50 anni di Hip Hop (diciannove articoli per raccontare una cultura)
A cura di Cesare Alemanni, Gabriele Baldassarre, Giovanni Cagni, Naomi Kelechi Di Meo, Simone "Danno" Eleuteri, Koki Flores, Federico Maccarrone, Emanuele Mongiardo, Simone "mosi" Motta, Niccolò Murgia, Tommaso Naccari, Alessandro Quagliata, Federico Sardo, Gabriel Seroussi, Andrea Signorelli, Michele Sugarelli, Francesco Tirrinnanzi, Marta Blumi Tripodi, Marco "Ted Bee" Villa
L’11 agosto 1973 a New York nasceva l’hip hop, la cultura che più di tutte ha diffuso nel mondo la musica e le tradizioni della comunità Afroamericana. In occasione del cinquantesimo anniversario di questo avvenimento pubblichiamo una raccolta di diciannove articoli che racconta alcune delle scene artistiche e degli autori più influenti della storia della cultura.
1. It’s the Motorcity, babe (Detroit, 1996 - 2006)
di Cesare Alemanni
9min circa
Nel 1879 un sedicenne cresciuto in una fattoria di Springswell, Michigan, giunse a Detroit. Non aveva molti soldi in tasca ma disponeva di un notevole intuito per la meccanica. A dodici anni il padre gli aveva regalato un orologio da taschino e lui lo aveva smontato per studiarne gli ingranaggi. Fu grazie a questo talento che quel giovane, neppure maggiorenne, divenne in seguito uno degli uomini più influenti del Novecento.
Il sedicenne si chiamava Henry Ford ed era destinato a fondare la Ford, una delle più grandi case automobilistiche al mondo. Per certi versi LA casa automobilistica per eccellenza, visto che è alla Ford, e a Henry Ford, che spetta la paternità dell’utilitaria (con la Model T del 1908), ovvero la prima automobile davvero “di massa”, e perciò in grado di trasformare in profondità la società dei consumi del Novecento. Perché, vi starete chiedendo, parlo di Henry Ford in una rivista dedicata al compleanno del rap? Beh, perché per comprendere da dove arriva il rap di Detroit (che è l’argomento di questo articolo) bisogna prima raccontare che città sia Detroit e non c’è modo migliore per farlo che cominciare dalle auto. Detroit è infatti (stata) per gran parte del Novecento la capitale dell’industria automobilistica americana (e, di riflesso, occidentale). Non solo grazie alla Ford ma anche a marchi come Chrysler, GM e così via. Non è, del resto, soprannominata Motor City per caso.
In virtù delle sue industrie, per decenni Detroit ha attirato centinaia di migliaia di lavoratori industriali – quelli che in America chiamano blue collar e in Italia tute blu. Una gran massa di immigrazione interna che, a partire da fine Ottocento, si riversò nella fredda capitale del Michigan dietro la promessa di un posto di lavoro sicuro (e inizialmente anche piuttosto ben pagato). Molti di loro erano, inevitabilmente, Afroamericani in fuga dalle discriminazioni dei Southern States (non che a Detroit le discriminazioni non abbondassero. Lo stesso Henry Ford era anzi apertamente razzista).
In forza di questo fenomeno, a cavallo del dopoguerra, Detroit era ormai diventata la principale Black Mecca del Midwest. Una metropoli caratterizzata da una estesa working class altamente multietnica e con un livello di benessere economico che, altrove, le minoranze semplicemente non possedevano. Nei primi anni Cinquanta, nei quartieri popolari di Detroit, quelli a larga maggioranza nera, la vita cominciò perciò a essere scandita da due grandi colonne sonore. Da un lato la ritmica marziale e ripetitiva della catena di montaggio, dall’altra i suoni vibranti dei jazz club, dove la vasta comunità dei lavoratori, Afroamericani e non solo, si ritrovava per scuotersi di dosso il tedio delle giornate in fabbrica.
Più di 200 pagine dedicate alla storia e alla cultura della comunità Afro-americana. Sostieni oltreoceano, sostieni il giornalismo indipendente.
Da quella scena emersero alcuni grandi jazzisti, su tutti Yusef Lateef, ma soprattutto cominciò a muovere i primi passi nella musica un giovane Afroamericano, un veterano della Guerra di Corea che, dopo aver tentato senza successo la strada del pugilato, era finito a lavorare proprio alla Ford. Si chiamava Berry Gordy e colse per primo, e meglio di tutti gli altri, un elemento particolarmente topico della situazione socioculturale di Detroit. Ovvero la presenza di una gran massa di operatori industriali, particolarmente alienati e dunque particolarmente bisognosi di canzoni in grado di farli soprattutto divertire.
Su quell’intuizione, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, Gordy costruì un sound in cui le caratteristiche più “pop” del soul e del jazz, del funk e del rock and roll venivano esaltate all’interno di tracce pensate appositamente per soddisfare la voglia di svago di quel tipo di pubblico.
Le prime produzioni di Gordy ebbero un immediato e clamoroso successo. E non solo. In ossequio alla tradizione industriale della città, Gordy decise di serializzarle e renderle un vero e proprio “marchio di fabbrica” imprenditoriale. Nacque in tal modo la Motown, una delle etichette discografiche più influenti del Ventesimo secolo. Senza dubbio una delle tre più importanti label di musica blackdella storia (le altre due sono Blue Note e Def Jam). E non potrebbe essere altrimenti, con un catalogo che include artisti come Marvin Gaye e Stevie Wonder, Rick James e Four Tops, Jackson 5 e The Temptations (e questa è solo la punta dell’iceberg).
Grazie al successo della Motown, negli anni Sessanta, Detroit si ritrovò a essere l’improbabile epicentro della musica Afroamericana: la capitale del soul e del funk e di tutto ciò che stava nel mezzo. Il suo successo fu inoltre decisivo per l’accettazione nel mainstream americano dei generi musicali più tradizionalmente “black” che da “segregati”, e ascoltati prevalentemente da neri, acquisirono popolarità anche tra il pubblico bianco e generalista. Proprio, peraltro, mentre in realtà Detroit si trasformava in una polveriera di tensioni socio-razziali (le Detroit riots del luglio 1967 furono le prime “rivolte etniche” di grandi dimensioni del dopoguerra americano).
Negli anni Sessanta, Detroit quindi riuniva in una singola città la capitale industriale, quella musicale e, per molti versi, sociopolitica degli Stati Uniti e della Black America. Cosa poteva andare storto? Molte cose. Gli anni Settanta furono anni di crisi globale. Inflazione, shock energetici, trasformazioni geopolitiche, crisi economiche e culturali decretarono il passaggio degli Stati Uniti dal modello sociale del dopoguerra, basato su industria e produzione, a quello della cosiddetta globalizzazione, basata su outsourcing e alta finanza. Le grandi aziende cominciarono a produrre all’estero. I lavori da operai, i cosiddetti blue collar jobs migrarono con esse. Nel giro di un decennio Detroit si ritrovò preda di una crisi senza precedenti: le aziende fallirono, i capannoni si svuotarono i sobborghi industriali diventarono ghetti. Da fiorente paradiso dell’industriaDetroit divenne uno dei maggiori case studies di fallimento post-industriale.
Persino la Motown se ne andò a Los Angeles. La sua eredità culturale, fatta di jazz e soul, funk e blues, tuttavia rimase. E su quella, Detroit costruì il proprio rinascimento, quantomeno musicale. Come altri distretti post-industriali (si pensi alla Ruhr) anche Detroit divenne patria di grandi sperimentatori ritmici. Un fenomeno che si deve, secondo alcuni, all’affinità tra i suoni secchi dell’attività produttiva e i battiti precisi dei sequencer. Sia come sia, nelle grandi cattedrali ormai in rovina della Detroit industriale, a partire dagli anni Ottanta si cominciarono a impastare gli ingredienti di nuove musiche. I pionieri erano ragazzi Afroamericani che rispondevano ai nomi di Juan Atkins,Derrick May,Kevin Saunderson. Le loro fonti di ispirazione erano, da un lato, il soul della Motown e, dall’altro, la rivoluzione della musica elettronica europea, dai Kraftwerk a Moroder.
Ne venne fuori una musica da ballo senza precedenti, al contempo giocosa e disperata, vitale e nichilistica, paradisiaca e apocalittica: la techno. A metà anni Ottanta, Detroit la si ballava ovunque ma soprattutto negli enormi e cavernosi capanni abbandonati dalle industrie e nel contesto di feste spesso semi-illegali che avrebbero col tempo preso il nome di “rave”.
Di nuovo: perché vi sto raccontando tutto questo? Per il semplice motivo che senza questo retroterra non si può davvero raccontare (e apprezzare) fino in fondo il genio del compianto J.Dilla (1974 – 2006). Ovvero, secondo il mio modesto parere, il più sofisticato e stratificato produttore hip hop di tutti i tempi. Un beatmaker che non solo è leggendario ma il cui sound riflette come un prisma psichedelico le mille coloriture della traiettoria storica e musicale di Detroit. Nato a Detroit nel 1974 con il nome di James Dewit Yancey crebbe sospeso tra due mondi: da un lato la passione, trasmessagli dalla famiglia, per la tradizione della musica black, dall’altra la timida curiosità, tipica del ragazzino introverso che era, per le novità metriche e sonore della techno. E proprio questo ibrido di influenze fu ciò che contribuì a rendere così speciale il suono di Dilla: in cui casse dal sapore techno si sposano a sample grondanti di soul, dove le metriche sono al contempo assolutamente precise e del tutto inesatte (il cosiddetto “Dilla time” ottenuto sfasando di pochi millesimi di secondo il disegno delle percussioni sul suo leggendario MPC3000), al punto da farti chiedere se i suoi beat siano usciti da uno strumento elettronico o registrati in un studio da una band di strumentisti.
Nel volgere di una carriera troppo breve, stroncata a soli 32 anni da una rara malattia, J. Dilla, ha dato lustro e vita alla scena rap di un’intera città, Detroit, e alla sua comunità black, in uno dei momenti più difficili dalla loro storia (Detroit ha trascorso quasi tutti i Duemila sulla soglia della bancarotta e l’ha infine attraversata ufficialmente nel 2013). Caso più unico che raro nella storia del rap, J. Dilla è stato il “motore” (parola scelta non per caso, trattandosi di Detroit) artistico di un’intera città e di una intera scena. Che nel tempo, anche grazie alla sua influenza, ha prodotto nomi di assoluto rilievo come Slum Village, Phat Kat, Black Milk, Dwele, Guilty Simpson, Elzhi e molti altri. E, fatto ancora più sensazionale e unico, nel far “rinascere Detroit”, J.Dilla è riuscito a sintetizzare la Storia musicale, culturale e sociale, della metropoli che, forse più di ogni altra, ha rappresentato la parabola del sogno (Afro)americano del Novecento: dall’improvvisazione del jazz allo svago del funk, dal romanticismo del soul alla distopia della techno, it’s the Motorcity, babe.
2. The Blog Era (online, 2007 - 2012)
di Gabriele Baldassarre
4min circa
Le parole giuste arrivano sempre dopo. Mi è capitato di pensarlo in un pomeriggio estivo di circa otto anni fa, la prima volta che ne lessi due, particolarmente suggestive: Blog Era.
Eh sì, arrivano sempre dopo e quelle due descrivevano perfettamente una serie di diamanti musicali sparsi nella mia memoria di cui, per diverse ragioni, non ero mai riuscito a trovare un filo conduttore. E grazie al cazzo che non l’avevo trovato, perché in fondo non c’era proprio. O meglio, non nei cassetti in cui mi avevano sempre detto di cercare.
Penso che chiunque degli altri autori di Oltreoceano abbia provato a raccontare dei periodi del rap passato, sia finito in qualche modo per parlare di appartenenza territoriale. Una delle caratteristiche storicamente più forti e distintive di questa cultura, da cui anche io, nelle mie notti delle medie su Wikipedia, rimanevo affascinato, leggendo di città americane e di rapper che ne enfatizzavano le origini.
