sfida presentatagli da Harris, e per compensare ha alzato il tiro. Nelle settimane successive al ritiro di Biden, il tycoon si è presentato come «il miglior presidente per le persone nere dai tempi di Lincoln»[6], ha rivendicato una vicinanza agli Afroamericani per via delle sue vicende giudiziarie[7], è arrivato addirittura a mettere in questione la blackness di Harris accusandola di «essere diventata nera all’improvviso»[8]. La sensazione è che questo cambio di direzione abbia fatto saltare la sua strategia, e con essa molti dei voti che si aspettava di ricevere dagli Afroamericani.

L’aver puntato su una politica puramente di appartenenza ha danneggiato il partito Democratico, portandolo ad alienarsi le simpatie di parte della comunità Nera; tuttavia, anche la scelta dei repubblicani di puntare su una strategia identitaria sembra esserglisi ritorta contro. La continua strumentalizzazione dell’elettorato, in questo senso, sembra aver fatto perdere di vista la necessità di ascoltare e rispondere alle esigenze di un soggetto politico. A prescindere da chi vincerà a novembre, questa sarà la sfida di chi si vorrà interfacciare con l’elettorato Afroamericano nei prossimi anni. 

Note:

[1] https://ropercenter.cornell.edu/how-groups-voted-2016

[2] https://www.pewresearch.org/politics/2024/04/09/partisanship-by-race-ethnicity-and-education/

[3] Malcolm X, The Ballot or the Bullet, Cleveland (OH), April 3rd, 1964.

[4] Perry Bacon jr., How Georgia Turned Blue, FiveThirtyEight, November 20, 2020, https://fivethirtyeight.com/features/how-georgia-turned-blue/.

[5] Zac Cheney-Rice, The Future of Black Politics Is at Stake in Georgia, Intelligencer, October 26, 2022, https://nymag.com/intelligencer/article/raphael-warnock-herschel-walker-black-politics-future.html.

[6] Jessica A. Botelho, Trump Says He Is the ‘best president for black people’ Since Abraham Lincoln, NBC Montana, August 1st, 2024, https://www.nbcmontana.com/news/beyond-the-podium/i-love-the-black-population-of-this-country-trump-says-to-open-national-association-of-black-journalists-convention-2024-presidential-election-joe-biden-kamala-harris-race-hispanic-white-politics.

[7] Lalee Ibssa, Gabriella Abdul-Hakim, Soo Rin Kim, Trump Claims Black Americans Relate To His Criminal Prosecutions, ABC News, February 24, 2024, https://abcnews.go.com/US/trump-claims-black-americans-relate-criminal-prosecutions/story?id=107509919.

[8] Eric Bradner, Aaron Pellish, Donald Trump Falsely Suggests Kamala Harris ‘happened to turn black’, CNN, July 31, 2024.

2. Donald Trump gioca con il rap

di Gabriel Seroussi

7min circa

In poco meno di due settimane, tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio del 2024, l’immagine pubblica di Drake, uno dei più influenti e ricchi artisti degli ultimi quindici anni, è stata demolita dal collega Kendrick Lamar. In un dissing che resterà nella storia del genere, ha spiccato il brano “Not Like Us”, la traccia che ha, oltre ogni ragionevole dubbio, assegnato la vittoria a Lamar. Tra i due è avvenuto un vero e proprio culture clash, i cui risvolti vanno ben oltre la musica. Di fatto: Kendrick ha accusato Drake di essersi appropriato della cultura della comunità nera. Drake avrebbe la “colpa” di essere canadese, per metà ebreo e di buona famiglia. Tutte sfaccettature di una identità complessa che lo allontana dalla storia con la “S” maiuscola degli Afro-americani, che invece apparterrebbe a Kendrick Lamar, nato e cresciuto nella mitica contea di Compton a Los Angeles. Una retorica simile a quella utilizzata per delegittimare l’identità Nera di Drake, viene ora sfruttata contro Kamala Harris. A poche settimane dall’uscita di “Not Like Us”, l'ex presidente Trump ha affermato, davanti al raduno dell’associazione nazionale dei giornalisti neri, che Kamala Harris fosse “indiana in fondo, ora all'improvviso è diventata una persona Nera”. Il suo compagno di corsa, il senatore JD Vance, ha accusato Harris di essere “falsa”, “cresciuta in Canada”, e di aver usato “un falso accento del Sud” durante un comizio. 

