Baadasssss Cinema: l'evoluzione della Blaxploitation

A cura di Maïmouna Gueye, Samra Mayanj, Andrea Tiradritti, S. Himasha Weerappulige.

1. Sweet baadasssss songs and pppprickly production politics

di S. Himasha Weerappulige

16min circa

Wah wah molleggiati, linee di basso travolgenti, archi melodiosi.

Acconciature afro perfette, pantaloni a zampa, colletti a farfalla.

Dichiarazioni coraggiose. Critiche sociali ironiche.

Eroici e spesso controversi anti-eroi, tutti in lotta contro “l’uomo” [1]

Questo, ma anche molto altro, è stato il genere Blaxploitation. Un movimento cinematografico breve, legato all’epoca dei diritti civili, che ha introdotto nuovi codici visuali e musicali per la comunità nera, ma ha subito critiche all’interno della comunità stessa per la sua raffigurazione dei personaggi. Il genere rimane un caso interessante per diverse ragioni: innanzitutto, è un esempio importante di come la musica e i film siano profondamente e visceralmente interconnessi, al punto che la musica può diventare uno dei personaggi principali delle pellicole di celluloide. In secondo luogo, uno studio di questa fugace esperienza cinematografica solleva altresì questioni importanti sulla dimensione politica della cultura e della produzione filmica.

Seguire le dinamiche dell’industria può cambiare le narrazioni di un film, e dunque il messaggio politico dietro di esso? La differenza di impatto politico può essere notata se si confrontano “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” di Melvin Van Peebles (1971) e “Shaft il detective”[2] di Gordon Parks (1971), che hanno in comune colonne sonore iconiche e linguaggi estetici distintivi che fecero sentire vista la comunità, ma che hanno anche seguito due razionalità produttive molto differenti.Una colonna sonora può essere la forza trainante di un’immagine in movimento? Can the revolution be televised?

Melvin Van Peebles, 1971 (Pix/Michael Ochs Archives/Getty Images)

Baadaassss music

I personaggi della Blaxploitation erano coraggiosi, forti, resilienti ed fieri. Le colonne sonore non facevano eccezione, e spesso diventavano esse stesse uno dei personaggi del film. La musica viene in aiuto del personaggio dove le parole e le battute non bastano. Le musiche erano caratterizzate da un complesso ricamo di funk, soul, jazz, inni gospel e rhythm and blues, riflettendo il vibrante spettro musicale della musica nera fino a  quel momento. Non si limitavano ad accompagnare il film, erano dichiarazioni culturali  che collegavano la storia, le critiche sociali e le aspirazioni delle comunità di cui cantavano. Aspirazioni di libertà, e di visibilità. Critiche dell’oppressione sistemica, e del suo peso sulle comunità di cui cantavano. 

I compositori adoperavano una gran varietà di strumenti per realizzare paesaggi sonori dinamici, con ogni strumento che incarnava emozioni differenti. Le linee di basso funky garantivano profondità e ritmo, mentre i fiati aggiungevano intensità. Gli archi apportavano pathos e raffinatezza, e le tastiere e i sintetizzatori conferivano una trama futuristica. Gli iconici pedali wah-wah definivano il tono distintivo del genere. Quando si parla delle colonne sonore di questo genere, non si possono non menzionare le musiche di “Sweetback” e “Shaft”, che condividevano un livello simile di impatto e sperimentazione, per quanto differissero ampiamente nella posizione politica assunta.

Isaac Hayes - Theme From Shaft (1971)

“You bled my momma, you bled my poppa, but you won’t bleed me”

Sweetback è stata un’opera spartiacque per il cinema nero negli Stati Uniti. Raccontava la storia di un uomo in fuga per aver aiutato un militante rivoluzionario attaccato dagli agenti di polizia di Los Angeles. Il film raffigurava nudità, ribellione e sopravvivenza. Tutte caratteristiche che non erano mai state associate ai personaggi neri nei film americani.

Musicalmente, il film si distingue per la sua natura avanguardistica e sperimentale, incorporando temi che vanno dal blues al rock psichedelico, decorati con inni gospel. Il risultato fu un suono grezzo e non levigato, che rispecchiava l’estetica cruda del film. La musica spesso sembra improvvisata, sottolineando il senso di urgenza ed imprevedibilità della pellicola. Parimenti, le parti vocali danno un senso di immediatezza e saldano insieme testi parlati e cantati che fanno luce sul tema di fondo del film, la ribellione. «La prima canzone, “Sweetback Losing His Cherry”, sovrappone allo spiritual “Wade in the Water” i suoni di un amplesso amoroso. La canzone gospel “This Little Light of Mine” è intervallata da frenetiche sfuriate soul. Stravolge qualsiasi concezione precedente di sesso, religione e violenza per rispecchiare il caos e le domande dell’epoca», dice Mario, il figlio di Van Peebles, che ha anch’egli recitato nel film all’età di tredici anni (Van Peebles, 2017).

Sweet Sweetback's Baadasssss Song (Melvin Van Peebles, 1971) - Original Release Trailer

Anche se oggi sarebbe difficile da dire, dato che la colonna sonora sembra legata visceralmente alla pellicola egualmente sperimentale e dissacrante a cui appartiene, la musica non venne composta fino a riprese ampiamente inoltrate, quando Van Peebles si imbatté in una band sconosciuta dell’epoca di nome Earth, Wind and Fire. L’album venne dunque composto dalla band insieme a Van Peebles e venne pubblicato prima del film stesso. Le radio crearono fermento intorno al film, che quindi si promosse da solo, senza bisogno di costosi spot commerciali. Sulle prime, solo due cinema accettarono di proiettarlo: Peebles rimaneva di fronte ai locali ad ascoltare i commenti della comunità. Persino Huey P. Newton, il co-fondatore delle Black Panthers, era entusiasta del film, e dedicò un intero numero del giornale del Black Panther Party alla pellicola di Van Peebles (Newton, 1971) .

«Huey continuava a parlare di come veniva trattata la polizia nel film e di come la comunità si fosse riunita intorno a Sweetback e al suo fratello di nome Momo, che era un rivoluzionario - era una persona della comunità che stava realizzando dei cambiamenti; voleva un tipo diverso di sistema. Quindi percepivamo la cosa come fosse parte di noi. Sweetback si unisce al rivoluzionario perché il nemico è lo stesso», racconta Billy “X” Jennings, che all’epoca era un giovane militante del BPP e l’assistente di Huey.[3] «Ciò che inoltre fa vedere è che, durante il film, quando Sweet Sweetback si muove all’interno della comunità, riceve aiuto dalle donne che si prostituiscono, dai membri della chiesa, dai delinquenti, roba così. Era come un circolo che mostrava che, se le persone ritengono tu stia facendo qualcosa di positivo per la comunità, allora si riuniscono intorno a te e ti aiutano».