Per questo motivo tracciare l’identikit facciale dello tsunami musicale che inondava la fine dei Duemila e l’inizio dei Dieci non era semplicissimo per un adolescente milanese. Per la prima volta nella storia del genere il luogo era un non-luogo. Avevo visto a posteriori la East e la West Coast dei Novanta, vissuto da neofita la G-Unit, le grandi crew newyorchesi dei Duemila e il primo boom mainstream del South. Gli artisti più popolari del momento ora venivano da New Orleans, Pittsburgh, Toronto, poi c’era quello di New York che suonava come se fosse di Houston e quello di Los Angeles che scriveva come un consciousrapper del Midwest. L’esplosione di Internet e dei primi social aveva unito province e città di tutti i cinquantuno stati in unico luogo, visitabile dalla mia cameretta. E anche se non avevo la consapevolezza di cosa stessi facendo, sapevo che era quello il luogo da ascoltare. Senza accorgermene stavo vivendo la Blog Era. Stava cambiando il luogo del rap e quindi stava cambiando il rap, che avrebbe finito poi per cambiare tutto ciò che lo circondava.
Con la popolarità di Napster a fine anni Novanta e tutti gli altri metodi di download illegale della musica era iniziata la peggior epoca di sempre per la discografia mondiale. Nessuno comprava più CD e tutti scaricavano illegalmente online. iTunes provò ad essere una soluzione, che col sennò di poi si rivelò più che altro una traduzione imprenditoriale del “prova a riavviare e vedi se funziona” e infatti non funzionò. Un bagno di sangue economico mondiale, arrivato proprio nel momento in cui il rap stava scalando pian piano le graduatorie mainstream. Entrò qui però in gioco il fattore che ha sempre reso e rende tutt’ora questa sottocultura quella più influente del mondo occidentale: il rap è terreno culturale guidato dalle fasce della popolazione spesso considerate più basse, luoghi sociali da cui storicamente parte per prima qualsiasi cambiamento culturale, per poi propagarsi sul resto della società.
In questo senso i fan del rap furono dunque in primissima fila nello scaricare illegalmente e gli artisti della scena i primi a sentirsi costretti a trovare una risposta e adattarsi. Nacquero siti come NahRight, DatPiff, 2DopeBoyz e molti altri che diventarono il luogo sociale di riferimento per i fan del genere. Scordatevi il New Music Friday e fate più che altro New Music Everyday. Siti in cui ogni giorno era possibile trovare nuova musica da scaricare e mettere sul proprio iPod. In questo scenario i rapper furono tra i primi ad abbracciare il nuovo modello di fruizione e pubblicare loro stessi in prima persona in free download. Una nuova modalità che rese popolare nel mondo un formato che fino ad allora lo era stato solo nelle strade d’America, tra una bancarella e un angolo del liquor store: i mixtape.
Il rap domina Internet e in un certo senso, Internet finisce per dominare il rap. Il bacino di utenza si allarga: è di più chi fa e chi ascolta. Cambiato il terreno di gioco, cambiano anche le regole. Cambia insomma la musica e il modo di fare. L’esplosione mainstream di artisti come Kanye, Kid Cudi e Drake sposta l’occhio di osservazione dalla strada e lo porta sull’essere umano. Non si raccontano più le città, ma le persone. Uno switch prima tecnologico e poi culturale. Una rivoluzione a doppio senso che permette a migliaia di artisti di avere una vetrina che probabilmente non l’avrebbero mai avuto andando a bussare alle porte dei gatekeepers radiofonici e televisivi. Se si può pubblicare gratuitamente e se non è obbligatorio parlare di strada, possono farlo tutti. Aumenta la competizione e quindi anche la qualità di chi ce la fa. Artisti come A$AP Rocky, Tyler The Creator, Mac Miller, J.Cole, Travis Scott, Kendrick Lamar costruiscono in questo periodo storico, dal 2008 al 2012, le loro fanbase, con musica leakata nei blog e video YouTube low budget. È cambiato il luogo del rap e quindi è cambiato il rap, che finirà per poi cambiare tutto ciò che lo circonda.
Le parole giuste arrivano sempre dopo. E infatti nessuno ha mai parlato di Blog Era finché non è scomparsa. Lessi quelle due parole su un blog che avrebbe chiuso solo un anno più tardi. Ciò che quel luogo ha lasciato è però ancora con noi: tutti gli artisti più dominanti di oggi, nascono in quell’epoca e le basi dello streaming come modello di fruizione e pubblicazione nascono lì. Con la Blog Era il rap è diventato di tutti e quindi in un certo senso di nessuno. Perché la storia dice che ciò che ti rende il più popolare al mondo è spesso poi la stessa cosa che ti farà morire. Non sappiamo quanto quel giorno sia lontano, ma possiamo sicuramente sorridere e godere per quanto di buono abbiamo tra le mani ancora oggi. Tanto alla fine per le parole giuste c’è sempre tempo.
3. Don't mess with Texas (Houston, 1992 - 2006)
di Giovanni Cagni
9min circa
«Don’t mess with Texas»
Agosto 2006, è questa la scritta che campeggia sulla copertina di The Source, la più importante rivista americana in fatto di cultura hip hop. Sotto di essa una foto in cui davanti ad un casolare abbandonato - un set up decisamente country - posano tra gli altri Bun B, Pimp C,Scarface, Slim Thug, Z-Ro, Chamillionaire, Mike Jones ed ovviamente la mitologica quanto controversa figura di J Prince. Attori protagonisti di un exploit assolutamente imprevisto ed inaspettato che sta travolgendo lo stato del Texas e più precisamente la città di Houston.
È una copertina diventata oggi iconica. Se è vero, come sostengono alcuni che, analizzando un movimento culturale, possiamo definire un “classico” un prodotto in grado o di anticipare quella che sarà la sua evoluzione successiva o di incapsulare un momento preciso della storia di esso, questa copertina rientra a pieno titolo nella seconda categoria. Questa, infatti, scolpisce nel tempo l’anno di dominio di Houston sulla scena statunitense. Un momento oggi quasi dimenticato: se si pensa ai cinquant’anni di storia dell’hip hop è prassi considerare Atlanta come la Rap Capital degli ultimi vent’anni e New York quella dei precedenti trenta, con una piccola parentesi di dominio di L.A. nel periodo gangsta rap. Eppure a metà degli anni Duemila ci fu un periodo di circa un anno in cui il mondo dell’hip hop mainstream statunitense puntò gli occhi sulla capitale del Texas, scoprendone un fascino quasi esotico a livello di suono e di immaginario visivo: il flow rilassato e quasi sonnolento, l’accento southern così marcato e lo slang tipico della zona, le auto SLAB (“Slow, Low and Bangin”) con gli imprescindibili swangers (cerchioni elaborati che sporgono all’esterno della ruota anche di 20-30 cm) e la verniciatura candy paint(un rivestimento glossy, traslucente e luminoso in grado di dare all’auto un tipico aspetto che ricorda appunto una caramella), i denti coperti dai grillz, tipici gioielli resi celebri dallo houstonianJohnny Dang, il Purple Drank come droga ricreativa e sullo sfondo un’atmosfera rallentata che fa sembrare che tutto - dal sound al mood - sia in slow motion. Cifre stilistiche di un movimento che nel 2004 - trainato dal singolo Still Tippin’ di Mike Jones - stava affascinando l’intera nazione, ma le cui radici vanno cercate molto più indietro nel tempo.
Fu infatti un percorso travagliato: fino ai tardi anni Ottanta la stessa città di Houston vedeva con diffidenza i suoi esponenti rap locali. A cambiare il paradigma furono i Geto Boys con l’album Grip It! On another level del 1989 - primo album di rap texano ad essere notato dalla stampa di settore - ed in particolare il loro membro di spicco, Scarface, il cui omonimo brano solista fu una rottura netta per stile e attitudine con quanto sentito in città prima di allora. Esso di fatto dimostrò che si poteva essere credibili con il rap pur provenendo da quartieri di Houston come il Fifth Ward, South Park o il Southside e non solo da Compton a L.A. o dal Bronx a New York. Gli stessi Geto Boys non a caso diventarono i primi a sfondare fuori dallo stato del Texas con un disco - We Can’t Be Stopped - certificato platino nel 1992, venendo così acclamati e rispettati dalle coste Est e Ovest in un periodo in cui queste nemmeno prendevano in considerazione l’idea che nel Lone Star State ci potesse essere qualcuno in grado di rappare.
Da lì a pochi anni dopo, il pubblico rap locale fece della territorialità un suo aspetto identificativo e Houston iniziò ad essere autosufficiente. In questo scenario i rapper locali iniziarono a non avere nemmeno più il bisogno di “farcela” nell’accezione tradizionale del termine, potendosi tranquillamente autosostentare tramite la vendita dei loro CD dal bagagliaio delle auto e con live show in tutto il Texas e stati limitrofi facendo peraltro numeri non molto distanti da quelli delle grosse etichette major. «I wasn’t livin’ like a rapper, but I was livin’ like a doctor» ricorda LilKeke della leggendaria Screwed Up Click.
E fu proprio quest’ultima a metà anni Novanta a dare l’ossatura finale al rap di Houston per come lo conosciamo oggi, consolidando tutti gli stilemi e gli aspetti di contorno che lo caratterizzano. L’etichetta indipendente fondata dal compianto Dj Screw fu pionieristica non solo per quell’arte rivoluzionaria che era la tecnica Chopped and Screwed, caratterizzata da tracce rallentate rispetto alla velocità originale, dette appunto screwed), o per i costanti riferimenti nei testi a quel syrup, quel purple drank a base di soda e codeina i cui effetti di sedazione si abbinano così bene alla musica rallentata di cui sopra, ma anche per per la abitudine dei rapper di utilizzare flow melodici, cantilenati, fino ad un vero e proprio cantato eredità della tradizione gospel (si pensi ad artisti come Big Moe, Fat Pat o Z-Ro). Si noti come siano aspetti facilmente rilevabili nel rap mainstream di oggi e quanto mai rilevanti. A tutto ciò va aggiunto il fatto che Screw diede alla città di Houston non solo un suono, ma anche un modello economico: massiccio utilizzo dell’autoproduzione, prolificità come arma di fidelizzazione del pubblico, vendita diretta senza intermediari (ciascun mixtape poteva arrivare a 20.000 copie vendute quasi tutte a mano dalla finestra di casa dello stesso Dj Screw).
Non sorprende quindi che quando arrivò l’esplosione su scala nazionale del rap di Houston a metà anni Duemila, uno degli album di punta fu il primo disco ufficiale di Slim Thug intitolato Already Platinum. Un album dal titolo che rappresenta un’intera mentalità: non ho bisogno di nulla da voi major label, non mi servono i grossi budget, i video, la promozione, sono già “major without a major deal”, per usare una frase dell’etichetta underground SwishaHouse, di cui appunto Slim Thug faceva parte.
Already Platinum - interamente prodotto da uno dei nomi più caldi del panorama musicale mondiale come i Neptunes di Pharrell Williams - fu solo uno degli album di successo di quell’anno. Tra il 2005 ed il 2006 in cima alla classifica Billboard dei dischi rap più venduti arrivarono anche Who Is Mike Jones? del sopracitato Mike Jones, The People’s Champ di Paul Wall (che lo stesso anno rubò la scena anche su Drive Slow di Kanye West), Trill di Bun B e Pimpalation di Pimp C. Sempre nel 2005 Ridin di Chamillionaire vinse un Grammy Awards e - dato che oggi fa sorridere ma allora era quantomai significativo - fu la suoneria più scaricata dell’anno.
Ironia della sorte volle però che l’uscita del numero di The Source la cui copertina doveva celebrare un duraturo regno da parte della scena texana ne fu invece di fatto il canto del cigno. Da metà 2006 l’interesse iniziò a scemare e vi fu un suo graduale ritorno alla dimensione “locale” e radicata al territorio che l’aveva fino ad allora caratterizzata.
Il seme tuttavia era stato piantato, ed avrebbe germogliato ciclicamente nelle stagioni a venire. Nei primi anni Dieci un emergente di Harlem di nome A$AP Rocky si affermò come la novità più interessante che la East Coast avesse prodotto negli ultimi anni proponendo un suono ed un’estetica che attingeva a mani basse da Houston. Proprio quella Houston che da New York era stata per decenni ignorata se non derisa. Nel panorama musicale odierno possiamo trovare porzioni di brani rallentati, screwed appunto, non solo nel rap mainstream di qualsiasi regione ma anche nel pop ed addirittura nella musica elettronica. Persino nella scena italiana l’influenza texana fece capolino quando, a metà anni Dieci, arrivò un’ondata trap che - forse senza che molti esponenti ne fossero nemmeno a conoscenza - si serviva di costanti richiami a quello “sciroppo” sdoganato a H-Town nei decenni precedenti.