Al di là dell’inconsistenza di queste dichiarazioni, è interessante osservare quanto Trump e il suo team siano attenti ai dibattiti interni alla comunità Nera, cercando di trarne un vantaggio politico. Un caso analogo, sempre inerente al rap, è quello legato alla figura di Young Thug, leggendario rapper di Atlanta, oggi sotto processo in Georgia per reati connessi alle gang. Trump, che è indagato proprio in quello stato per il tentativo di ribaltare il voto nelle elezioni del 2020, non ha perso l’occasione per sostenere la causa della libertà di Thug. Durante una diretta con lo streamer e influencer Adin Ross, l’ex presidente ha dichiarato di essere venuto a conoscenza che la procuratrice Fani Willis avesse “trattato ingiustamente” il rapper. Il tentativo di Trump di attirare il voto di una parte della comunità Nera è sorprendente fino ad un certo punto. È da sempre, ben prima dell’inizio della sua attività politica, che l’imprenditore newyorkese gioca con il rap.

Nel dicembre 1999, la giornalista Nancy Jo Sales scrive su Vibe Magazine un articolo che esplora il complesso legame tra il rap e Trump, a partire dalla sua presenza alla festa di compleanno del mogul dell’hip hop Puff Daddy. Tra superstar e spogliarelliste, nel locale Cipriani di New York, c’è anche il futuro presidente, che si vanta con l’autrice di aver introdotto il festeggiato nell’alta società degli Hampton. “Sean mi ha detto di volermi seduto a fianco a lui”, dichiara Trump con orgoglio. «Lui è rispettato dalle persone nell’hip hop perché non è un corporate guy. È un imprenditore che si è fatto da solo, è questa è una chiave della mentalità hip hop. Lo rispettano perché è un ‘fuck you hero’» - dice alla giornalista Nelson George, autore del libro Hip Hop America. Sul fatto che Trump sia un self-made man si potrebbe discutere a lungo, ma che questa sia la percezione che ha abilmente dato di sé all’esterno è innegabile.

Il Tycoon ha incarnato per molti la figura dell’hustler, uno che, impegnandosi duramente, è riuscito ad arricchirsi nella società americana. Questa figura ricopre un ruolo centrale nella retorica del rap americano. Si potrebbe dire infatti che ‘l’essere hustler’ sia stato il modo con cui una parte della comunità Nera ha reinterpretato l’idea del sogno americano. Ne ha parlato in maniera approfondita Lester Spence nel suo volume Knock the Hustle: Against the Neoliberal Turn in Black Politics. Questa mentalità, secondo l’autore, andrebbe attribuita alla svolta neoliberista che l’economia americana compie a partire dagli anni Ottanta. Una parte della comunità, impoverita e senza una guida politica valida, avrebbe accettato la brutalità del capitalismo americano, sviluppando una propria filosofia per vivere all’interno di questo sistema. Gli Afroamericani hanno quindi dovuto iniziare a pensare a sé stessi in termini imprenditoriali[1]. Nasce così la figura dell’hustler e il concetto - quasi filosofico - di hustlin’. Il rap ha ricoperto un ruolo centrale nell’interpretare, diffondere e, in un certo senso, inflazionare questa idea e, infatti, sono tanti i rapper che hanno citato Trump come personaggio positivo nei loro brani. Non importa, dunque, che il Tycoon abbia ereditato il suo impero edilizio dal padre e che lo abbia fatto crescere grazie a politiche discriminatorie - tanto da essere incriminato, già nel 1977, per aver applicato strategie razziste in ambito abitativo – o che nel 1989 abbia sovvenzionato una campagna mediatica in favore della pena di morte per i “Central Park Five” - un gruppo di ragazzi Neri accusati ingiustamente di aver stuprato una ragazza a New York. Trump è un hustler, incarna alcuni dei valori di cui molti rapper si fanno ambasciatori, e tanto basta per renderlo protagonista di tante barre iconiche. «Rae’s a heavy generator / but yo, guess who’s the black Trump», dice, per esempio, Raekwon nel brano Incarcerated Scarfaces.