Le Black Panthers chiesero a tutti i membri della comunità di andare a vedere il film e si organizzarono con uno dei pochi cinema che lo proiettavano - il Fox Theater di Oakland - perché lasciasse entrare i membri del partito a gruppi di trenta o quaranta alla volta, gratis. «Le persone entravano e parlavano allo schermo, interagivano con i personaggi, ne sentivano la rabbia e la speranza», aggiunge Billy[4]. Il successo si diffuse a macchia d’olio.

A "Sweet Sweetback" poster. 1971. (Collection of the Smithsonian National Museum of African American History and Culture)

“What kind of man are you? Just some kind of superman”

A solo pochi mesi di distanza da Sweetback, uscì un altro cult blaxploitation che ebbe un profondo impatto sull’esperienza Afroamericana. Sullo schermo, un aitante uomo nero fende la folla nel traffico di New York. Sfoggia un lungo spolverino di pelle, un maglione dolcevita e dei baffi notevoli. “Who is it? Shaft!”, chiede e risponde la colonna sonora. 

Mentre le canzoni di Sweetback erano integrate nella narrazione, la musica di Shaft la amplifica. La ben nota “Theme from Shaft”, di Isaac Heyes, sottolinea il carattere fiducioso del protagonista, un investigatore privato che viene assunto da un mafioso di Harlem per liberare la figlia rapita da un mafioso italiano. Inizialmente, Heyes aveva fatto il provino per il ruolo che dava il titolo al film, ma non era riuscito ad avere la parte. La MGM (lo studio che produceva l’opera) gli propose in seguito di comporre una traccia per la scena d’apertura. Era un’occasione prendere o lasciare. Il risultato fu un pattern di semicrome suonate sul charleston che raccontava la storia e le intenzioni dell’investigatore: «prendere ciò che vuole, alle sue condizioni». Curiosamente, quando presentò la partitura, questa era priva di testo: «Pensavo che il tema sonoro di un film dovesse essere così: una strumentale. Scrissi il testo in venti minuti» (Howard, 2008).[5]  

Isaac Hayes. (Alamy)

L’autore ottenne due candidature agli Academy Award, di cui una vinta, diventando il primo artista nero a vincere un premio Oscar non inerente alla recitazione. La cosa significò molto per la comunità. Originario del Tennessee e nato nel 1942, Heyes era rimasto orfano in tenera età e, tra i numerosi impieghi saltuari svolti, aveva lavorato in una piantagione di cotone e in un allevamento di maiali, facendosi strada fino alla quarantaquattresima cerimonia di premiazione dei Premi Oscar, dove si esibì ricoperto di catene d’oro. 

È interessante notare che Shaft è ispirato ad un romanzo il cui protagonista è nero. Tuttavia, i primi studios interessati a produrre il film volevano inizialmente ingaggiare un attore bianco, prima di scegliere Richard Roundtree. Parks, in precedenza fotogiornalista, voleva creare un film che raffigurasse un lato di New York e della comunità nera che raramente si era visto sullo schermo. E, soprattutto, voleva ritrarlo sotto una certa luce che non era mai stata associata alle storie nere. Il protagonista è quasi venerato dalla cinepresa attraverso inquadrature dal basso che fino a quel momento erano state esclusivamente riservate agli eroi bianchi. Il film fu tra i primi dei molti che volevano mettere al centro la nerezza sullo schermo, in cui i personaggi neri non erano delle spalle e l’avevano vinta.

Più importante, fu una fonte di visibilità e di intrattenimento per una comunità che non si era mai vista al cinema. Come affermato da Ed Guerrero, storico del cinema, «Il film era stato creato, più che per avere un impatto sulla coscienza nera, semplicemente per mostrare un film divertente, che la gente potesse godersi il sabato sera e in cui vedere un nero che vince» (1993).[6] Sweetback e poi Shaft fecero capire ai produttori di Hollywood che c’erano soldi anche nei film neri, e ciò diede inizio ad un’intera nuova declinazione del genere. Questo, comunque, non fu esente da critiche. Nel 1972, Junius Griffin, uno dei presidenti dell’NAACP, sostenne che il genere stava “generando reiterate offese” alla comunità nera raffigurando personaggi neri rigorosamente connessi alla droga, alla promiscuità e alla violenza. Di conseguenza, coniò il termine “blaxploitation”, una crasi delle parole “Black” ed “exploitation movies”(Anderson, 2018).[7]

Screenshot form KPIX Eyewitness news report from featuring a protest over the exploitation of the black community in Blaxploitation films. Protesters carry signs that read, "The Black Community Will Not Be Exploited Anymore!". 1972. Oakland, California. (CBS5)

Politiche produttive spinose e produzioni politiche potenti

Sia Shaft che Sweetback furono influenzati dai movimenti dell'epoca e portarono sullo schermo una forma di esperienza nera. Per quanto entrambi abbiano chiaramente lasciato un enorme impatto sul panorama musicale e cinematografico, i film si appoggiarono a strutture produttive molto differenti.

Come molti altri film blaxploitation seguenti, Sweetback aveva un budget risicato, orchestrato da un singolo uomo: il film fu interamente scritto, diretto, recitato e perfino musicato da Van Peebles. Le sue impronte digitali sono quindi presenti su ogni frammento della ruvida pellicola del film. Nel documentario di Isaac Julien “Baadasss Cinema”, Van Peebles spiega: «Provavo rancore per ciò che, crescendo, vedevo al cinema, e quindi ero tipo: “Merda, si può fare meglio di così”. [...] Non riuscivamo mai ad arrivare alla fine del film. (Sweetback) ce la faceva» (Van Peebles in Julien 2002)[8]. E, cosa più importante, mostrai effettivamente che poteva esistere una troupe nera che facesse film per un pubblico nero.

Van Peebles fece i salti mortali per ottenere il pieno controllo creativo. Durante la pre-produzione, fece confluire fondi attraverso una banca caraibica, fondò una società a responsabilità limitata, affittò un laboratorio di lavorazione della pellicola per gestire i suoi negativi e si fece differire il pagamento dell’intero stipendio per assicurarsi una garanzia di completamento. Per evitare l’interferenza dell’industria ed assumere la sua autodefinita “Crew del Terzo Mondo”, spacciò il suo film per una pellicola pornografica, esentandolo così dalle norme sindacali, cosa che gli permise di assumere persone nere e di colore tipicamente escluse dalle corporazioni di produzione. Van Peebles mantenne la proprietà del suo film, affittandolo solamente ad un piccolo distributore indipendente (Wiggins, 2012).[9] 

Con un incasso lordo di mezzo milione, Shaft apparteneva ad una differente ondata di film blaxploitation. «Il film uscì alla vigilia di una recessione e gli studios stavano cercando di realizzare hit rapide ed economiche» dice la studiosa di cinema Raquel Gates. «E una delle cose che fecero fu grosso modo - e lo dico scherzando, in maniera assolutamente sarcastica - fu ricordarsi che esistevano le persone nere», aggiunge (Rivers e Quresh, 2021).[10] A questo proposito, lo storico Charles Woods ha detto in un video-saggio sul genere: «Puoi aggiungerci della militanza, o della nerezza, ma alla fine ciò che verrà approvato e che i guardiani lasceranno passare saranno quei film che perpetuano lo status quo» (Woods, 2016).[11]