Spenti i riflettori invece, il rap di Houston potè tornare allo status quo a cui era abituato, a quell’indipendenza che è quasi un vanto ed un valore aggiunto per il suo pubblico. Un’indipendenza che non manca di toccare punte di autoreferenzialità. Emblematico è l’episodio in cui Drake, nell’intenzione durante un live a Houston di fare un breve tributo alla città, fa partire l’inizio di Mo City Don di Z-Ro - pezzo quasi sconosciuto fuori da Texas e stati confinanti - e si ritrova costretto ad aspettare che l’intera arena finisca di rappare all’unisono tutto il brano parola per parola.
Oggi la scena hip hop di Houston, con l’eccezione di un Travis Scott il cui status di superstar made in Texas è secondo solo all’inarrivabile Beyoncé, continua a vivere secondo questa attitudine con artisti come Sauce Walka o Maxo Kream che portano avanti la tradizione peculiare di hometown heroes per i quali ottenere notorietà al di fuori dei confini è un aspetto utile ma non necessario.
Una filosofia riassumibile in maniera didascalica citando una barra di un monumento del rap texano come il compianto Pimp C:
«I might be nothin’ to you, but I’m the shit in that Texas»
4. Chi-Town Chronicles (Chicago, 1990 - presente)
di Naomi Kelechi Di Meo
10min circa
Chicago, insieme alle sue rivali città, non è stata mai anonima nella promozione, trasformazione e divulgazione di numerosi generi musicali che ancora oggi sono protagonisti nelle classifiche digitali. La struggle e la fame dei suoi abitanti le ha donato la responsabilità e il lusso di potersi reinventare ed evolvere a suoni di beat più classici come il gospel, l’urban blues, e il jazz trasformandoli poi in generi più sperimentali e avanguardisti come l’house, l’hip pop, e la più recente drill.
La storia del rap negli anni Novanta a Chicago è un viaggio emozionante e avvincente attraverso la cultura urbana e le sue sfide socio-economiche che hanno portato i cittadini appartenenti a un contesto politico complesso a utilizzare l’espressione artistica come arma di rivendicazione. Con una vibrante scena rap che ha abbracciato l'autenticità, la lotta e l’innovazione. Proprio per questo, la città ha dato vita ad alcuni dei più grandi talenti e capolavori del genere.
Gli anni Novanta sono stati un periodo di profonde trasformazioni sociali ed economiche negli Stati Uniti. Chicago, una città con una storia di segregazione etniche e disuguaglianze socioeconomiche, ha rappresentato uno scenario fertile per l'emergere di nuove voci che cercavano di affrontare queste problematiche attraverso la musica. L'urbanizzazione, la disoccupazione e la violenza nelle strade hanno plasmato le esperienze quotidiane dei giovani, alimentando la necessità di esprimere le loro storie e le loro lotte. Così, durante questo decennio, Chicago ha visto la nascita di una serie di artisti rap che hanno dato voce alle esperienze della città. Uno dei più iconici di questo periodo è stato Twista, noto per la sua abilità straordinaria nel rap veloce. Il suo stile unico lo ha reso un pioniere del chopper rap, termine che si riferisce a uno stile specifico di rap che si caratterizza per l'uso estensivo di chopper flows o chopper- style flows. Questi flussi si contraddistinguono per l'alta velocità e la complessità delle parole, mentre il rapper pronuncia sillabe e parole in rapida successione, spesso sovrapponendole in modo da creare una sorta di fusione sonora. Questo stile è noto per la sua difficoltà tecnica e richiede un notevole controllo della voce e della respirazione da parte dell’artista. Per "chopper" si fa riferimento alle armi da fuoco automatiche o semiautomatiche, quindi nel contesto del rap, "chopper flows" suggerisce un flusso rapido e continuo di parole simile al fuoco di una mitragliatrice. Questo stile è stato, poi, reso popolare da artisti come Tech N9ne, Bone Thugs-N- Harmony e Busta Rhymes. I testi possono trattare di argomenti vari, ma il focus principale spesso è sulla dimostrazione delle abilità tecniche del rapper e sulla creazione di un ritmo frenetico e coinvolgente.
Mentre la scena hip hop di Chicago guadagnava popolarità, è emersa anche una fiorente comunità underground. Gruppi come Do or Diee Psychodramahanno fornito una piattaforma per gli artisti emergenti, offrendo prospettive autentiche e talvolta crude sulla vita nelle strade dei quartieri. Do or Die è un trio hip hop formato da Belo Zero, N.A.R.D., e AK-47, tutti provenienti dal quartiere di Parkway Gardens nella zona sud di Chicago. Il gruppo è diventato noto per il suo stile unico che fonde il gangsta rapcon melodie e tematiche struggenti. Nel 1996, hanno pubblicato il loro album di debutto intitolato Picture This, che ha avuto un grande successo grazie al singolo Po Pimp. Questa canzone ha raggiunto le classifiche e ha contribuito a far conoscere il gruppo a livello nazionale. Nel corso degli anni, il trio ha continuato a rilasciare album e lavori collaborativi con altri artisti, mantenendo una presenza significativa nella scena hip hop della città.
L’originalità e il coraggio dei membri di questi gruppi ha ispirato altri artisti a seguire la strada della musica e a buttarsi in un vero e proprio cypher sociale dove, anche al di fuori del cerchio e delle session, le nuove generazioni di musicisti si contendevano un posto all’interno di ciò che ormai non si poteva più considerare un trend o una fase, ma un vera e propria fortezza culturale: l’hip hop e il rap. Un altro nome di spicco per una delle città più importati dell’Illinois è Common, conosciuto per il suo stile lirico (conscious rap) e la sua voce riconoscibile, l’artista ha scavato in profondità nei temi sociali, politici e personali attraverso la sua musica. Ha sfidato gli stereotipi del rap mainstream, concentrandosi su argomenti come l'identità, l'uguaglianza, l'amore e la vita nelle comunità urbane. Le sue liriche pungenti e il suo impegno a portare alla luce questioni importanti lo hanno reso una figura rispettata nel mondo dell’hip hop. Common ha pubblicato diversi album di successo nel corso della sua carriera, tra cui Like Water for Chocolate, Be e Finding Forever. Il suo stile musicale spazia dall'uso di campionamenti soul e jazz all'incorporazione di ritmi innovativi, creando un suono unico che rispecchia la sua autenticità artistica.
Chicago, a differenza di altre città, è riuscita a sperimentare con l’hip hop e il rap donando a questi molteplici volti grazie al background musicale già presente nel territorio. L'uso creativo del campionamento da parte dei produttori ha consentito di creare beat originali e innovativi. Inoltre, l'influenza della casa discografica Chicago Trax Recordsha contribuito alla fusione di elementi elettronici nella musica rap, contribuendo a uno stile distintivo con influenze house e techno. Non solo, l’underground rap e la street culture hanno avuto un ruolo centrale nell'evoluzione del rap di quegli anni. Le cypher e le jam session hanno consentito agli artisti di mettere alla prova le loro abilità e di condividere le loro esperienze in un ambiente informale. Questi spazi hanno favorito la collaborazione e la condivisione di background culturali diversi, dando vita a un'energia creativa che ha definito gran parte della scena. Inoltre, ha permesso alle comunità non-bianche e spesso povere di creare uno stile di abbigliamento e di attitudine che, in parte, ha concesso a questi gruppi di essere concepiti diversamente da quelli che erano gli stereotipi. Questo fenomeno ha consentito un accesso diretto al mondo dei bianchi americani che con la crescita del rap e dell’hip hop si sono interessati e appassionati a ciò che era distante da loro per motivi etnici e di classe.
Chicago smette di essere la stessa con l’arrivo nella scena musicale e culturale di Kanye West, Elogiato da tutti come visionario, Kanye è riuscito a spingere il rap e l’hip pop oltre a i canoni classici creando un nuovo approccio al modo di fare musica. Tra genio e controversie, Kanye è uno dei personaggi più influenti della scena musicale contemporanea. Nato l’8 giugno 1977 a Atlanta, Georgia, Kanye ha fatto il suo ingresso nel mondo della musica come produttore prima di emergere come uno degli artisti più innovativi e prolifici degli ultimi decenni. L’artista ha guadagnato notorietà come produttore hip hop, lavorando con artisti del calibro di Jay-Z e Alicia Keys.
Tuttavia, è stato con il suo album di debutto The College Dropout nel 2004 che ha davvero lasciato il segno. L'album mescolava abilmente il rap con campionamenti soul e testi personali, offrendo un'alternativa fresca al panorama hip hop dell’epoca. La carriera musicale di Kanye è stata caratterizzata dalla sua costante ricerca di innovazione e sperimentazione. I suoi album successivi, come Late Registration, Graduation e My Beautiful Dark Twisted Fantasy, hanno spinto i confini del genere hip hop, incorporando elementi di musica elettronica, pop e alternative rock. La sua abilità sta nel riuscire a entrare nel mainstream senza mai cadere nel banale, inserendo nel suo repertorio suoni e territori musicali inesplorati. Per questo motivo Kanye viene rispettato nonostante tutto: la sua ricerca non si basa sull’incessante voglia di fare numeri, ma sulla sua volontà di essere eterno. Kanye come altri, nei suoi testi è spesso autobiografico e riflette sulle sue esperienze personali, le sfide emotive e le lotte interiori: tra salute mentale, il rapporto con Dio, l’amore e la perdita mantenendo sempre un tono provocatorio. I suoi testi sono stati lodati per la loro sincerità e profondità emotiva, ma allo stesso tempo sono stati oggetto di critica per il loro contenuto spesso ritenuto controverso. Nonostante sia nato in Atlanta, Kanye è cresciuto in gran parte a Chicago, motivo per cui ha un rapporto speciale con la città. Crescendo nel quartiere di South Shore, Kanye è stato esposto a una varietà di influenze musicali e culturali, influenzando così la sua musica. Come nel resto delle realtà americane, Chicago porta sulle sue spalle una storia complessa tra questioni razziali, sociali e di classe. Queste tematiche sono state spesso affrontate nelle canzoni di Kanye, che ha discusso di argomenti come la discriminazione, l'ingiustizia e l'oppressione, attingendo alle sue esperienze personali e alle realtà della città in cui è cresciuto.
Kanye ha fondato le basi per creare una lunga dinastia di artisti che grazie a lui oggi hanno trovato ispirazione e spazio nell’industria. Chance the Rapper, Vic Mensa, Chief Keef sono solo alcuni dei protégé che la città ha la fortuna di considerare suoi talenti, soprattutto con la nascita della drill: un sottogenere dell'hip hop nato nella scena musicale urbana di Chicago nel corso dei primi anni 2010. Il termine "drill" deriva dal gergo locale, che si riferisce sia all'atto di sparare un colpo di arma da fuoco sia a un contesto di persistente difficoltà socioeconomica e criminale. La musica drill è spesso cruda e realistica, riflettendo le esperienze delle comunità urbane, concentrandosi su temi come la violenza, la lotta per la sopravvivenza e la vita nelle strade. E proprio a causa della sua natura cruda e controversa dei testi, la musica drill è spesso oggetto di critiche e dibattiti. Alcuni accusano il genere di promuovere la violenza e l'atteggiamento antisociale, mentre altri lo vedono come un mezzo di espressione artistica che rappresenta le realtà delle comunità marginalizzate. Un vero e proprio manifesto culturale in cui vengono denunciate le criticità appartenenti al territorio. Chicago è nota per essere estremamente violenta, soprattutto per le sparatorie che da sempre sono le vere protagoniste delle strade. Non a caso la città viene anche comunemente definita Chiraq (insieme tra Chicago e Iraq) per via della presenza di vere e proprie warzone in alcune aree urbane.
L'evoluzione del rap a Chicago dagli anni Novanta fino ai giorni nostri ha segnato un percorso di crescita, cambiamento e impatto culturale profondo. Da un semplice movimento musicale a una potente forma di espressione e protesta, il rap ha riflettuto le dinamiche sociali, economiche e politiche della città. Ma oltre alla musica, il rap a Chicago ha avuto un impatto significativo sulla cultura e sulla consapevolezza sociale. Ha ispirato l'arte, la moda e la letteratura, contribuendo a plasmare l'identità urbana dell’Illinois. Oggi, la musica all’interno della città continua a evolversi, incanalando nuove influenze e sperimentando nuovi suoni. Attraverso l'innovazione artistica, le collaborazioni e l'impegno sociale, il rap continua a dimostrarsi più di una semplice forma di intrattenimento, bensì uno strumento di cambiamento e una voce per le comunità emarginate. Possiamo dire con certezza, dunque, che il rap negli ultimi decenni è stata una dimostrazione vivida di come la musica sia una forza catalizzatrice per la riflessione, la comprensione e la trasformazione sociale.