Con l’elezione di Trump nel 2016, la relazione tra lui e il rap si è complicata, anche se la fascinazione per questa figura, per alcuni, è rimasta invariata o, addirittura, ha assunto nuove sfumature. Infatti, nonostante il grosso della scena rap si sia apertamente schierata contro la candidatura di Trump, non sono stati pochi i rapper che negli anni lo hanno apertamente sostenuto. Resta storica, a modo suo, la foto che ritrae Kanye West con l’ex Presidente nello studio ovale, ma anche Ice Cube, per restare su una delle leggende dell’hip hop, ha fatto endorsement espliciti a Trump in una recente intervista a Fox News. Emblematici sono i casi di Lil Wayne e Kodak Black, in cui i due rapper hanno espresso il loro sostegno all’ex Presidente, ottenendo in cambio la grazia poco prima della fine del mandato. Grazie a questa scelta, Trump si è guadagnato il sostegno anche della nuova regina del rap americano Sexyy Red: «pensavano che fosse razzista e che dicesse str*nzate contro le donne, ma una volta che ha iniziato a far uscire i Neri dal carcere e a dare alla gente soldi gratis…».

Negli ultimi mesi, il leader repubblicano ha poi intensificato i suoi sforzi per associarsi ad un immaginario legato al rap, utilizzando stereotipi profondamente razzisti. Un esempio emblematico è il celebre mugshot di Trump, scattato dopo il suo arresto il 24 agosto scorso, che è diventato una risorsa preziosa di propaganda politica. Quell’immagine ha contribuito a costruire una narrazione in cui l'ex Presidente appare come vittima della giustizia, generando al contempo una miriade di meme e montaggi sui social media che lo ritraggono come un “gangsta”. In questa ottica, non può stupire che l’essere sopravvissuto ad un tentativo omicidio abbia alimentato una idea distorta di Donald Trump, rendendolo una vittima con cui empatizzare o, peggio ancora, un modello in cui rispecchiarsi. Poco dopo l’ attentato, sui social è apparso un meme che lo raffigura nei panni di 50 Cent nella celebre copertina dell’album Get Rich Or Die Tryin’. Pubblicato nel 2003, questo album narra la straordinaria storia del rapper, segnata dal tentativo di omicidio avvenuto il 24 Maggio del 2000 a cui è miracolosamente sopravvissuto, nonostante i nove proiettili che lo avevano colpito al busto e al volto. Trump e i suoi sostenitori non si sono limitati a condividere sui social il meme - come ha fatto lo stesso 50 Cent - ma hanno reso il brano Many Men, quello in cui il rapper racconta della sparatoria che lo aveva coinvolto, una sorta di inno della campagna elettorale. L’ex presidente stesso lo ha utilizzato per il suo ingresso trionfale nell’arena di Milwaukee, in occasione della Convention repubblicana.

Sarebbe quindi superficiale raccontare il legame tra alcuni rapper e Trump semplicemente come il rapporto tra delle persone milionarie e il candidato che più si spende per la difesa dei patrimoni dei super ricchi. La storia del rapporto tra Trump e i rapper ha radici antiche ed ha a che fare con gli aspetti più controversi, e in qualche modo affascinanti, di questa cultura. Quanto questo legame abbia alimentato la crescita, pur sempre minoritaria, del candidato Repubblicano nella comunità Nera è difficile a dirsi. Sicuramente, sotto l’ironia dei meme c’è tanto altro. Come lo stesso Barack Obama ha dichiarato durante il congresso democratico dello scorso Agosto: sottovalutare Trump e il suo intuito politico è un grave errore.

Note:

[1] L’autore non intende dire che prima non esistessero forme di imprenditorialità nera, anzi. L’idea di costruire una economia che permettesse di far girare il “dollaro nero” è stata una prerogativa politica di tante organizzazioni legate alla comunità. Negli anni Ottanta, però, questa idea collettiva, o quanto meno solidale, dell’economia svanisce sempre di più e viene sostituita da una concezione più individualista, che vede nell’arricchimento personale un obiettivo esistenziale.