In compenso, si potrebbe sostenere che in questi film dell’industria il budget era molto più alto, e di conseguenza la troupe più numerosa. Come sottolinea Roundtree nel documentario di Julien: «Alla fine della fiera, il film creò una modalità di accesso all’industria per persone che ne erano solitamente escluse. La gente nera veniva pagata». Ed infine, si potrebbe anche sostenere che, nonostante gli studios spingessero per personaggi meno politici, che hanno poi definito nella cultura pop il genere blaxploitation, i registi neri continuarono a definire la loro narrazione personale dentro e fuori da queste dinamiche dell’industria, mostrando che i film neri degli anni settanta non erano un’esperienza monolitica. A questo proposito, consiglio vivamente film come “Tradimento” (1968)[12], “Five on the Black Hand Side” (1973), “Freeman - L’agente di Harlem” (1973)[13] e persino estratti dell’horror “Blacula” (1972), dove il soprannaturale diventa un espediente per discutere anche delle dinamiche di genere all’interno della comunità nera.

William Marshall in Blacula. 1972. (AIP/Kobal/REX/Shutterstock)

Baadassss legacy and baadassss conclusions

Al di là delle critiche o del plauso, un elemento duraturo del genere riecheggia tutt’oggi con forza: la musica. I codici del rap anni novanta hanno inevitabilmente ereditato degli stilemi dall’epoca della blaxploitation, e molti rapper vi fanno ancora riferimento con gioia. Gli esempi sono molteplici, contemporanei e non: Snoop Dogg, i cui video spesso rendono omaggio ai film blaxploitation. È ben noto che la sua casa di Los Angeles abbia un salone tappezzato di poster blaxploitation. Quando si ascolta “Good Kid” di Kendrick Lamar, non si può non notare come l’intero album sia presentato come un’esperienza cinematografica che rammenta i codici narrativi della Blaxploitation e riecheggia l’estro delle sue colonne sonore più sognanti.

Vi siete scoperti a recitare qualche parola di uno dei monologhi culminanti del film gangster “Superfly”, dove Eddie inchioda lo spacciatore Priest per le sue scelte di vita? Probabilmente è perché avete memorizzato il testo di “Prelude” di Jay-Z, che campiona magistralmente la conversazione. Spoiler: il beat non droppa nella vera conversazione.

«You’ve got this fantasy in your head about gettin’ outta the life and setting that other world on its ear. What the f**k are you gonna do except hustle? Besides pimpin’? And you really ain’t got the stomach for that»

Un altro famigerato esempio è “Got Your Money” di uno dei fondatori del Wu Tang Clan, che riprende ironicamente l’estetica ed elementi video dalla commedia crime del 1975 su un pappone di nome Dolemite.

Questo specifico personaggio è stato nominato in numerose barre, da Jay-Z (Who you with) a Dr. Dre e A$AP Rocky. Nonostante il personaggio del pappone sia abbastanza discutibile, si può dire che abbia senso il modo in cui i rapper si relazionano a lui. Nel film si ritrova incastrato per un crimine che non ha commesso, un’esperienza in cui gli artisti rap e hip-hop possono identificarsi. Dunque, se la criminalizzazione è inevitabile, si potrebbe affermare, perché non ri-appropriarsi di simili personaggi nel contesto finzionale? 

Jay-Z - Who You Wit. 1997.

L’emersione negli anni settanta di personaggi come Dolemite non avvenne per caso. In seguito al tumultuoso esito dei riot di Watts, all’uccisione di figure rivoluzionarie come Malcom X o Martin Luther King e alla decadenza degli ambienti urbani, l’archetipo del pappone assurse ad uno stato mitico: queste figure venivano lette come cani sciolti che sapevano badare a sé e lottavano per il controllo in una società sistematicamente ingiusta. Una battuta di Dolemite cattura questo sentimento: «Se il capo di questa nazione ruba impunemente, noi altri cosa dovremmo fare?». Abbracciare le storie dei papponi era più di una semplice evasione: rappresentava una sfida alle convenzionali narrazioni americane sul successo. 

Negli anni ottanta, i film Blaxploitation erano ampiamente passati di moda, dato che l’attenzione dell’industria si era spostata altrove. Per quanto si possa sostenere che il genere abbia progressivamente smarrito il suo obiettivo con il coinvolgimento di Hollywood, non può essere negato che, al di là delle critiche e degli elogi, abbia catalizzato il bisogno narrativo della comunità dell’epoca, donandogli la visibilità che ricercava, con sprazzi di critiche sociali fino a quel momento omesse dall’industria audiovisiva americana. Questi film «non ponevano il nero come opposto al bianco», ma, meglio, nelle parole di Mario, «il nero come nero, che non provava ad adattarsi. Come nero e fiero».

Si potrebbe guardare con amarezza a questa esperienza, considerando che la Blaxploitation non è riuscita a creare una Hollywood nera. Si potrebbe ribattere, tuttavia, che forse una Hollywood nera che ricalcava le strutture economiche di Hollywood non era qualcosa a cui la comunità aspirava in primo luogo. Dunque, Can the revolution be televised? Riecheggiando la risposta di Gill Scott Heron: probabilmente no. Ma ciò non impedisce che le persone di fronte e dietro la telecamera possano impegnarsi in pratiche rivoluzionarie, con o senza le arti coinvolte. 

Note

[1] Con "The Man", nel gergo statunitense, si intende "il potere, l'autorità"

[2] Titolo originale Shaft.

[3] Jennings, Billy x, in “How To Eat Your Water Melon in White Company (and Enjoy it)”, documentario di Joe Angio (2005)

[4] Ibid.

[5] Howard, Josiah (2008), “Blaxploitation Cinema: The Essential Reference Guide”, ed. Fab Press

[6] Guerrero, Ed (1993). Framing Blackness: The African American Image in Film (Culture and The Moving Image). Philadelphia: Temple University Press."

[7] Anderson, Tre’vell (8 giugno 2018). "A look back at the blaxploitation era through 2018 eyes". Los Angeles Times. 

[8] “Baaadassss Cinema”, Isaac Julien (2002)

[9] Wiggins, B. (2012). “You Talkin’ Revolution, Sweetback”: On Sweet Sweetback’s Baadasssss Song and Revolutionary Filmmaking. Black Camera, 4(1), 28–52. https://doi.org/10.2979/blackcamera

[10] Rivers, M. and Qureshi, B. (2021) Looking back on the legacy of ‘shaft,’ 50 years later, NPR. Disponibile a: https://www.npr.org/2021/07/02/1012438840/looking-back-on-the-legacy-of-shaft-50-years-later#:~:text=The%20movie%20came%20out%20on,Shaft%22%20was%20a%20huge%20hit (Accessed: 07 August 2024). 