5. Paul’s Boutique (Brooklyn, 1981 - 2012)
di Simone “Danno” Eleuteri
8min circa
«Noooooow here's a little story, I've got to tell About three bad brothers, you know so well...»
C’è una strada con un palazzo ad angolo che neanche si capisce bene, e c’è un negozio di vestiti usati. Non c’è scritto nulla, neanche il nome del gruppo o il titolo del disco. O meglio, il titolo è scritto sull’insegna del negozio, anzi è proprio il nome del negozio: Paul’s Boutique. Il secondo disco dei Beastie Boys.
Il più difficile di tutti, sia per loro che lo hanno fatto, sia per noi che lo abbiamo ascoltato. Perché prima di quel disco i Beastie Boys erano un altra cosa. Erano quelli che mischiavano il rap col rock, quello facile, quello che chiunque capisce, ed erano quelli che sparavano cazzate in rima come fosse stata sempre ricreazione. Sul palco salivano sbronzi accompagnati da ballerine chiuse in gabbia e un pisello gonfiabile gigante che schizzava birra sul pubblico, non dimentichiamocelo. Erano quelli che avevano insegnato a un intera generazione di pischelli come me che “combattere per il proprio diritto di fare festa” era la cosa più importante da fare nella vita. La formula era tanto semplice quanto vincente. Rime strillate in perfetto stile loud rap, drum machine a palla e chitarroni come se non ci fosse un domani. Vittoria! Fino a un certo punto... perché a seguire bene la loro storia si scopre che l’idea di mettere quelle chitarre sul rap non era tanto loro quanto di Rick Rubin, che aveva costruito per quel disco un suono più “pulito” di quello che sognavano i tre ragazzini bianchi di NY con i catenoni d’oro al collo.
Loro alla fine volevano solo fare il rap, come si faceva nel Bronx, con gli scambi e le routine di rime e tutto il resto. E più si cerca e più si scopre che quelle rime un po’ stupide e un po’ gratuitamente offensive, quella mentalità solo “birra e ragazze”, alla fine a loro tre non bastava, non ci si rivedevano. Che poi in quel periodo non erano tre ma quattro, perché con loro c’era sempre il fotografo Ricky Powell, il quarto Beastie Boys, il Lazy Hustler per eccellenza, un puro dirty New Yorker. Perché i Beastie Boys sono New York a tutti gli effetti. Eppure, per quanto incarnassero al cento per cento lo spirito della Grande Mela e fossero figli di Brooklyn, il secondo album sono costretti a registrarlo nella costa opposta, lontanissimi da casa, a Los Angeles. Paul’s Boutique appunto, il loro disco più difficile.
Io avevo 15 o 16 anni in quel momento e Licensed to Illper me era religione. Volevo essere i Beastie Boys. Riguardavo sempre la foto dentro la copertina dove King AdRock fa quella smorfia con la bocca piegata all’ingiù. Volevo essere così, col cappello storto e la smorfia sulla bocca. Volevo essere Adrock. Quando avevo saputo che stava uscendo il nuovo disco non stavo nella pelle, dovevo averlo subito. Così mi sono fiondato fuori di casa e sono andato al negozio di dischi di Viale Eritrea che ora non c’è più. Ho chiesto se avessero il nuovo disco dei Beastie Boys e dopo un po’ di confusione da parte della commessa mi hanno dato la cassetta. Con quella strana copertina. Col negozio ad angolo, senza neanche una scritta. Ci rimango un po’ cosi a vederla, non era quello che mi aspettavo dopo l’aereo che si schianta, ma va bene, è solo la copertina. Il disco sarà una bomba, ho pensato. Ci sarà un altra Fight for your right, un altra No sleep till Brooklyn, ci saranno altri chitarroni e altre stupide genialità come il pezzo Girls e invece… no. Mi aspettavo, anzi pretendevo un disco come quello prima, ma era completamente diverso. Già a partire dall’intro To all the girls, quasi il contrario di quella Girls ricordata prima. Non capivo. Dov’erano i Beastie Boys che bruciavano le cose nei video e portavano il caos a una festa di nerd? Si ok.. Hey Ladieeessss… ma la verità è che c’ero rimasto male. Non mi piaceva quel disco, non c'erano le chitarre, non c'era quel mix di rock e rap. Non capivo quella copertina e non capivo un sacco di altre cose. Cercavo in tutti i modi di trovare qualcosa che mi riportasse al primo disco ma niente.
Però... però c'erano un sacco di suoni interessanti, maledettamente strani e interessanti per me che avevo ascoltato in tutto si e no quattro dischi rap. Perché quel disco, prodotto dai Dust Brothers, è super collage di qualunque break o sample funk ti possa venire in mente. Un esempio perfetto di musica per B-Boys. Un caleidoscopio musicale che può darti le vertigini. L’essenza stessa del campionamento hip hop. Ci ho messo un po’ per capirlo, non ero preparato. Non conoscevo la musica con cui era stato fatto, i sample originali per intenderci, non ero in grado di cogliere le citazioni e tutti i riferimenti che conteneva. Mi spiazzava e nello stesso tempo tutto di quel disco mi affascinava sempre di più. Ogni volta che partiva una loro traccia c'erano dei suoni che non conoscevo, non capivo neanche che strumenti fossero. C'era un mix di idee folli che però avevano una coerenza incredibile. Non riuscivo ancora a tradurre i testi, ma probabilmente i testi non sono mai stati il punto di forza di Beastie Boys. Il punto di forza dei Beastie è sempre stata quella sana voglia di divertirsi nel fare musica in tutti i modi possibili senza aver paura di niente, neanche di sovvertire la formula che li aveva portati a un successo mondiale. Paul’s Boutique non ha avuto successo quando è uscito, non ha bissato i numeri del primo disco ed è stato considerato dagli “addetti del settore” come un flop. Ma una fenice rinasce dalla cenere e, da quel momento, in poi i Beastie Boys non si sono più fermati.
Hanno preso la discesa liberi e hanno prodotto un disco più bello dell’altro, hanno giocato a fare gli attori realizzando fra i video più incredibili degli anni Novanta e non solo. Basti pensare aIntergalactic o al video di Sabotage, o quello in slow di So whatcha want. In ogni video, come in ogni disco, veniva fuori la loro voglia di divertirsi e di giocare con la musica, e da Paul’s Boutique in poi hanno fatto di tutto: hanno suonato strumenti, hanno campionato, si sono auto campionati, si sono inventati dei finti campionamenti per prendere per il culo i nerd della musica, che comunque non si sono fatti prendere per il culo perché nessuno si mai è accorto di questi finti campionamenti. Sono tornati a suonare punk, hanno fatto dischi strumentali, hanno messo in piedi il Tibetan Freedom Concert, poi sono tornati a fare un rap quasi old school per celebrare la loro città ferita nel 2001 con l’album To The 5 Boroughs. Hanno collaborato con tutti, da Biz Markie ai De La Soul, dai Cypress Hill a Q-Tip a Nas. Se a livello di suono i Beasties hanno provato ogni strada possibile, la cosa che colpisce di più è quanto il loro rap sia rimasto negli anni sempre lo stesso. Identico a discapito delle “ere musicali” che passavano. Mentre tutti i rappers hanno nel tempo aggiornato i flow e le tecniche, loro hanno codificato quello stile old school di rime un po’ strillate, semplice e basico, fino a farlo diventare il loro stile, lo stile dei Beastie Boys. A prova di bomba. E chiunque sia realmente appassionato di musica, non solo di hip hop, non può fare finta che non ci siano stati. Sono venuti a Roma a suonare e noi siamo andati a vederli al Palacisalfa. Doveva esserci il palco che girava ma ovviamente a Roma non girava. Ha girato la nostra testa però, vorticosamente. Sono tornati a Roma poco dopo al Villaggio Globale, un centro sociale. Io non c'ero, avevo la febbre mi sono perso una delle serate più importanti che ci siano stata Roma. Solo loro tre insieme a Mix Master Mike che cuttava i break come un diavolo e loro a fare il rap, basic come alle park jam degli anni settanta. So a memoria tutti i racconti di chi c'era. Ancora rosico.
Paul’s Boutique, il negozio, non c’è più da tanto tempo. MCA ovvero Adam Yauch è scomparso nel 2012 e i Beastie Boys come gruppo non esistono più. Anche Ricky Powell, il quarto Beastie, ci ha lasciato nel 2021 per andare a fumare le sue jazz cigarettes chissà dove. Non penso che suoneranno mai più dal vivo. In qualche modo sembra essere una storia finita. C'è un bellissimo libro e un bellissimo documentario che ricostruisce tutto per chi è curioso.
Ma nonostante in qualche modo sia un capitolo chiuso destinato solo ai ricordi, per me rimane un capitolo sempre aperto. Li suono sempre nei dj set, cerco sempre fra le loro canzoni sperando di trovare pezzi che non conosco o di cui magari non mi ricordo, e ho una profonda gratitudine verso ogni dj che passa i loro pezzi nei suoi set. Perché ogni volta che ascolto un pezzo loro, io continuo a vedere sempre la stessa cosa. Se chiudo gli occhi vedo tre pischelli di New York, uno con una strana smorfia sul viso, che si divertono come dei matti e ridono a crepapelle cazzeggiando mentre danno vita a una musica incredibile.
Lunga vita ai Beastie Boys!
6. Classic hip hop bombage dirty with style progress (New York, 1999 - 2005)
di Koki Flores
7min circa
Un ago di pino secco e un cazzo di sassolino mi sono finiti nella ciabatta destra mentre sto portando fuori Marnè a pisciare, la riproduzione casuale dei miei pezzi preferiti di Spotify, a cui ogni tanto mi abbandono per ascoltare robe vecchie che mi suonano meglio di quelle nuove, decide di mettere su Corn Maze di Aesop Rock. Penso che per un periodo, forse quindici anni fa, Aesop Rock è stato uno dei miei rapper preferiti, con quella sua maniera maniacale di ricercare parole, rime, metriche e immagini, come se fare rap fosse qualcosa di estremamente scientifico e artistico nello stesso momento, come se stesse cercando di inventare la ruota.
In realtà la ruota o qualcosa di simile, Aesop Rock e un gruppo di artisti guidati da un ragazzo bianco e roscio di Brooklyn - con la sua etichetta - la stavano davvero provando ad inventare nei primi anni 2000 da qualche parte a New York: l’etichetta era la Def Jux, il roscio invece El-P, un genio.
Citazione del genio: «This ain’t no made for TV Nursery Rhymes, this is some real we’re-living-in-the-apocalypse music shit», con questa frase brutale e dickiana El-Producto apriva uno dei documentari della Def Jux che potevi trovare nei DVD allegati a qualche compilation dell’etichetta; uno dei suoi tanti slogan/mantra che in poche parole metteva le cose subito in chiaro prendendo una posizione, seria e contro. Ogni tanto mi vado a ripescare su YouTube il documentario solo per sentire inrepeat questa frase con sotto la strumentale di Delorean e sentirmi parte di qualcosa di diverso dalla realtà musicale in Italia nel 2023 e mi sento bene.
Comunque. La mia vita è entrata in collisione con la Def Jux nel 2003. Avevo diciassette anni ed ero andato a giocare alla Play 2 a casa di Jaison con altri amici. Jai aveva trovato il disco piratato di Tony Hawk Underground, quindi lo aveva messo su e ci stavamo giocando. Mentre col joystick facevo trick sullo skateboard che solo alla Play potevo fare, arrivano all’improvviso dalla televisione due note di una sinfonia aliena e due voci che si alternano in un ritornello distopico che in una manciata di parole schiaffa in faccia una ricerca di spiritualità dentro una vita invece meccanica e allo stesso tempo un istinto violento figlio del ghetto, di Harlem. Sembra una supercazzola ma non lo è manco per il cazzo.