3. Tra le pieghe del linguaggio

di Mattia Marzà

9min circa

La tentazione di leggere gli Stati Uniti come un contesto tutto sommato familiare, che procede lungo le stesse linee di evoluzione e tensione europee – in breve, di leggere l’Occidente come un’esperienza unica, seppur particolareggiata – è molto forte, amplificata da decenni di produzione culturale e di immaginario; eppure, spesso le cose non sono semplicemente più complesse di quanto appaiano a prima vista, ma sono addirittura opposte. Basti pensare che ad un uditore europeo la dicitura “roccaforte rossa”, in termini elettorali e politici, rimanda ad una certa tradizione di sinistra; mentre negli Stati Uniti lo stesso termine indica uno stato feudo del Partito Repubblicano. Tra l’Emilia-Romagna e la Carolina non corre solo un oceano, ma un universo di significati nascosti tra le pieghe del linguaggio.

Oltre che chiarire le differenti attribuzioni di senso, indagare tra queste pieghe vuol dire innanzitutto dare profondità alle parole d’ordine e alle ricorrenze espositive, che, più che riflettere un senso, lo vanno piuttosto a creare, ad imporre. Se il partito Democratico ha recentemente avuto buon gioco ad utilizzare l’accusa di populismo contro i rivali Repubblicani, tacciandoli essenzialmente di usare una retorica a buon mercato piuttosto fumosa per far leva sulla pancia dell’elettorato, è da sottolineare come questi strali vennero rivolti in prima battuta allo stesso Barack Obama. Infatti, il suo motto «yes, we can» e l’insistenza sul tema del cambiamento fungevano, oltre che da coagulante retorico, da efficace forma di nascondimento di un programma politico ideologicamente molto vago. Allo stesso modo, a dispetto delle –quasi formulari – accuse di comunismo, il programma politico dei Democratici dell’ultimo ventennio è a dir poco moderato in merito ai temi sociali, se non a tutti gli effetti destrorso[1].

Naturalmente, queste imposizioni di senso non si riducono allo sforzo di affibbiare un’identità dispregiativa al proprio competitor; piuttosto, trovano la dimensione più autentica e rilevante nei tentativi di naturalizzare e storicizzare tendenze e decisioni al fine di legittimarle. Con la fine della società industriale, la tradizionale divisione di genere dell’elettorato occidentale si è ribaltata: se prima, l’accento della sinistra sulla classe operaia (identificata con la figura maschile del breadwinner) e l’aggregazione ideologica intorno ai temi religiosi e tradizionali da parte della destra facevano sì che, mediamente, gli uomini votassero a sinistra e le donne a destra, con l’avvento della società post-industriale ed il crollo delle identità novecentesche si verifica un’inversione di tendenza che rispecchia il mutamento medio con cui le diverse compagini politiche hanno tentato di trovare nuovi fattori di ricomposizione (pessimismo nostalgico delle destre e attenzione alle identità di razza/genere a sinistra). Gli Stati Uniti, però, rappresentano una parziale anomalia: sia per l’assenza di concezioni pre-industriali della gerarchia sociale (decisive nel delineare le concezioni novecentesche europee), sia per le massicce ondate di immigrazione, che, soprattutto, per la centralità della questione della razza nella genealogia politica statunitense[2].

La combinazione delle propagande dei rispettivi partiti e, alle nostre latitudini, del fallace accostamento tra il binomio Democratici/Repubblicani e quello Sinistra/Destra in termini europei ha adombrato il fatto che, fino agli anni ‘60, era il primo a rappresentare l’elettorato segregazionista e suprematista bianco. Più che una divisione ideologica di classe, infatti, il dualismo di partiti americano riflette, con le dovute evoluzioni, la contrapposizione della Guerra Civile: Sud contro Nord, protezionismo contro liberismo, interessi industriali metropolitani contro interessi del proletariato agricolo.  L’insieme di questi fattori e del risentimento provato dal Sud nel periodo della Ricostruzione produssero un sostegno elettorale generalizzato al partito Democratico nella regione, che si traduceva poi in un peso politico della compagine sudista nel partito nazionale, a discapito delle istanze progressiste e più tradizionalmente di sinistra dei Democratici del Nord e dell’Ovest.

Il primo Presidente nativo del Sud eletto dopo la Guerra Civile, Woodrow Wilson, accompagnò agli sforzi in campo internazionale - diretti alla creazione della Società delle Nazioni e alla ratificazione politica del nuovo ruolo di superpotenza globale degli Stati Uniti - una politica interna assai favorevole alla segregazione razziale. Per quanto non sia esattamente attestato che Wilson abbia espresso entusiastiche recensioni di Birth of a Nation, il famigerato kolossal di Griffith che può essere descritto come una lunga, muta apologia del KKK, è tuttavia nelle storie apocrife che spesso si può ritrovare il più preciso giudizio sulle tendenze politiche e sullo spirito di un’epoca.