[11] Woods, Charles (2016), “What Blaxploitation could have been” https://www.youtube.com/watch?v=6SUbhgQnXv0

[12] Titolo originale: Uptight.

[13] Titolo originale: The Spook Who Set by the Door.

2. Le donne Nere nel cinema blaxploitation e come'è nata la figura della Bad Bitch

di Maïmouna Gueye

Negli anni Settanta, le donne Afroamericane vissero un periodo di trasformazione e di lotta per i diritti civili, sociali ed economici. Questo decennio fu caratterizzato da significativi cambiamenti culturali e politici, che influenzarono la loro vita, le donne Afroamericane giocarono un ruolo cruciale nel movimento per i diritti civili, ma spesso sentirono che le loro specifiche preoccupazioni non erano adeguatamente rappresentate, per questo motivo nacque il Movimento delle Donne Nere, che si concentrava su questioni di doppia discriminazione di razza e genere. Organizzazioni come la Combahee River Collective sottolinearono l'importanza dell'intersezionalità, un concetto che riconosceva le esperienze uniche delle donne nere rispetto a quelle delle donne bianche e degli uomini neri.

Le Afroamericane si trovarono ad affrontare una doppia oppressione: il razzismo e il sessismo. Questa combinazione di discriminazioni rendeva le sfide economiche particolarmente acute. Molte di loro lavoravano in settori a basso salario e avevano limitate opportunità di avanzamento. Nonostante queste difficoltà, personaggi come Shirley Chisholm (fondatrice del Congressional Black Caucus e della National Women's Political Caucus) e giovani studentesse come Angela Davis e Fannie Lou Hamer (Student Nonviolent Coordinating Committee) contribuirono significativamente spesso prendendo posizioni di leadership e organizzando proteste e marce per combattere la discriminazione razziale e di genere. 

Angela Davis lights a cigarette during an interview with Associated Press reporters Edith Lederer and Jeannine Yoemans at Santa Clara County Jail. 27 December 1971. Palo Alto, California. (Sal Veder / AP Photo)

Gli anni Settanta videro anche una crescente affermazione del Black Power, che celebrava l'identità e la cultura nera Afroamericana. Le donne nere abbracciarono questo movimento, adottando acconciature naturali come l'afro e promuovendo la bellezza e la forza della donna nera.Scrittrici e intellettuali come Maya Angelou, Toni Morrison e Alice Walker contribuirono a questa rinascita culturale con le loro opere che esploravano le esperienze di vita e divennero icone, utilizzando la loro arte per esprimere le esperienze e le aspirazioni.

Questa nuova ondata di espressione culturale iniziò a ridefinire l'identità e l'immagine delle donne razzializzate nella società americana. Prima di questa rivoluzione culturale, l'establishment bianco aveva assegnato alle donne Afroamericane identità stereotipate e riduttive. Spesso venivano ritratte come figure subalterne, domestiche o ipersessualizzate nei media e nella cultura popolare. Questi stereotipi le riducevano a ruoli marginali, negando la loro complessità e umanità.

Oakland, California, March 31, 1972. Waiting to be tested for sickle cell anemia during the Black community survival conference, an event organized by the Black panthers. (Stephen Shames)

La rappresentazione delle donne nere nel cinema

Se riflettiamo sulla rappresentazione delle donne nere nel cinema, è evidente che essa sia spesso insoddisfacente e scarsa. Personaggi come Mammy in "Gone with the Wind" e Annie in "Mississippi Burning" mostrano quanto sia limitata e stereotipata la rappresentazione passata. Mammy, interpretata da Hattie McDaniel, è uno dei personaggi più noti e problematici del cinema classico. Sebbene Hattie McDaniel sia stata la prima donna Afroamericana a vincere un Oscar per questo ruolo, il personaggio di Mammy è stereotipato come la classica "badante e domestica" devota e subordinata, che sacrifica la propria vita per servire la famiglia bianca dei protagonisti. In contrasto, personaggi come Ruth Younger in "A Raisin in the Sun" dimostrano quanto possano essere ricche e significative le storie quando vengono rappresentate in modo complesso e realistico.

Una reale rappresentazione della figura femminile deve essere complessa, realistica e diversificata. Deve andare oltre gli stereotipi e mostrare donne in una varietà di ruoli e contesti, riflettendo la gamma completa delle esperienze umane.

Tra le molte forme di intrattenimento introdotte nella nostra società, il cinema e la televisione sono tra le più influenti. Oltre alla loro funzione di intrattenimento, film e programmi televisivi sono diventati estensioni della rappresentazione di noi come esseri umani, questi media non solo riflettono la realtà, ma anche modellano e influenzano la percezione e la comprensione della società su cosa significhi essere umani. Guidano le nostre idee e il nostro agire fornendo modelli di comportamento, ideali e norme culturali. Quando vediamo personaggi sullo schermo, le loro storie, personalità e relazioni possono influenzare le nostre aspettative e atteggiamenti nella vita reale.

I film sono luoghi critici, elementi politici che rappresentano, producono e riproducono relazioni di potere. Non forniscono solo intrattenimento, ma inviano anche messaggi agli spettatori, contribuendo a formare valori e sistemi di credenze. Per le donne Afroamericane, questa rappresentazione ha spesso lasciato a desiderare. I ruoli maggiormente assegnati erano quelli di figure sessualizzate, balie, o donne impertinenti e aggressive, arrabbiate con il mondo intero, come in "The Birth of a Nation (1915)",  "Show Boat" (1936) o "The Little Colonel" (1935),la diffusione di questi stereotipi ebbe un impatto fortemente negativo sulla comunità nera, poiché le immagini rimasero impresse nel pubblico e, col tempo, plasmarono la realtà sociale.

Can't Help Lovin' That Man (Show Boat, 1936)

Il ruolo della donna nei film Blaxploitation

Il genere Blaxploitation nasce in un contesto di crisi economica e sociale a Hollywood, con l'industria cinematografica che cercava di attrarre un pubblico afroamericano emergente e di sfruttare il successo commerciale di film con temi urban e polizieschi. Hollywood, in cerca di nuovi mercati e profitti, ha quindi cominciato a produrre film che rispondessero a queste esigenze.

La Blaxploitation ha avuto un ruolo importante nel spianare  la strada per successivi sviluppi nel cinema Afroamericano, influenzando film e generi successivi che hanno continuato a esplorare e rappresentare le esperienze delle donne Afroamericane in modi nuovi e diversificati. L'ascesa di questo genere ha cercato di cambiare la narrazione: figure come Pam Grier e Tamara Dobson hanno interpretato i ruoli più iconici di questo periodo, contribuendo enormemente all'allontanamento dalle rappresentazioni stereotipate nel cinema. 

Molti sostenitori del genere ritenevano che, sebbene Hollywood avesse cercato di capitalizzare su un mercato emergente, i creatori Afroamericani all'interno del genere avessero la possibilità di riprendere il controllo delle narrazioni e delle rappresentazioni. Data l'emarginazione delle donne nere nel cinema fino all'epoca della Blaxploitation, questo approccio ha portato a una forma di resistenza, e affermazione culturale, questi film avevano lo scopo di riprendersi il potere, ritraendole in un'ottica di empowerment, e permettendo alle donne Afroamericane di ridefinire il loro ruolo e la loro immagine nel cinema.