Per me quella traccia era la cosa più assurda mai ascoltata fino a quel momento. Era un passo avanti rispetto a tutto quello che avevo incontrato prima, la sentivo mia nonostante io vivessi in una noiosa periferia romana e loro a New York dall’altra parte del mondo. I sogni di strada di Nas e soci mi piacevano ma non erano i miei, a 17 anni senza un soldo in tasca, con mio padre che lavorava in cantiere e mia madre che lavorava per una donna che non lavorava e con tutti i miei mostri in testa, mi rivedevo di più in una narrazione distopica che in quella street. Era la musica di chi stava vivendo un’apocalisse appunto. A 17 ci poteva stare.
Quindi, sono arrivato alla Definitive Jux (questo il nome che ha preso dopo un beef legale con la Def Jam andato male) nel 2003, quattro anni dopo la sua fondazione da parte di El-P e di Amaechi Uzoigwe, tuttora manager di El-P nel progetto Run The Jewels. L’etichetta nasce dopo l’esperienza non idilliaca del leggendario gruppo avant-garde hip hop Company Flow (El-P, Bigg Jus e Mr. Len) con la label Rawkus per la quale avevano pubblicato il monumentale, nonché disco preferito del sottoscritto, Funcrusher Plus. Le cose non erano andate nei migliori dei modi e quindi l’allora ventiseienne El-P decise di fare le cose a modo suo.
L’etichetta indipendente del roscio di Brooklyn non sarebbe mai esistita però senza due personaggi iconici della storia dell’hip hop che tutti dovrebbero conoscere ma non è così e va beh. Stretch Armstrong e Bobbito Garcia, due che con il loro programma radio hanno fatto la storia del rap costruendo un’alternativa ai canali commerciali e pop del tempo ospitando artisti in un primo momento quasi sconosciuti che poi sarebbero diventati delle star, tipo Jay Z, Fat Joe, Big Pun, Eminem, i Wu Tang e tanti altri ma anche artisti di nicchia tipo Godfather Don, Mad Skillz, i Black Moon. The Notorious B.I.G. è passato da loro nel ‘91, un anno prima della firma con la Bad Boy e tre prima del suo album Ready to die per dire.
Stretch e Bobbito sono stati tra i padri del rap contro-culturale, hanno piantato il seme della sperimentazione e dell’avanguardia che tra le tante parti ha germogliato anche e soprattutto nella Def Jux. I due sono stati anche i protagonisti di una delle sere più belle della mia vita a Milano con una selecta stupenda tra rap, funk, salsa ecc… ma è un’altra storia.
Ritornando a Tony Hawk Undergound, dopo il cazzotto in faccia preso da Iron Galaxy, giocando è arrivata Phantom di tale Mr. Lif che non avevo mai sentito nominare (avevo 17 anni, dai) ma che in comune con il pezzone dei Cannibal Ox aveva lo stesso produttore, il roscio di Brooklyn. Una volta fatto 2+2 avevo deciso che tutto quello che c’era della Def Jux doveva essere mio e così in parte fu.
C’era un negozio a Roma vicino Piazza del Popolo, si chiamava DeejayMix e dentro oltre ad un sacco di roba culto techno, hardcore e credo house (generi che non cagavo) c’erano anche alcuni dischi rap di etichette indipendenti tipo Stones Throw, Anticon, Quannum Project e la Rhymesayers.
Labor Days e Fast Cars, Danger, Fire and Knives di Aesop Rock, Dead Ringer di RJD2, I Phantom di Mr. Lif, The end of the beginning di Murs, la compila Def Jux 3 con il DVD coi video, Ravipops di C-Rayz Walz, Black Dialogue dei Perceptionist, erano tutti dischi che ero riuscito a prendere, tutti dischi a cui ancora oggi sono legatissimo insieme a quelli che avevo scaricato da eMule, IRC e Soulseek. Hell’s Winter di Cage non ricordo se lo avevo originale ma comunque ci stavo in fissa. Avevo anche un paio di magliette della Def Jux e quella con lo scheletro con la testa fatta a puntina mi ha portato bene e per uno strano effetto domino della vita è il motivo per cui oggi faccio il lavoro che faccio e scrivo quello che scrivo qui in questa occasione.
El-P aveva pescato in quegli anni tra il 2001 e il 2010 tutti questi ragazzi strani e talentuosi a cui aveva dato una visione hip hop completamente differente da quello che c’era in giro e che forse proprio per questo è stata additata come bianca e nerd, poco hip hop, "poco black". In Italia ricordo ancora gli integralisti di un certo suono che apostrofavano questa musica come “pentolame” per via delle batterie distorte. Tutte cazzate. La Def Jux aveva le radici nei Public Enemy, nella Boogie Down Production, nei Run DMC, negli EPMD, le loro canzoni erano sofisticate ma sporche, avevano una mentalità graffittara, volevano vandalizzare la musica e le sue regole. Come dice la barra di El-P nella traccia We’re Famous di Aesop Rock la loro cazzo di roba era «classic hip hop bombage dirty with style progress».
Forse ‘sta roba dello style progress - insieme a tutti i pipponi sulla distopia che non sto a ripetere - era un’altra delle caratteristiche fondamentali della Def Jux per cui sono impazzito. Forse questa roba dello style progress univa in quel momento nella mia testa New York, una città dove si respira arte (freccia style progress) alla mia Roma di quegli anni, quella dove studiavo al liceo artistico artisti che rompevano gli schemi (ari-freccia style progress). Per me loro erano come me, loro nella loro New York post-11 settembre e io che quel 11 settembre mi sembrava di vivermelo quasi ogni anno. Nel 2023 la mia vera attitudine nelle cose che faccio è ancora così, una classica bombata hip hop, sporca con una ricerca di evoluzione di stile, punto.
Aggiungo una lista di canzoni, una playlist, una compila che avrei fatto per un amico per spiegargli cos’era la Definitive Jux. Non tutte si trovano su Spotify.
Company Flow - DPA (as seen on tv)
Cannibal Ox - Vein
Mr. Lif - Phantom
Cannibal Ox - Pigeon
Aesop Rock - Daylight
Aesop Rock - We’re famous feat. El-P
Aesop Rock - 9-5ers Anthem
DJ Eli feat. Breezly Brewin, Q-Unique, Godfather Don, J-Treds & MF DOOM - Fondle 'Em Fossils
El-P feat. Aesop Rock - Delorean
El-P - Deep space 9mm
RJD2 - Smoke & mirrors
C-Rayz Walz feat. Breezly Brewin, J-Treds, MF DOOM, Thirstin Howl III, Vast Aire, Wordsworth - The Lineup
El-P and Cage - Oxycontin Part 2
Murs & 9th Wonder - Walk like a man
The Perceptionist - Breathe in the Sun
Cage - Stripes
Cage feat. El-P, Aesop Rock, Tame One, and Yak Ballz - Left It to Us
El-P - Tasmanian Pain Coaster
7. There's no place like Virginia (Hampton Roads, 1998 - 2010)
di Federico Maccarrone
8min circa
C’è una storia, tra le tante della Virginia, che merita di essere raccontata e apprezzata, non solo per il modo in cui è nata, ma soprattutto per ciò che poi è diventata per la scena musicale mondiale.
Questa è la storia di un viaggio alla ricerca di pace, di un talent show da cui nasce il progetto The Neptunes, di una casa a Norfolk in cui prende vita il progetto di Timbaland con Missy Elliot e di un duo di fratelli che dà lezioni di rap all’intero globo.
Ma un passo alla volta, perché prima di parlare di quanto la Virginia sia stata fondamentale nella crescita del rap, bisogna comprendere la sua storia socio-economica.
Flashback: la storia di Hampton Roads, il triangolo composto da Virginia Beach, Newport e Norfolk è un romanzo di formazione, il cui primo atto venne mosso dal capitano John Smith, quando nel 1607 sbarca a Cape Henry, situata proprio nel punto di entrata nella baia di Chesapeake, che connette le tre zone citate in apertura. Quest’arco che unisce le tre città risulta fin da subito perfetto come polo commerciale e punto di partenza per l’espansione dei coloni verso l’entroterra.
Vista la sua posizione strategica, la Virginia diventò uno dei centri nevralgici per il traffico di schiavi, ampiamente sfruttati nelle piantagioni dello stato, in particolare in quelle di tabacco. Dal 1661, infatti, venne concesso ai cittadini della Virginia di possedere un certo numero di schiavi, che non avevano alcun diritto e spesso in letteratura vengono paragonati a “cose”. Queste discriminazioni e il razzismo dilagante interessavano l’intera Virginia, arrivando anche ad Hampton Roads.
La rivoluzione industriale portò le città di Hampton Roads a crescere enormemente: le ferrovie trasportavano il carbone attraverso la Virginia fino a Norfolk e Newport, che divennero porti in piena espansione, rendendo Hampton Roads una base navale fondamentale per l’intero stato. Più nello specifico, la zona tra Virginia Beach e Norfolk permise, nel corso del 1800, la crescita anche di un’altra importante industria dello stato: l’industria bellica. In questo spazio, nel corso del tempo, si concentrava gran parte delle basi navali ed aeree della Virginia.
Questo processo portò alla nascita del New South, frutto del nuovo boom economico, che trascinò il Sud nell'era moderna della meccanizzazione e della produzione di massa, incrementando l’attrazione e le possibilità di occupazione per Hampton Roads. L’aumento di richiesta di forza lavoro favorì quindi una crescita dell’immigrazione, soprattutto nell’ambito dei colletti bianchi e blu. I primi erano impegnati nel settore dei servizi, mentre i secondi nelle molte fabbriche presenti nel territorio.
Così facendo, Norfolk diventò, nel 1950, la quinta area metropolitana in più rapida crescita degli Stati Uniti. Wards Corner, l’incrocio più trafficato di Norfolk, era la Times Square del Sud con oltre 60.000 auto in transito ogni giorno, aumentando immensamente il commercio e l’importanza strategica della zona.
Negli anni Ottanta, nella zona di Virginia Beach, la popolazione continuò ad aumentare, ma le disuguaglianze razziali restavano un fattore determinante nella realtà sociale. A quel tempo, più del 60% delle minoranze che lavoravano per la città svolgeva lavori di manutenzione.
Nonostante l’idea diffusa del fatto che Virginia Beach fosse un luogo in cui poter ricercare uno spazio di svago e leggerezza, anche grazie al turismo ormai sfrenato della zona, vari avvenimenti implicarono una necessità di rivedere questa credenza. Il più importante è stato sicuramente il Greekfest del 1989, quando, durante una manifestazione pacifica, diversi Afroamericani vennero arrestati per musica ad alto volume e accuse simili. Questo causò una rivolta sulle note di Fight the Power e numerosi giovani Afroamericani vennero aggrediti e arrestati dalla polizia.
Dopo il Greekfest, la città cercò di creare diversi gruppi comunitari che si concentrarono sulla popolazione minoritaria e sulle relazioni razziali, ma il paradosso è lampante: se da una parte, apparentemente, l’area di Virginia Beach risultava essere un ambiente estremamente moderno e variegato, dall’altra non riusciva a garantire una convivenza egualitaria a livello etnico e socio-economico.
Nonostante questo, Teddy Riley, uno dei produttori discografici più rilevanti per hip hop e pop a quel tempo, si innamorò di Virginia Beach e nel 1990 decise di trasferirsi in questa città per andare con la sua carriera artistica, dopo aver perso gran parte della sua famiglia e dei suoi amici ad Harlem.
Per comprendere di chi stiamo parlando, basta nominare alcuni degli artisti con cui ha lavorato: Michael Jackson, Bobby Brown, Jay Z e molti altri.
Una volta trasferitosi, la sfida più grande di Teddy divenne quella di dare vita ad una realtà artistica che non aveva ancora visto la luce in Virginia. Anche il modo in cui questo è accaduto, però, ha dell’incredibile: nel tentativo di sondare le qualità artistiche di alcuni studenti di una scuola di Virginia Beach, Teddy divenne il giudice di un talent show scolastico.
In questo frangente appare un duo che, a suo dire, spiccava per la totale originalità nel modo di suonare e apparire. Questo duo era composto da artisti che erano la tipica dimostrazione del detto che quando si fa lavoro di squadra il risultato di 1+1 non è più 2, ma 3. Questi due ragazzi erano Chad Hugo e Pharrell Williams, altrimenti conosciuti come The Neptunes.
Ciò che caratterizzava questo duo di producer era la totale trasversalità: per quanto l’impronta fosse profondamente hip hop, il loro suono divenne in grado di attirare a sé, oltre ad artisti del calibro di Snoop Dogg e Nelly, anche numerosi cantanti pop, come Britney Spears, Madonna, Justin Timberlake e molti altri. L’impatto fu tale che nel 2003 i Neptunes vantavano un impressionante record: il 43% delle tracce trasmesse dalle radio statunitensi era prodotto dal duo.