A rimarcare come questa tendenza si esprimesse trasversalmente dai livelli di governance più elevati a quelli di base, la stragrande maggioranza degli oppositori dell’NAACP e del Movimento per i Diritti Civili - per dirne uno, W. A. Gayle, sindaco di Montgomery durante il boicottaggio dei bus - apparteneva al Partito Democratico. Tuttavia, è da sottolineare come la narrazione secondo cui il Sud si configurava come un blocco compatto, stretto a quadrato sia elettoralmente che politicamente intorno ad un Partito Democratico monolitico e coeso, sia ugualmente approssimativa. Come ben sottolinea Devin Caughey[3], una volta a Washington, i rappresentanti del Sud non mantenevano una linea granitica, ma piuttosto oscillavano tra le posizioni ed il partito che meglio rappresentava gli interessi specifici del loro elettorato di riferimento; coagulandosi invece quando c’era da difendere gli interessi bianchi, sia attraverso la promulgazione diretta di leggi, sia con l’opposizione strenua e l’ostruzionismo ad oltranza.

Fu solo con la presidenza di Kennedy,  poi di Johnson, che il Partito Democratico iniziò a sostenere sempre più apertamente la desegregazione, provocando di conseguenza la migrazione di un ampio blocco di voti meridionali verso il partito Repubblicano. Questo nuovo scenario andò progressivamente a stabilizzarsi e radicalizzarsi, arrivando alla configurazione attuale, ulteriormente mutata e complessificata dall’asteroide Trump. Inoltre, al cambio di passo ideologico corrispose anche uno slittamento della composizione razziale e religiosa del partito dell’Asino, in cui le minoranze e le confessioni meno associate con la bianchezza (le chiese Nere, ma anche ebrei e cattolici) hanno progressivamente guadagnato spazio e visibilità; tanto che gli unici due Presidenti non wasp, cioè Kennedy ed Obama, facevano entrambi parte del Partito Democratico. La complessità delle sfumature del razzismo sistemico non può però essere ridotta ad un “affare di partito” che tracci una linea di demarcazione netta e semplicistica tra sostenitori e oppositori della segregazione. Politiche segregazioniste vennero sostenute anche da presidenti Repubblicani come T. Roosevelt e se, da un lato, le spinte antischiavili Repubblicane che portarono alla Guerra Civile erano indice di una strategia politico-economica piuttosto che di un afflato etico, la svolta progressista Democratica negli anni Sessanta derivava innanzitutto dalla necessità di pacificare un fronte coloniale interno per poter affrontare a pieno quello esterno, allora concretizzato nella guerra in Vietnam. Svolta progressista che andava ad accompagnare, in maniera perfettamente coerente, le politiche repressive e gli assassinii mirati degli esponenti di punta del Black Panther Party.

Questo slittamento delle posizioni storiche dei rispettivi partiti e l’emersione della società post-industriale, in cui le culture wars hanno essenzialmente assunto il ruolo narrativo e politico avuto in precedenza dal conflitto di classe, ha determinato l’attuale scenario. Tuttavia, anche in materia di inclusione ed affirmative politics, le evoluzioni storiche non sono linearmente immediate come si potrebbe pensare. Nonostante la prima donna ad entrare in un roster elettorale per le presidenziali sia stata la Democratica Geraldine Ferraro, presente nel ticket di Walter Mondale nella disastrosa campagna del 1984, la prima ad avere un effettivo ruolo di primo piano è stata Sarah Palin, candidata come vice di John McCain nelle elezioni del 2008. Rilevanza conquistata un po’ con l’intransigenza delle posizioni, apertamente conservatrici e in qualche modo anticipatorie della futura svolta a destra del partito Repubblicano (non per niente, Palin è stata fondatrice del Tea Party Movement), un po’ con gli atteggiamenti sopra le righe e una certa (studiata?) goffaggine e spontaneità, che in un certo senso l’hanno portata ad essere una sorta di meme ante litteram. Tuttavia, l’ex Governatrice dell’Alaska è una figura complessa e stratificata: nonostante le storiche posizioni pro-life di un ampio settore del partito – peraltro da lei condivise – non solo non ha promulgato alcuna legge anti-aborto durante la sua legislazione nella last frontier, ma nel 2006 si era anche pronunciata in favore del rispetto della Roe vs. Wade, la sentenza che sanciva il diritto federale all’aborto negli Stati Uniti, poi rovesciata dalla Corte Suprema nel 2022[4]. Insomma, così come una figura femminile non rende necessariamente progressista un governo in materia di questioni di genere, l’ex candidata alla vice-Presidenza è qualcosa di più della macchietta desiderosa di cacciare alci e orsi polari.