Il cambiamento di rappresentazione avrebbe raggiunto un momento decisivo nel 1973 con l'uscita di film come Coffy,Cleopatra Jones e Foxy Brown. Rappresentate come donne armate, indipendenti, senza paura e con un elevato senso dello stile, non solo ridefinivano gli standard di bellezza delle donne nere nel cinema degli anni Settanta, portando i loro capelli naturali e un guardaroba sgargiante, ma i ruoli che interpretavano erano destinati a simboleggiare la nuova rappresentazione della femminilità nera.

Tamara Tobson in Cleopatra Jones. 1972. (Alamy)

L'origine della Bad Bitch

Le protagoniste dei film Blaxploitation erano spesso ritratte come donne forti, indipendenti e combattive, che incarnavano figure capaci non solo di sopravvivere in ambienti ostili, ma anche di dominare e ribaltare le dinamiche di potere. Esempi iconici includono Sheba Shayne in "Sheba, Baby"(1975), interpretata da Pam Grier, e Cleopatra Jones in "Cleopatra Jones" (1973), interpretata da Tamara Dobson. Questo concetto di empowerment femminile fu ripreso e reinterpretato dalle artiste Hip-Hop infatti Pam Grier, Tamara Dobson e Jeannie Bell sono state il prototipo iniziale su cui si è costruita la figura della Bad Bitch.

Negli anni Novanta, la rinascita del femminismo con la terza ondata introdusse nuovi concetti di femminilità e potere, focalizzandosi su diversità, inclusione e intersezionalità. Questo movimento riconobbe le diverse esperienze delle donne di colore, delle donne LGBTQ+ e delle donne appartenenti a varie classi sociali. In questo contesto, emerse la figura della "Bad bitch" come archetipo di donna forte e sicura di sé. Questa figura rappresentava un'espressione di potere femminile, indipendenza e autenticità, nonché un'affermazione di forza interiore e resilienza.

Pam Grier in 1974.

Parallelamente, gli anni Novanta videro l'ascesa della cultura pop e dei media di massa, con show televisivi, musica, film e riviste che iniziarono a presentare immagini di donne forti e indipendenti. Serie TV come "Living Single" e "Moesha" portarono alla ribalta personaggi femminili Afroamericani complessi e autonomi. Rapper come Janet Jackson, Queen Latifah, Lil' Kim, Foxy Brown e Missy Elliott incarnarono questa nuova figura, parlando apertamente di potere, sessualità e autonomia finanziaria. Molte di loro adottarono elementi estetici e stilistici derivati dalle protagoniste dei film Blaxploitation, enfatizzando la continuità culturale.

Queste artiste divennero modelli di riferimento per molte giovani donne, la loro presenza nei media contribuì a ridefinire la rappresentazione delle donne nere nella cultura popolare, sfidando stereotipi e promuovendo una visione più complessa e sfaccettata della femminilità. Allo stesso tempo, la figura della "Bad bitch" si sviluppò in linea con i macro cambiamenti culturali. La sua emersione rifletteva l'evoluzione delle aspettative sociali e culturali riguardanti le donne, in particolare le donne nere, e rappresentava la crescente accettazione e celebrazione della forza, dell'indipendenza e della complessità delle donne.

La "Bad bitch" emerse non solo in contrapposizione agli stereotipi tradizionali ma anche come parte integrante dei cambiamenti culturali. La sua presenza fu simbolo della trasformazione delle dinamiche di potere e della riaffermazione del ruolo delle donne nella società. Questo archetipo contribuì a ridefinire le narrazioni culturali, offrendo modelli di ruolo potenti e complessi in un decennio di profonde trasformazioni sociali e culturali. La figura della "Bad Bitch" degli anni Novanta ha lasciato un'eredità duratura, continuando a influenzare artiste odierne come Rihanna, Cardi B, Beyoncé e molte altre, oltre a culture successive. Nel rap odierno, artiste come Megan Thee Stallion, Lizzo e Chlöe rappresentano la nuova generazione di donne che abbracciano e amplificano questo archetipo attraverso la loro musica e il loro stile. Sul grande e piccolo schermo, serie TV e film come "Insecure", "Pose" e "Queen & Slim" offrono rappresentazioni di donne forti e sfaccettate, influenzate dall'iconografia della "Bad Bitch".

La "Bad Bitch" continua a esercitare una forte influenza sulla cultura popolare contemporanea, ispirando una nuova generazione di donne a celebrare la propria forza, indipendenza e autenticità. Questa eredità si manifesta in molteplici forme, dalla musica alla moda, dai media alla cultura pop, rendendo la "Bad Bitch" un'icona culturale duratura e sempre rilevante, che continua a risuonare con le nuove generazioni.

3. "The Man", Hollywood e l'eredità della Blaxploitation Era

Una conversazione con Jennifer G. Robinson

di Samra Mayanja

Negli anni precedenti l'era della Blaxploitation, c'erano stati il Vietnam e la Campagna per il disarmo nucleare. Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther erano stati assassinati. In questo clima politico, Melvin Van Peebles presentò al pubblico il film indipendente “Sweet Sweetback's Baadasssss Song” (1971), dove il protagonista Sweetback (insieme ai suoi co-cospiratori) denunciava la corruzione della polizia, contrattaccava e fuggiva. 

Nel tentativo di comprendere l'epoca e le condizioni che l'hanno prodotto, ho parlato con Jennifer G. Robinson, docente di cinema a Londra, direttrice del British Urban Film Festival (BUFF) e fondatrice/direttrice del Women of the Lens Film Festival. Ci siamo incontrate online durante la preparazione del programma del BUFF del 2024.

Black Caesar, behind the scenes. 1973.

Samra Mayanja: Ci sono elementi specifici dell'era Blaxploitation che ti attirano? Io, per esempio, continuo a ritornare sulla figura del 'The Man'; non ha un unico volto. L'Uomo non è esclusivamente la polizia, il capo o il marito. L'Uomo è corruzione, avidità e violenza in una sola figura. Mi chiedo come si sia sentito il pubblico nel vedere persone nere emarginate superare in astuzia o sconfiggere l'Uomo. Per me, rappresenta un momentaneo cedimento del potere che ne svela il funzionamento. Del tipo: “SÌ, questo è! Ecco il male razziale, economico e di genere che è l'America”.