La scoperta dei Neptunes da parte di Teddy portò a un ulteriore effetto domino: Pharrell e Chad inserirono nel circuito discografico anche un altro paio di coppie di artisti che, nel corso del tempo, sarebbero diventate icone della Virginia.
L’arrivo di Teddy aveva fatto accendere le luci su quello che è, insieme ai Neptunes, uno dei principali producer pop e hip hop della storia: Dj Timmy Tim di Norfolk, altrimenti noto come Timbaland. Il producer è figlio di un dipendente dell’Amtrak, compagnia di trasporti ferroviari, e componeva, insieme a Pharrell e Magoo, rapper storico della Virginia recentemente venuto meno, un gruppo chiamato SBI (Surrounded by Idiots).
Nei primi anni Novanta, Timbaland aveva iniziato una collaborazione con una rapper di Portsmouth, figlia di un componente della marina americana. Il nome di quell’artista è Missy Elliot, diventata punto di riferimento per l’intero mondo rap con dischi del livello di Supa Dupa Fly. La sua storia è diventata ormai culto. Anche Timbaland, similmente ai Neptunes, creò un suono talmente riconoscibile da riuscire a produrre artisti del calibro di Jay Z, Aaliyah e Nas negli anni Novanta e lanciandosi definitivamente come producer trasversale nei primi del Duemila, arrivando al pop e alle produzioni da primo posto in classifica Billboard.
Un ultimo tassello di questo puzzle di scena artistica è composto da un rapper di Virginia Beach, il cui nome era Malice, un noto drug dealer della zona. Pharrell, in particolare, rimase colpito dal liricismo e dall’attitude del giovane, tanto da decidere di iniziare a collaborarci. Nonostante inizialmente Malice fosse affiliato a un altro rapper, alle sessioni assisteva anche un ragazzino, il fratello minore di Malice, che era costantemente affascinato dal flow e dai beat cui si stava dando vita. L’attenzione di Pharrell si concentrò proprio su questo adolescente, che si dilettava e provava a creare il proprio stile. Quel ragazzino prese poi il nome Pusha T.
Fu proprio quando i due famigliari decisero di collaborare che si diede vita ad un altro gruppo hip hop che ha insegnato a rappare al globo: i Clipse.
Lo storytelling incentrato sulla vita di strada e sullo spaccio ha reso il duo di fratelli capace di dar vita a Lord Willin’ e Hell Hat No Fury, masterpiece del genere in tutto il mondo. Ancor oggi, Pusha T è universalmente riconosciuto come punto di riferimento per il coke rap e, nel corso degli anni, ha raggiunto lo status di leggenda.
Nel mondo hip hop, questa compagnia di amici è divenuta una delle scene più importanti di sempre, permettendo di creare quello che è diventato in tutto e per tutto il suono della Virginia. Per cogliere come questo sia legato alla realtà economico sociale, serve necessariamente comprendere cosa differenziasse Timbaland e i Neptunes dagli altri producer: il background di influenze che, come dicevamo precedentemente, non si sono mai legati ad un solo mondo musicale, ma anzi hanno acquisito tutti gli input dell’East e West Coast. Così facendo, ciascuno dei citati non era uguale a nessun altro. Questo suono era talmente riconoscibile da rendersi appetibile al rap così come al pop.
Insomma, il melting pot che, da un punto di vista sociale, si era solo parzialmente realizzato nel triangolo di Hampton Roads, ha trovato nella musica di questi artisti una completa espressione, ma Virginia Beach non aveva perso le proprie contraddizioni: per quanto questo territorio sia stato fondamentale per l’hip hop, è stato incapace di creare una vera e propria eguaglianza tra cittadini di diversa provenienza.
E per capirlo, basta fare riferimento ai versi di chiusura di Malice in Virginia, uno dei brani più importanti di Lord Willin’: «La Virginia è per i lovers, ma credetemi: c'è odio qui / Per i cittadini stranieri che pensano di trasferirsi qui / Ironia della sorte, lo stesso posto in cui sto facendo i soldi / È la stessa terra in cui impiccavano i n*****, in Virginia».
Lapidari e taglienti, sintomo di un malessere sociale in cui la musica è stata l’unica, vera vincitrice.
8. To all the killers and a hundred dollar billers (Queensbridge, 1991 - 2017)
di Emanuele Mongiardo
9min circa
Come la maggior parte delle persone, ho conosciuto i Mobb Deep grazie a Shook Ones pt. II, forse il primo pezzo in inglese di cui abbia imparato qualche rima a memoria. Prima ancora di scoprire che il Queens fosse il posto migliore per morire o che ogni rima di Havoc valesse almeno venticinque anni di galera, però, c’era un altro particolare che mi aveva catturato: il rumore del pulsante del gas a inizio brano. Sarà che anche a casa mia, prima di far partire la fiamma, si sentiva lo stesso ticchettio, ma quel dettaglio, ai miei occhi, rendeva ancora più unico il capolavoro dei Mobb Deep. Crescendo, avrei capito che la cucina non era uno sfondo casuale, perché Prodigy non stava mettendo su il caffè per i suoi amici e i fornelli erano tra gli elementi ricorrenti di un certo tipo di rap. Quel suono, allora, diventava ancora più affascinante, rivestiva di ulteriore credibilità il pezzo: Havoc era stato talmente creativo e, al tempo stesso, ancorato alla realtà, da far partire il beat del suo pezzo più iconico col rumore di un fornello su cui forse qualcuno aveva cucinato del crack. Qualche giorno fa, però, in un’intervista concessa proprio per celebrare i 50 anni dell’hip hop, Hav ha confessato che quella del bottone del gas era solo una leggenda: non si sarebbe piazzato col campionatore in una cucina dei palazzoni del Queens, si tratterebbe semplicemente dei piattini di una batteria. Poco male: il fatto di aver camuffato così bene quel suono, fino a crearvi un alone mistico intorno, rimarca ancora di più il suo talento.
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Eppure, alle origini dei Mobb Deep, non era Havoc ad occuparsi delle produzioni, ma Prodigy. I due si sono scambiati i ruoli durante la gestazione di The Infamous, quando hanno dovuto fare di necessità virtù. A condizionare il processo creativo dietro il loro capolavoro, infatti, era stata l’anemia falciforme, la malattia che si sarebbe portato via P a soli 42 anni. Prodigy ha trascorso la sua intera vita tra la strada e gli ospedali. I continui ricoveri lo costringevano a stare lontano dalle macchine, così aveva trasmesso le sue conoscenze in materia di sampling e produzione al suo partner. Havoc, al contrario, ad inizio carriera aveva aiutato Prodigy a sgrezzare la propria scrittura. Il tempo trascorso in cura, aveva permesso a P di affinare le proprie liriche, fino a diventare una delle migliori penne della storia del genere. È nata così la leggenda di uno dei gruppi più longevi e influenti dell’hip hop.
The Infamous ha permesso ai Mobb Deep di ridefinire certi canoni del rap di New York. Prodigy e Havoc erano reduci dal flop di Juvenile Hell, loro disco di debutto. Quell’album poteva avvalersi di produttori illustri come Premier e Large Professor, ma era rimasto anonimo, mancava di originalità ed energia. Dopo il fallimento, l’etichetta, la Island Records, li aveva mollati, ma Hav e P non si erano dati per vinti. A motivarli era stato un altro loro coetaneo del Queens, Nas: Illmaticnel ‘94 aveva stupito tutti, dopo averlo ascoltato i Mobb Deep si erano convinti di quanto fosse necessario migliorarsi e sperimentare qualcosa di diverso. Serviva marchiare in maniera indelebile i propri lavori: «Abbiamo fatto il primo album (Juvenile Hell ndr) a casa della nonna di Prodigy, ad Hempstead, Long Island, lontano dalla crew e lontano da Queensbridge», ha raccontato Havoc. «Tutto ciò era stato tradotto in musica, non eravamo noi». Per rimediare, Havoc si era incaricato delle produzioni e i due si erano chiusi a scrivere e registrare nel Queensbridge, la loro vera fonte di ispirazione.
Il quartiere ospita tutt’ora il più grande complesso di edilizia popolare degli Stati Uniti e, durante l’epidemia di crack degli anni Ottanta, aveva fatto segnare uno dei tassi di omicidi più alti di tutta New York. Quella violenza aveva pervaso le vite di Havoc e Prodigy. I due, ad esempio, si erano conosciuti a scuola, dopo una rissa in cui Havoc aveva rischiato di beccarsi una coltellata.
La carriera dei Mobb Deep è impregnata di tutto ciò che brulica sotto il ponte, dai video sui tetti dei palazzoni, fino ad arrivare allo slang, aldun language, quel fenomeno per cui Hav e P, in alcune parole, sostituivano la ‘s’ con la ‘d’ (per cui, ad esempio, son diventava dun, da cui dun language). Ad ispirarli era stato Bumpy, un loro amico con questo particolare difetto di pronuncia. Il dun language sarebbe diventato un tratto distintivo dei rapper di QB, tra cui Nas o anche Capone-n-Noreaga («So what u rep, dun?/ Dun, the Infamous, QB houses, where niggas stand out all night and make thousands», in collaborazione con Nore, sarebbe diventato uno dei ritornelli più martellanti della carriera di Prodigy)
Queensbridge è stato la musa di alcuni dei più grandi rapper della storia. Nas aveva saputo raccontarlo in maniera poetica, con una prospettiva dall’alto, in grado di restituire la realtà con uno stile più delicato, tipico di chi sa defilarsi per focalizzare meglio ciò che ha davanti. Con i Mobb Deep, invece, il punto di vista rimane del tutto interno, documentaristico: sono in prima linea a combattere il loro personale Vietnam, non c’è spazio per un registro diverso da quello del contesto descritto. Ogni virtuosismo rimane indissolubilmente legato al racconto della strada in prima persona.
Da The Infamous a Murda Muzik, il loro quarto album, Havoc ha saputo condensare il malessere della 41st side in produzioni tanto crude quanto minimali, con i giri di piano trasformati in un sottofondo lugubre. Il sample di Shook Ones Pt. II lo aveva scovato in un vinile di Herbie Hancock lasciato a Prodigy da suo nonno paterno, il jazzista Budd Johnson (la musica apparteneva al DNA della famiglia di P. Suo padre, prima di dedicarsi al crimine, era anch’egli un jazzista, mentre sua nonna aveva aperto una scuola di danza in Jamaica: una sua foto da piccolo, vestito da ballerino, avrebbe dato la stura al dissing di Jay-Z in Takeover). Prodigy, invece, ha trasformato la penna in una delle sue amate armi da fuoco, che gli sarebbero costate la galera tra 2008 e 2011. Poteva essere incredibilmente ermetico e profondo nella singola barra, e al contempo descrittivo fino al più piccolo dettaglio nello storytelling, soprattutto se si trattava di sparatorie e pistole (l’immagine di Quiet Storm, di lui che chiudeva gli occhi spaventato dal rumore le prime volte in cui, da bambino, suo padre lo portava a sparare, è roba da fotoreporter, sembra di averla davanti: «Even my pops too, he taught me how to shoot when I was seven/I used to bust shots crazy, I couldn't even look because the loud sound used to scare me»). Per non parlare, poi, di come sapeva presentarsi sulla traccia: è innumerevole la quantità di rime iconiche in apertura di Prodigy, nessuno sfondava la porta del beat con la sua attitudine («I break bred, ribs, 100$ bills», «I got you stuck off the realness», «There’s a war goin’ on outside, nobody is safe from», «Queens get the money, long time no cash»).
Se la prospettiva dei Mobb Deep si esaurisce al Queensbridge, come spiegare un successo tanto vasto e duraturo? Parte del merito va ai cultori dell’hip hop, a chi è in grado di riconoscere il valore artistico di rime e produzioni: quel suono e quel modo di scrivere sono immortali, rimangono tutt’oggi un punto di riferimento.