In un panorama politico interno sempre più focalizzato sulle identity issues, contemporaneamente spauracchio e nuova arma del partito Repubblicano, e battaglia ideologica fondamentale dell’elettorato di sinistra, che però comincia timidamente ad avvertirne i limiti, e in un contesto globale di guerra, Kamala Harris ha la sfida di rielaborare e riattualizzare questa storia politica ed ideologica di cui è l’ultima, attuale front-woman. In questo senso, è emblematica la sua scelta di ribadire il suo sostegno alle politiche favorevoli alla diffusione delle armi, in quanto proud owner[5] lei stessa: più che confermare la dimensione trasversale di questo sostegno, che accomuna entrambi i partiti, è interessante ricordare come, seppur la possibilità di possedere armi da fuoco sia spesso celebrata come caratteristicamente ed ancestralmente statunitense, in realtà è un fenomeno piuttosto recente, relativo soprattutto al Novecento. Lo stesse cittadine del Far West, il cui mito, soprattutto cinematografico, aveva anche l’obiettivo di naturalizzare e storicizzare questa tendenza, avevano politiche di controllo sulle armi decisamente più stringenti delle attuali[6]. D’altronde, è nella linearità dell’esposizione che si annidano le pieghe del linguaggio.

Note:

[1] https://www.pewresearch.org/politics/2021/11/09/beyond-red-vs-blue-the-political-typology-2/

[2] Colin Crouch, Combattere la Postdemocrazia, traduzione di Marco Cupellaro, Laterza, Bari 2020.

[3] Devin Caughey, The Unsolid South: Mass Politics and National Representation in a One-Party Enclave, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2018.

[4] «The law of the land is the law of the land. When we talk about abortion, we can't sign anything that takes away authority from the United States Supreme Court, that has made the ruling on abortion», in M. Simon, 11 days abortion, ktva.com, 30 ottobre 2006. Una dichiarazione del genere, tutto sommato moderata ed “istituzionale”, cozza vistosamente con la sfiducia verso le istituzioni vigenti e i meccanismi giuridici ed elettorali più volte espressa da Trump, e risulta specchio fedele di una diversa e precedente epoca politica.

[5] “This business about taking everyone's guns away. [Gov.] Tim Walz and I are both gun owners. We're not taking anybody's guns away, so stop with the continuous lying about this stuff”.

[6] Matt Jancer, Gun Control Is as Old as the Old West, Smithsonian Magazine, 5 febbraio 2018.

Riferimenti

Libri

Crouch, C., 2005. Combattere la Postdemocrazia, traduzione di Marco Cupellaro, Laterza.

Caughey, D., 2018. The Unsolid South: Mass Politics and National Representation in a One-Party Enclave. Princeton University Press.

George, N., 2005. Hip hop america. Penguin.

Malcolm, X., Baldwin, J. and McCummins, L., 1987. The ballot or the bullet. Paul Winley Records.

Spence, L.K., 2015. Knocking the hustle: Against the neoliberal turn in black politics. Punctum Books.

Articoli

Bacon jr. Perry, How Georgia Turned Blue, FiveThirtyEight, November 20, 2020, https://fivethirtyeight.com/features/how-georgia-turned-blue/

Botelho Jessica A., Trump Says He Is the ‘best president for black people’ Since Abraham Lincoln, NBC Montana, August 1st, 2024, https://www.nbcmontana.com/news/beyond-the-podium/i-love-the-black-population-of-this-country-trump-says-to-open-national-association-of-black-journalists-convention-2024-presidential-election-joe-biden-kamala-harris-race-hispanic-white-politics.

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