Jennifer G. Robinson: Fino all'era della Blaxploitation, i neri - uso questo termine per praticità - avevano ruoli subalterni a Hollywood. Persino il grande Sidney Poitier otteneva queste parti; non vestiva mai ruoli in cui avrebbe sconfitto “l'Uomo”. Billie Holiday era sempre in secondo piano rispetto alla protagonista, la donna bianca. Era la cameriera, la domestica, la migliore amica, ecc. Fino a quel momento, questo era tutto ciò che avevamo. La cinematografia non si produce in un vuoto, ma in un contesto. Quando si arriva alla fine degli anni Cinquanta e alla metà degli anni Sessanta, c'è la spinta della società in generale contro l'establishment in termini di guerra del Vietnam, diritti delle donne, prima ondata di femminismo, movimento per i diritti civili, con figure come Malcom X e Martin Luther King. Quindi, si tratta di film che danno contro all'Uomo o all'establishment. Si tratta di dire no alle istituzioni che cercano di strapparti i diritti. Di tenerti soggiogato, di sfruttare il tuo lavoro e di negarti una voce. C'è un paradosso. È vero, la Blaxploitation mirava a correggere lo squilibrio delle rappresentazioni nell'industria cinematografica. Ma per quanto riguarda le donne, proponevano ancora stereotipi grossolani sulle donne nere.

SM: Questi stereotipi vengono affermati o esasperati nell'era della Blaxploitation? Come avviene il passaggio dalla figura servile - la tata, la governante, la spalla - a quella dell'oggetto sessuale?

JGR: La rappresentazione dei neri e degli afroamericani è cominciata sicuramente da un film di DW Griffiths, che è stato definito il padre del cinema per il modo in cui ha utilizzato il formato narrativo e le angolazioni della macchina da presa. Nel suo film ”Nascita di una nazione” (1915) sono stati stabiliti molti stereotipi. Tropi come la tata, la cameriera, il “tragic mulatto”, il bruto spaventoso e i “piccaninny”. Penso che le donne africane, in particolare, non abbiano avuto autonomia sessuale sul proprio corpo a causa del commercio che ne è derivato. Quindi è un po' una contraddizione. Quando si rivendica tale autonomia, si viene comunque criticate per aver osato affermarla. Tutte le donne affrontano questa cosa, ma ci sono un paio di livelli ulteriori con cui le donne nere hanno dovuto confrontarsi. Anche se c’è una maggiore rappresentazione delle donne nere in posizioni di potere, sono ancora sessualizzate in modi quasi depravati.

This contact sheet from a 1959 photo shoot by the New York Times photographer Sam Falk shows previously unpublished images of the actor. New York City, New York. (Sam Falk/The New York Times)

SM: A volte c'è consapevolezza di questa dinamica nei film. Le donne nere reagiscono. In “Five on the Black Hand Side” (1973), diretto da Oscar Williams, la signora Brooks mette in scena un atto di ribellione contro il signor Brooks e pretende una riorganizzazione della loro casa patriarcale.

JGR: C'è un famoso scrittore [Donald Bogle] che parla di questo tema in “Toms, Coons, Mulattoes, Mammies, and Bucks”. Indaga questi stereotipi e analizza come si manifestano nei film. Non si può parlare di Blaxploitation senza discutere di questo testo.

SM: In questi film c'è un momento trionfale in cui il personaggio principale sfugge all'arresto, alla morte prematura o alla scomparsa. Immagino le sale cinematografiche degli anni Settanta riempirsi di esclamazioni catartiche! Nel contesto politico attuale, cosa potrebbe offrire a registi e pubblico un ritorno a quest'era?

JGR: È interessante. Per molti versi mi ricorda quanto è successo a Nollywood. Parlo soprattutto dal punto di vista di un modello di business. In questo caso, si fanno film a basso costo e in fretta. Nollywood - fin dalle prime edizioni - aveva un vasto pubblico al di fuori della Nigeria che voleva vedere i suoi film. Hanno soddisfatto ciò che la diaspora non riusciva a ottenere in TV o sui canali di streaming dei primi tempi. È un genere molto simile alla Blaxploitation, anche se purtroppo coloro che erano rappresentati nei film non guadagnavano nulla - guadagnavano gli studios. C'era un pubblico pronto a cercare una rappresentazione di se stesso diversa da quella che avrebbe normalmente ottenuto. I personaggi dei film sopravvivevano e riuscivano a scappare. Non erano costosi da realizzare, li si distribuiva il più rapidamente possibile e generavano profitti. Mi piacerebbe vedere un atteggiamento collaborativo che capisca cosa lo spettatore vuole veramente vedere e un pacchetto che soddisfi l'appetito del pubblico. Sarebbe incredibile avere un modello di business che crei opportunità per l’altro dove altrimenti non esisterebbero. C'è una disparità, sicuramente nella comunità dei registi con cui sono in contatto. Si tratta di un business cinematografico, ma non c'è abbastanza “business” in gran parte della comunità del cinema indipendente.

SM: Spesso io e Mosa parliamo della circolazione dei film che abbiamo visto. I film non si limitano alle proiezioni al cinema. [1]

JGR: La circolazione comprende anche l'esposizione e la distribuzione. Questo è un altro ginepraio. I registi devono trovare modi alternativi che funzionino per loro. Le modalità in cui il pubblico consuma e ama consumare i film non sono necessariamente sofisticate. C'è un mercato anche per la roba da intrattenimento un tanto al chilo, che si può usare per creare un'industria.

Shot from The Black Book (2023). Nollywood’s most expensive film, The Black Book, has been No. 1 on Netflix worldwide in the first week of its release. This is the first ever Nollywood film to achieve such a feat.

SM: Negli ultimi anni Hollywood ci ha regalato film che pongono al centro l'eccezionalismo nero. Film come “Green Book” e “Hidden Figures”. Ma io voglio vedere personaggi discutibili, ordinari, amati e meravigliosi. Ho pensieri frammentari sul contesto che potrebbe aver creato questo tipo di narrazione. C'è il 2020 e l'omicidio di George Floyd. Nelle manifestazioni di tutto il mondo la gente si è chiesta “cosa stiamo facendo per prevenire la morte prematura dei neri?”. Il BLM ha spinto le persone verso una prospettiva abolizionista, chiedendo il taglio dei fondi alla polizia. Tutto ciò fa ora parte della più generale coscienza politica in modi che prima non c'erano, soprattutto per coloro che non sono nati criminali. Nel pensare alla polizia e alle carceri, dobbiamo anche riflettere su ciò che la criminalizzazione delle persone comporta e su chi ci fa veramente del male. Credo che la Blaxploitation riesca a farlo. In questi film, i “criminali” sono eroi. Eroi perché si oppongono al potere in carica. Capiamo che sono il prodotto delle loro condizioni, piuttosto che persone intrinsecamente cattive. Mi chiedo: c'è della nuova linfa per la rinascita della Blaxploitation?

JGR: Ma non credi che “Brotherhood” (2016), “Bullet Boy” (2005) e “Top Boy” (2011 - 2023) lo facciano già? Ci sono degli indizi particolari che potrebbero portare a qualcosa del genere. A parte il 2020, cos'altro c'è stato oggi? I punti di riferimento sono stati Covid e lockdown. Erano perlopiù neri e persone razzializzate a lavorare nelle industrie, nei servizi e nel servizio sanitario nazionale. Avevano maggiori probabilità di contrarre e morire di Covid. Per quanto riguarda i film che nell’ambito mainstream cercano di criticare il fenomeno con la sottigliezza adeguata, sono d'accordo con te. Non ne ho visti molti - non nel mainstream.