Se la discografia dei Mobb Deep vive ancora e genera devozione, però, è merito del sentimento che regge quasi tutto il loro catalogo. Il senso di rabbia trasmesso da Prodigy e Havoc è universale, prescinde da ogni luogo: per chi ascolta, il Queensbridge o le storie dei due protagonisti e dei loro amici possono diventare un pretesto per trasferire nella musica il proprio malessere. Se la minaccia perversa di accoltellare qualcuno con l’osso del proprio stesso naso, in bocca a Prodigy, risulta credibile, per tutti gli altri, invece, diventa metafora di quella rabbia e frustrazione con cui la vita, prima o poi, costringe a confrontarsi e che può trovare sfogo attraverso l’arte. È proprio questa la grandezza del rap, ciò che lo rende unico e che, potenzialmente, collega i projects americani a qualsiasi altro luogo. D’altra parte, alle radici del malanimo di Prodigy non c’era solo l’indigenza del Queensbridge, ma anche la rabbia di un uomo costretto a convivere, fin da bambino, col dolore lancinante della sua malattia (che avrebbe espresso in un brano intimo come You can never feel my pain) e a girovagare tra gli ospedali: «Ero un bambino incazzato a causa dell’anemia falciforme, quindi mi piaceva la rabbia dell’hip hop. È ciò che mi ha attratto del genere, è ciò che mi ha spinto a volerlo fare. Mi ha aiutato sfogare la mia aggressività».
Havoc e Prodigy hanno continuato ad esibirsi fino all’ultimo giorno in cui hanno potuto. P è morto a giugno 2017, poche ore dopo un concerto a Las Vegas: in Catch Body Music, brano di Product of the 80’s, uno dei suoi migliori progetti solisti, sembrava quasi aver vaticinato quella fine («Las Vegas P is at the crap tables/ I'm throwin' G's, and I'm comin' up/ Yeah, show you how to win, show 'em where to begin/ But where you gon' end up is in god's plans»). Il loro lascito, però, resta vivo, anche oltre la carriera solista di Havoc.
La prima stagione di Atlanta contiene una delle scene più divertenti e riflessive dell’intera serie. Alfred-Paper Boi è da poco uscito dal carcere dopo aver sparato a una persona. È seduto al bancone di un fast foode il cameriere, suo grande fan, lo loda definendolo uno degli ultimi veri rapper rimasti – per il fatto di aver premuto il grilletto. Il cameriere si descrive come una vera testa hip hop, e nei suoi ascolti cita Biggie e i Mobb Deep. Oltre lo stereotipo del fan purista o comunque incapace di metaforizzare la violenza, quella scena dà il senso di quanto un certo tipo di rap – quello in grado di colpire con la realtà – coincida con Havoc e Prodigy. La loro attitudine è rimasta unica, ma ha creato tanti figli, anche in Europa, se si pensa a quanto gruppi come Co’ Sang a Napoli o Lunatic a Parigi avessero domesticato quello stile. Per non parlare di come Prodigy abbia influenzato la produzione di un padrino dell’underground newyorchese come Roc Marciano, da cui sarebbe derivato tutto il filone di Griselda e del rap senza batterie. Per quanto riguarda invece me, e, credo, molti altri rimasti solo ascoltatori, il rumore del bottone del gas continua ancora a coincidere con l’apetura di Shook Ones Pt. II, checché ne dica Havoc.
9. Tempo di un refresh al feed (Soundcloud, 2014 - 2019)
di Simone "mosi" Motta
10min circa
Qualcuno ha detto che se guardi dentro l’abisso, l’abisso finisce per guardare dentro di te. Forse era Nietzsche, forse qualche rapper con tatuato crybaby sulla faccia, poco importa.
Fatto sta che per capire il significato più profondo di questa massima parecchio abusata mi ci sono voluti anni di assuefazione da Instagram stories in cui delle treccine colorate dondolavano a ritmo sullo schermo del mio telefono. Dall’altra parte del black mirror c’erano degli artisti miei coetanei che ero convinto abitassero una sorta di metaverso sospeso a metà tra i miei pensieri più intimi e il mio smartphone, che poi sono esattamente la stessa cosa.
Quell’abisso era ovviamente Internet, quel luogo intangibile dalle conseguenze sinistramente tangibili dove abbiamo riversato le nostre paure, i nostri sogni e i nostri segreti più inconfessabili. Ci siamo forse esposti troppo, al punto che tutto ciò che abbiamo dato in pasto al web ha cominciato a prendere una forma, poi un suono ed infine un volto ben preciso. Se internet è l’abisso, la generazione Soundcloud non poteva che nascere lì in mezzo, in quel coacervo di ansie e turbamenti a cui accediamo ogni giorno.
L’era del Soundcloud rap si colloca esattamente a metà tra la fine della Blog Era e l’inizio del dominio incontrastato delle playlist, di Spotify e di Tik Tok. Si tratta di una finestra temporale unica perché rappresenta l’ultimo momento in cui una scena musicale nasceva con la genuinità e l’urgenza di dire qualcosa al mondo mentre tutto intorno diventava incasellabile e quantificabile. La generazione Soundcloud è stata l’ultima che ha avuto la possibilità di crescere off the grid, fuori dai radar delle major e lontano dalla dittatura degli algoritmi.
È difficile inquadrare musicalmente il Soundcloud rap, qualcuno ha scritto che è come la pornografia: lo riconosci quando lo senti. Da un lato c’è il sound etereo del cloud rap e del lo-fi, dall’altro il sound oscuro e gli 808 della trap. Da un lato la malinconia dell’emo rap, dall’altro un nonsense invadente racchiuso in parole chiave ripetute fino allo sfinimento. Da un lato la ricerca della melodia e di ritornelli catchy, dall’altro la ricerca di elementi di disturbo, i bassi distorti e le produzioni grezze. Da un lato è tutto molto rap, dall’altro è tutto molto rock. Forse questo miscuglio di influenze musicali può essere racchiuso dietro la parola punk, o forse è semplicemente il suono di Internet. Fatto sta che tutti questi elementi fanno parte di quella scena fluida e spesso in contraddizione con sé stessa che ha conquistato il mainstream nella seconda metà degli anni Dieci.
Insomma, all’interno del Soundcloud rap gli opposti convivono serenamente: c’è spazio per Lil Pump e per XXX Tentación, per Playboi Carti e per Denzel Curry, per Lil Yachty e per Ski Mask The Slumpgod ma anche per 21 Savage e Post Malone se allarghiamo un po’ il cerchio. Del resto, è pur sempre pornografia. E se internet ci ha insegnato qualcosa è proprio questo: che le categorie sono potenzialmente infinite e che qualcosa che fa vomitare me potrebbe tranquillamente far arrapare qualcun altro, e viceversa.
Ma la pornografia la riconosci soprattutto quando la vedi, e così gli artisti della generazione Soundcloud. Se a livello musicale è abbastanza difficile individuare delle caratteristiche ben precise, a livello estetico i tratti in comune sono molto più evidenti: i tatuaggi sul viso come bandiera da sventolare per indicare la propria squalifica dal mondo del lavoro tradizionale, le treccine e i dread variopinti per dare un po’ di colore ad un’esistenza di grigia solitudine, gli outfit appariscenti con in mostra il nome di un brand di streetwear high-end à la Supreme per gridare al mondo “io esisto”. Elementi estetici che vanno a comporre una vera e propria divisa, un’armatura che ricorda la skin di un videogioco e che rende i rapper di Soundcloud più simili ad un avatar di Fortnite che ad una persona in carne e ossa.
A completare il quadro ci sono le droghe: xanax, percocet, fentanyl, ossicodone e codeina. E poi le armi, i continui guai con la legge e la costante esagerazione messa in mostra via Instagram. A fare da collante a tutto questo c’era il legame viscerale con i fan che attraverso i social commentavano le gesta dei protagonisti in un gioco morboso che contribuiva ad alimentare la prossima follia da postare, il prossimo mosh pit selvaggio in cui buttarsi o il prossimo antidepressivo da ingoiare.
Sembrerà una banalità ma il Soundcloud rap non poteva che nascere su Soundcloud, all’epoca una sorta di selvaggio west in cui si era liberi di caricare i propri brani senza dover passare attraverso l’intermediazione di un distributore. Valeva tutto: canzoni senza una struttura ben precisa, violazioni di copyright e brani di un minuto senza mix. Per di più la piattaforma svedese era qualcosa a metà tra un servizio di streaming e un social network, e questo incentivava lo sviluppo della community.
Per riassumere quel periodo basta dare un’occhiata all’iconica copertina della XXL Freshman Class 2016: Lil Uzi Vert, Lil Yachty, Denzel Curry, Kodak Black e 21 Savage sono i volti del cambio di guardia in atto all’interno della scena USA.
L’anno seguente, il 2017, è quello del picco: dopo il successo del cypher di XXL diversi mediamainstreaminiziano a puntare gli occhi su quello che sta accadendo su Soundcloud, su tutti il New York Times con un articolo che mette sulla mappa la scena made in Florida. XXX Tentación conquista il mainstream grazie al successo di Look at me, Tay-K colpisce nel segno con il controverso singolo The Racee Cole Bennet inizia a spopolare con il suo canale YouTube Lyrical Lemonade al punto che i videoclip con il logo del cartone di limonata giallo-blu diventano sinonimo di viralità.
Nel momento di massimo splendore, però, era già visibile il seme della distruzione. La vecchia guardia denigrava il movimento definendolo "mumble rap" per via della carenza di contenuti e della delivery sbiascicata, le Instagram stories e il buzz intorno ad un artista diventavano sempre più importanti rispetto alla musica, le major da un lato spremevano gli artisti fino allo sfinimento e dall’altro firmavano chiunque avesse una canzone mezza virale e, dulcis in fundo, il rapporto complicato degli artisti con la legge e le sostanze non faceva che peggiorare.
La migliore diagnosi del declino del Soundcloud rap la fa J Cole in un brano (1985: intro to “The Fall Off”) del 2018 in cui parla da fratello maggiore all’esercito dei Lil dai capelli colorati provando a ipotizzare lo scenario catastrofico che li attende nel futuro a breve termine. Oltre a Lil Pump - sicuramente il destinatario principale del brano - c’è un altro artista che racchiude in sé tutte le storture e le esasperazioni di quel periodo: 6ix 9ine. Se è vero che tutta la nuova generazione ha inizialmente beneficiato dell’esplosione della cultura dei meme, è pur vero che artisti come Lil Pump e 6ix 9ine ci sono letteralmente annegati dentro. Il successo ottenuto da personaggi di questo tipo ha portato il mercato a saturarsi velocemente: ogni ragazzino in cerca di attenzioni ha finito per convincersi che bastassero un microfono, un computer e una pisciata fuori dal vaso per diventare famosi.
In questo caos generale, come se non bastasse, accadono tre eventi che spostano velocemente le lancette dell’orologio verso la morte del Soundcloud rap.
Il primo di questi eventi accade a Tucson, Arizona. È il 15 novembre 2017, un mercoledì sera, e un tour bus è parcheggiato nei pressi dello storico locale The Rock. Dentro quel bus muore Gustav Elijah Åhr per via di un’overdose causata da xanax e fentanyl. Per tutti era Lil Peep, la stella incompiuta. Il secondo evento accade Deerfield Beach, Florida. È il pomeriggio del 18 giugno 2018 quando una Bmw i8 di colore nero esce dal parcheggio di un rivenditore di moto. Muore Jahseh Dwayne Ricardo Onfroy per via di un colpo d’arma da fuoco occorso durante una rapina. Per tutti era XXX Tentación, la stella più luminosa. L’ultimo evento accade alla fine del 2019. Questa volta siamo al Midway Airport di Chicago, è la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Una squadra di poliziotti sta perquisendo dei bagagli che si sospetta contengano armi e droga. Muore Jarad Anthony Higgins per via di un attacco epilettico causato da ossicodone e codeina. Per tutti era Juice WRLD, l’ultima speranza.
Nessuno di loro ha vissuto su questa terra per più di 21 anni, ognuno di loro ha segnato irrimediabilmente la storia della Soundcloud Generation decretandone l’inizio e la fine. La morte li ha santificati cristallizzando la loro musica nella storia ma con la loro scomparsa si conclude anche la breve parabola del Soundcloud rap. È successo tutto rapidamente e intensamente. Se era davvero pornografia quello che ci è rimasto è il post-sex blues e un po’ di buona musica. O forse era qualcosa di più: la sofferenza di una generazione che si è fatta urlo liberatorio per poi spegnersi in una morte spettacolare nel tempo di un refresh al feed di Instagram. O forse no. Forse era soltanto un trend, mero esibizionismo, stupido "mumble rap". O forse, quel mumble, quel mugugno che deridevamo, era l’ultimo grido di aiuto soffocato dalla rete?