Shot from Top Boy. (Netflix)

SM: Mi è piaciuto molto un passaggio di un tuo articolo in cui parli dell'eredità dell'era Blaxploitation in relazione alle eroine nere. Può dirmi qualcosa di più al riguardo?

JGR: I principali volti noti della Blaxploitation sono Pam Grier con “Foxy Brown”, Tamara Dobson in “Cleopatra Jones” e ce ne sono molti altri. La mia critica alla Blaxploitation per quanto riguarda le donne è che molto spesso hanno poca autonomia in termini di ciò che fanno per loro stesse. Le loro azioni e le loro narrazioni sono finalizzate a sostenere il loro uomo, la famiglia o la comunità. Questo vale per tutte le donne. Ribadisco pienamente ciò che affermo nell’articolo: senza quelle donne del periodo Blaxploitation non credo che oggi vedremmo donne nere nei film d'azione, e per questo le ringrazio. Un esempio potrebbe essere “Proud Mary” (2018) con Taraji P Henson come protagonista. Quel film non ha avuto successo per una serie di motivi, ma ha sicuramente preso spunto da quel periodo in termini di narrazione e di ciò che motiva il personaggio. Un fantastico passaggio di testimone.

SM: Come negli anni Settanta, oggi gridiamo: fermatelo! Mentre chi di noi è in Occidente e fuori dall'Occidente conosce intimamente l'imperialismo; sappiamo come ci ha danneggiato. In Europa siamo estremamente consapevoli di come ci coinvolga nella sua violenza attraverso il nostro lavoro e i nostri desideri. Con tutti i suoi difetti, il cinema Blaxploitation ha offerto una catarsi culturale che oggi sarebbe necessaria per svelare le interconnessioni delle lotte globali di liberazione.

Note

[1] Samra Mayanja e Mosa Mpetha curano il Black Cinema Project. Condividono e discutono in modo approfondito film africani e della diaspora.

4. Alla scoperta di Tubi, la piattaforma di Fox dove si sta decidendo il futuro del cinema Nero indipendente

di Andrea Tiradritti

L’ultima irriverente campagna promozionale di Tubi ci tiene a sottolineare quanto la piattaforma sia diventata popolare nel mondo, molto più dei bambini, dei francesi e del pickleball (la versione statunitense del padel). Con 75 milioni di spettatori mensili, questo servizio di streaming lanciato nel 2014 e acquistato nel 2020 dalla Fox Corporation sta infatti assumendo sempre maggiore rilevanza nell’affollato panorama audiovisivo contemporaneo, attirando l’attenzione di investitori e utenti grazie a un modello commerciale alternativo a quello utilizzato dai grandi colossi del settore e a un catalogo davvero sconfinato. Una tana del Bianconiglio – citando un altro celebre spot della compagnia – nel quale è facile, e per molti versi affascinante, smarrirsi. 

Tubi celebrates its rapid growth in New York.

A differenza di Netflix, Prime Video e la maggior parte delle piattaforme di streaming più famose, Tubi è gratis. Per guardare i suoi contenuti (per ora inaccessibili in Europa) non è necessario pagare un abbonamento, né tantomeno creare un account. Ben contenti di non sborsare altri dollari per l’ennesimo servizio di streaming, gli spettatori di Tubi devono però scendere a compromessi con la modalità di finanziamento scelta dalla piattaforma, basata sulle sponsorizzazioni e gli annunci pubblicitari, i quali irrompono sullo schermo sospendendo la visione a intervalli imprevedibili e a volte spiazzanti. Questo ritorno a una logica tradizionalmente televisiva dell’esperienza spettatoriale può aprire interessanti riflessioni sulle pratiche, sempre più distratte e interrotte, con le quali siamo abituati a fruire i contenuti mediali. Inoltre, segnala una tensione tra innovazione e continuità che anima le varie costellazioni di quello che lo scrittore John Wilmes ha definito lo strano e vasto Tubi-verso: se da un lato i suoi meccanismi distributivi appaiono profondamente consapevoli delle trasformazioni del presente, imperniati su criteri di accesso maggiormente flessibili rispetto alla tradizione, dall’altro gli interessi economici dei suoi assetti proprietari corrono il rischio di far adottare schemi di potere già usati in passato per sfruttare e rendere profittevoli fasce di mercato marginalizzate. Queste e altre tendenze contrastanti prendono forma in quello che è senz’altro, insieme alla gratuità, il punto di forza di Tubi: il suo enorme catalogo, una giungla dove convivono spazzatura e bestie rare.

Oltre 50.000 tra film e serie televisive, 200 canali tv live di intrattenimento, news, sport e una ricca sezione per bambini: scorrere l’homepage di Tubi può far venire mal di testa, ma anche un brivido di avventurosa curiosità. Su Tubi si trova davvero di tutto, tra cui sempre più opere indipendenti di filmmaker Afroamericani. Il dibattito sulle potenzialità e i rischi della piattaforma ha agitato negli ultimi tempi la comunità creativa Nera. Secondo alcuni, essa rappresenta un vero e proprio rinascimento per il cinema indipendente Afroamericano perché in grado come mai prima di sostenere la carriera di creativi e tecnici Neri, così da far raggiungere loro un più ampio pubblico senza dover sobbarcarsi i vertiginosi costi di Hollywood e delle distribuzioni nelle sale. Per altri, ciò che appare come un fenomeno rivoluzionario, capace di emancipare le forze subalterne dell’industria, non è altro che un servizio reso alla riorganizzazione capitalistica del nuovo mercato interconnesso, nel quale è di certo più semplice entrare ma i cui sottili vincoli non permettono fino in fondo alle minoranze che vi si auto rappresentano di essere padrone del loro racconto. Queste preoccupazioni, del resto, sono giustificate dal fatto che Fox, l’impresa proprietaria del servizio, è stata più volte criticata in passato per essere megafono della destra razzista americana, incitare all’odio razziale e veicolare nei suoi programmi narrazioni e rappresentazioni discriminatorie. 

Tubi's homepage

Collegata agli interessi proprietari è la questione riguardante l’effettiva retribuzione degli artisti. In che modo e quanto vengono pagati i registi indipendenti? In un articolo pubblicato dal sito Medium, David W. King spiega come non esista su Tubi una tariffa chiaramente definita. I guadagni di un film dipendono in larga misura dal valore che questo assume per la piattaforma in termini di attrattività nei confronti di utenti e investitori. In altre parole, più un film è popolare e maggiore sarà il prezzo che i potenziali brand saranno disposti a pagare per inserire le loro pubblicità al suo interno. All’aumentare del livello degli spazi pubblicitari e del numero di impressioni da parte del pubblico aumenterà di conseguenza il ritorno per il film, quantificato in media tra i 10 e 15 centesimi di dollaro per ogni visualizzazione. In un contesto del genere è difficile pensare che la maggioranza dei filmmaker indipendenti riesca a guadagnare cifre consistenti, considerando per di più i costi di promozione multicanale necessari per posizionarsi in maniera efficace. Secondo questo sistema, il film di successo su Tubi difficilmente sarà quello più meritevole dal punto di vista qualitativo, ma quello che meglio incrocia gli interessi politici della piattaforma e quelli economici degli inserzionisti, rivolgendosi a un determinato target attraverso schemi codificati e funzionali a generare uno specifico modello di ricchezza.

La lezione della blaxploitation, passata in pochi leggendari anni da essere un movimento culturale sovversivo a un genere cinematografico di scarsa qualità perfettamente integrato nella produzione hollywoodiana, spiega bene le perplessità di chi vede oggi nel proliferare su Tubi di film realizzati con pochi mezzi e a basso costo da crew Afroamericane non tanto un’opportunità di empowerment collettivo, quanto una deriva utile soltanto a rafforzare dannosi stereotipi. La blaxploitation nacque all’inizio degli anni Settanta come atto di difesa e ribellione nei confronti di un sistema cinematografico bianco, razzista e in crisi. Le sue radici erano politiche, i suoi fiori estetici. Gli ideali che animarono le prime fasi di quella stagione riguardavano lo sforzo di costruire un immaginario antitetico a quello colonizzato nei decenni precedenti dai grandi studi di Hollywood, nel quale i corpi e i desideri delle persone Afroamericane potessero non solo venire inclusi con dignità, ma diventare protagonisti. Se questo ideale si è concretizzato solo in parte, se quei film esaurirono presto la loro carica trasformatrice per venire addomesticati da logiche di consumo, è stato perché la libertà iniziale del movimento fu in breve tempo assorbita del sistema che cercava di manomettere dall’interno. Lo spazio spalancato da film indipendenti e di denuncia come Sweet Sweetback's Baadasssss Song (1971) di Melvin Van Peebles venne di fatto subito occupato dai capitali dell’industria, la quale trovò nel pubblico Afroamericano, fino a quel momento ignorato, un nuovo mercato da sfruttare.

A Good Man (2023), an exemple of Tubi's productions.

In un video saggio intitolato emblematicamente Tubi: The New Blaxploitation il filmmaker Afroamericano Pillboy analizza lo stato delle cose del cinema Nero partendo dal presupposto che quel sistema di potere non è cambiato. Per conformarsi agli ingranaggi di Hollywood (vedi Moonlight) un film Afroamericano sembra ancora costretto a dover emozionare raccontando un trauma razziale legato all’identità nera. Piattaforme come Tubi, eliminando una serie di controlli e restituendo ai creativi la possibilità di diffondere le loro opere autoprodotte tramite pochi e semplici click, assolvono in apparenza la stessa liberatoria funzione che cinquant’anni fa puntavano a svolgere i film della blaxploitation: non solo concedere alla minoranza Afroamericana l’opportunità di raccontarsi in maniera alternativa rispetto a quella drammatica o vittimistica, ma grazie a questo racconto ottenere anche riconoscimenti e remunerazioni in grado di azionare circoli virtuosi per l’intero settore.

The video essay Tubi: The New Blaxploitation, by African American filmmaker Pillboy.

Come abbiamo visto, la questione è più complessa di così. Pillboy usa il concetto di “cooptazione” per illustrare come il sistema capitalistico possieda gli strumenti necessari per inglobare, cooptare appunto, qualsiasi movimento contestatore, persino il più minaccioso, scaturito in seno alla sua industria culturale. La diffusione dei social network ha raffinato questa strategia, permettendo tramite hashtag e tweet a imprese finanziarie e istituzioni politiche di appropriarsi in maniera ambigua di battaglie in teoria estranee o addirittura opposte alle loro agende. Non è un caso che l’esplosione di contenuti rivolti espressamente a un pubblico Afroamericano sulle piattaforme streaming sia avvenuta nella primavera del 2020, in concomitanza delle proteste per le uccisioni a carico della polizia di George Floyd e Breonna Taylor. Considerare Tubi come uno strumento di rottura è perciò un’illusione. Le posizioni dei suoi proprietari e le logiche pubblicitarie che regolano la messa a valore del suo business favoriscono rappresentazioni commerciali e macchiettistiche della comunità Nera, dando rilievo a contenuti di scarso valore. Alcune scene di questi titoli oggi sono diventate virali sui social per la loro assurda irrealtà e per errori tecnici talmente grossolani da chiedersi se siano stati commessi apposta. Invece di articolarsi, la diversità dell’esperienza Afroamericana si appiattisce tramutandosi in farsa, meme da deridere online e sul divano, così da generare commenti, aumentare il traffico e attirare facoltosi inserzionisti.

Alla luce di questo scenario, scaricare la responsabilità sui singoli artisti appare miope e controproducente. Non è soltanto migliorando il livello tecnico delle proprie produzioni che i filmmaker Afroamericani scalfiranno le strutturali tendenze razziste della piattaforma. Pillboy auspica invece una presa di coscienza collettiva che faccia tesoro dell’eredità della blaxploitation e consenta agli artisti di assumersi per davvero, tramite un’azione politica, la responsabilità delle storie che raccontano. Come evolverà il paesaggio nel prossimo futuro è impossibile prevederlo, specialmente considerando la rapsodica tendenza di Tubi a cambiare pelle e regolamenti. Quel che è in gioco è la capacità del cinema Afroamericano di esprimersi al di fuori dei codici favoriti da chi ha bisogno di aggredire sempre nuovi mercati per consolidare la propria posizione di potere.

Riferimenti

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Filmografia

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Five on the Black Hand Side (1931), by Oscar Williams

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Articoli

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Newton, P. Huey (1971) “Sweet SweetbackThe Black Panther” in The Black Panther Saturday, Party, June 19th 1971 https://www.marxists.org/history/usa/pubs/black-panther/06%20no%2021%201-20%20jun%2019%201971.pdf

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Howard, Josiah (2008), “Blaxploitation Cinema: The Essential Reference Guide”, ed. Fab Press https://www.loc.gov/static/programs/national-recording-preservation-board/documents/ThemeFromShaft.pdf

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Anderson, Tre’vell (2018). "A look back at the blaxploitation era through 2018 eyes". Los Angeles Times. Archived from the original on June 8, 2018. Retrieved May 22,2022)

Van Peebels, Melvin (2002), from the documentary “Baadassss Cinema”, by Isaac Julien 

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Woods, Charles (2016), “What Blaxploitation could have been” https://www.youtube.com/watch?v=6SUbhgQnXv0

Moore, Sarah (2021) Interview with Naoemi Lefebvre

Gates Raquel (2021) Watermelon Man: Melvin in Hollywoodland

Robinson, Jennifer (2021) The finesse of the Blaxploitation film genre rises with Cleopatra Jones flair