Rimane un grande forse. Io nel dubbio ho disinstallato Instagram e ho alzato il volume delle cuffiette.
10. Laissez les bons temps rouler (New Orleans, 1992 - 2009)
di Niccolò Murgia
8min circa
Ritmo e improvvisazione. I due principi cardine del jazz raccontano molto dei protagonisti di questa storia e di New Orleans, città madre del suddetto genere musicale. New Orleans è una città duplice: ha una ricca storia ed è un crocevia di culture che unendosi assieme hanno creato un ribollire culturale unico, un po’ come i succhi e le spezie che cuociono nei pentoloni diCajun Seafood, uno dei piatti tipici della città che lascia alle strade della principale città della Louisiana quell’inconfondibile profumo creolo.
Ritmo, quello delle famiglie che tramandano la ricetta segreta del boil per marinare i crostacei; la classica storia di strada che i magazine statunitensi hanno masticato e ri-sputato così tante volte da farla diventare fancy, in una classica storia di gentrificazione dei costumi e delle tradizioni. Improvvisazione, perché non c’è solo la New Orleans della sezione cucina del Picayune, il giornale locale. Anzi, esiste un ghetto bastardo e lercio dove vengono continuati a essere spazzati via i coriandoli del Mardi Gras, l’incredibile carnevale locale. Il classico caso cittadino di polvere sotto al tappeto tra quartieri diversi.
New Orleans, prima di marinare gamberi e astici, è stata lasciata a fermentare in una capsula di Petri a sviluppare tutti i problemi degli Stati Uniti, anni prima, in un diorama che gli statunitensi hanno guardato «fissi dietro il vetro, a bocca aperta», come ha scritto Bianconi una volta. Le analisi sulla capsula di Petri hanno dato questi risultati: razzismo sistemico; l’epidemia – da prima che i giornali della East Coast le chiamassero così – di crack; unità abitative giganti che hanno inglobato palazzi, block e quartieri fino a diventare ghetti e dare a NOLA la corona di spine di capitale statunitense per omicidi pro capite.
Il più famoso di questi complessi abitativi viene chiamato The Magnolia Projects e oltre ad essere ancora incredibilmente rilevante, al punto che anche Playboi Carti, senza averci mai messo piede, gli ha dedicato una delle sue più grandi hit, è anche il posto dove negli anni Sessanta nascono e crescono i fratelli Williams, Ronald e Bryan.
Ritmo e improvvisazione: i fratelli Williams, più conosciuti con i loro aka, ovvero rispettivamente “Slim” e “Baby” che diventerà “Birdman” crescono secondo i dettami del jazz: ritmo e precisione per Slim, sempre attento a tenersi fuori dai casini e improvvisazione per Birdman, attento alle lezioni di Hustlin’ 101 in una rapida escalation di rapine, spaccio e diversi arresti. La colonna sonora è ancora il jazz ma a un certo punto, in tutto questo bordello e scarsa sintonia musicale ecco la blue note. Negli anni Ottanta arriva l’esplosione dell’hip hop e New Orleans, da città musicale, non si lascia sfuggire l’occasione e proprio al Magnolia perfeziona il bounce, uno stile profondamente ritmato che cambierà le sorti musicali di questa città e che continua ad essere influente al punto da essere le fondamenta di alcuni dei brani più streammati degli ultimi anni, come l’iconica In My Feelings di Drake – prodotta dal local BlaqNmilD.
Uscito dal carcere, Birdman decide finalmente di andare a tempo con Slim e cerca un modo di fare business con questa nuova scena locale e nel 1992 fondano Cash Money Records, un nome forse un po’ banale che diventerà epitome del rap negli States. Nel 1992 gli A&R non avevano Soundcloud e le cartelle Dropbox degli artisti, così i due fratelli con ritmo e improvvisazione iniziano a scandagliare tutti i nightclub della Louisiana in cerca di talenti o quantomeno di qualche pazzo disposto a essere cavia del loro progetto. Il punto di forza della loro proposta non erano i contatti discografici o la professionalità – entrambi sarebbero arrivati a breve – ma quelle mazzette di soldi fatte in strada con le quali avrebbero comprato ognuno dei primi gradini della ripidissima scalata in fuga dalla Louisiana che si accingevano a percorrere.
I due fratelli iniziano a firmare rapper, ma la prima transazione di successo arriva con Dj Mannie Fresh, un dj locale che in pochissimi mesi perfeziona il trademark sound di NOLA e di Cash Money rendendo inaspettatamente l’etichetta un cult classic.
Ritmo, quello con il quale Cash Money cresce e che spinge i fratelli Williams a scommettere su un ragazzino di dodici anni con qualche difetto di pronuncia e delle fasce che bendano tutto il torso, il conto chiesto dal proprio corpo dopo un colpo di pistola che si è autoinflitto qualche mese prima. Quel ragazzino rappa meglio di chiunque altro in Louisiana e pochi anni dopo sarebbe diventato se non il più forte rapper degli Stati Uniti, molto probabilmente il più influente. Il suo nome è Dwayne Carter Jr, ma probabilmente lo conoscete come Lil Wayne. Improvvisazione, quella che porta all’idea di unire il giovane Lil Wayne con altri tre promettenti rapper della zona – B.G., Turk e Juvenile – in un gruppo, gli Hot Boys, in onore di una crew sempre del Magnolia. Questa mossa cambia i destini dei fratelli Williams, di Cash Money e dell’intero rap.
I dischi degli Hot Boys – in gruppo e da solisti – sono un successo inedito per il Southern hip hop e opportunities be knockin’, dopo una lunghissima trattativa con Universal Music che ha intravisto qualcosa in un gruppo di thug e sbandati, firmano un deal che cambia per sempre il music business e la traiettoria del rap mondiale. 30 milioni di dollari (!) nel 1998 alla firma per una divisione 80/20 in favore dei fratelli Williams che continuano a tenere i diritti sui master. Per Cash Money questo deal è stato come l’acquisto della Louisiana da parte degli Stati Uniti nel 1803: peanuts in cambio di un sogno, credibilità e una terra promessa.
I thug sono diventati businessman, ma non puoi togliere la Louisiana dal Sud e mentre la vendita dei dischi passa dal retro di pickup a Target e Walmart, gli Hot Boys continuano a diffidare del mondo esterno fuori dalla Louisiana, di quella scena che ha sempre dubitato di loro e per mesi snobbano sessioni con artisti del loro calibro, come Cam’ron, i Clipse e altri.
Continuano ad avere ragione loro: i dischi vanno a ruba, ogni tanto litigano ma c’è sempre un silver lining: nel 2003 Juvenile sbotta contro i fratelli Williams per motivi economici ed esce dalla label. Neanche il tempo di un giro sul battello in un bayou che torna sui suoi passi e confeziona Juve the Great, un disco certificato platino che gli regala la sua unica hit prima in classifica: Slow Motion con Soulja Slim. Il last dance arriva poco più tardi: gli Hot Boys ottemperano il contratto e pubblicano il loro ultimo disco e Juvenille esce definitivamente dagli affari con Cash Money.
Senza Juvenile, Lil Wayne diventa senza dubbi la stella di diamante del Southern rap e dell’etichetta e nel 2004 pubblica Tha Carter, il disco che lo lancia definitivamente nello stardom e lo rende un prodotto riconoscibile in tutti gli States, a partire dai dreadlocks, ormai iconici, che presenta al mondo nella cover del progetto e a finire con quell’accento del Sud diventato culto. Questi ultimi anni hanno cambiato radicalmente Lil Wayne che ha abbandonato la Louisiana per trasferirsi nella Florida (pun intended) Miami, più vicino ad opportunità di business e musicali, avendo ormai superato lo snobbismo nei confronti del resto delle scene hip hop. Il Magnolia pare un lontano ricordo e addirittura Carter apre la sua label, Young Money Entertainment, senza specificare quale sia il rapporto con Cash Money, ma ovviamente indicando un certo grado di separazione.
Dal nulla, tutto cambia nel 2005. Wayne è impegnato in un’intervista a Miami con XXL quando l’uragano Katrina si abbatte con inedita violenza su New Orleans, devastando la città e l’hinterland e allagando il Magnolia, gli uffici di Cash Money e le vecchie case dei fratelli Williams e degli Hot Boys. E così, dopo essere stato un alfiere dei regionalismi del rap USA ed aver vissuto abbastanza a lungo per diventare un prodotto globale, l’uragano cambia la vita di Lil Wayne che torna a New Orleans per dare nuova speranza a una città – mentre paradossalmente Cash Money fa il percorso opposto e si trasferisce a Miami.
Ritmo, Lil Wayne dà vita alla sua celeberrima "mixtape run" che lo porta a pubblicare più di 80 canzoni nel solo 2007 e iniziare ad apparire nuovamente come il rapper del NOLA hood riuscendo a coniugare una sempre maggiore richiesta delle star che vogliono lavorare con lui come Jay-Z e Kanye. Improvvisazione, questo riavvicinamento al mondo del mixtape e dei “bassifondi” musicali sarà cruciale per il futuro di Lil Wayne e di Cash Money. Puzza sotto il naso ormai sepolta da chili e chili di terra del nuovo music business, il rapper più influente al mondo vince, abbastanza a sorpresa le aste per le hot commodities più eccitanti del mercato hip hop di quegli anni: Nicki Minaj (da New York) e Drake (da Toronto).
Provenienti entrambi dal circuito dei mixtape che stava tirando i suoi ultimi respiri, Drake e Minaj sono antitetici rispetto al taglio avuto finora da Cash Money ma in qualche modo ne rappresentano la perfetta sintesi, tra la forte connotazione territoriale e il sogno globale che hanno vissuto.
È il destino di un’etichetta che è diventata grande un po’ per caso, trainata da delle vere stelle e una sorprendente similitudine tra i business di strada e con le major. NOLA sembra essere di nuovo lontana, così come i problemi con Birdman. Ma sia la città – nelle canzoni di Drake – che Birdman – con i famosi problemi contrattuali dei quali in questi paragrafi un lettore attento avrà già trovato qualche flashforward – torneranno a farsi sentire.
Nel frattempo, come dicono in Louisiana:laissez le bon temps rouler. Il rapper più forte al mondo ha appena firmato i due emergenti più promettenti degli ultimi anni – lasciate che i bei tempi scorrano: non potrebbe andare altrimenti.
11. When the TRAP is born (Atlanta, 2003 - presente)
di Tommaso Naccari
6min circa
Se il 2023 è l’anno in cui l’hip hop ha compiuto 50 anni, forse allora è giusto dire che il 2023 è l’anno in cui la trap ne ha compiuti 20.
Per molto tempo ci siamo interrogati su come definire quell’ondata che a onor del vero nasce dal sud e travolge tutti solo in una fase avanzata degli anni Dieci del duemila, forse è più efficace farlo presentando come prova alcuni numeri che dicono che la trap è, semplicemente, figlia.
Così, con i numeri stampati davanti al volto, forse il modo più efficace, anche se narrativamente già consumato ancor prima di venir digitato, è: figlia.
La trap è figlia di ciò che nasceva 50 anni fa a New York, in particolar modo di una delle cosiddette discipline. Se ci pensiamo, del resto, trent’anni di differenza sono un gap d’età abbastanza corretto tra un genitore e la propria prole: abbastanza maturo da essere già adulto, ma anche abbastanza giovane da poter condividere e percorrere insieme una parte importante del percorso. Non è un caso, poi, che le loro città natali siano così diverse: se per lungo tempo New York è stata la patria talvolta addirittura auto-riferita del genere più influente della storia della musica moderna, Atlanta è probabilmente la città che - de facto, almeno nella costa est - si è presa lo scettro di una città che il suo king l’ha tanto cercato e continua a farlo, perché quelli che elegge li perde sempre troppo giovani.
Ma cosa è successo vent’anni fa nella città più importante della Georgia?
Il rap stesso nasce dalle macerie. Non solo quelle sociali, ma proprio concretamente dalla distruzione della musica - mi permetto di scrivere impolverata - dei genitori di chi ha deciso di dare una festa, prendendo, tagliando, macerando e riassemblando la musica che passava per casa. Dalle macerie, non collettive ma personali, nasce anche la trap. Nell’agosto del 2003, fino al 19 per la precisione, T.I. sembra essere uno di quei talenti che tutti hanno visto brillare, possono assicurare che farà grandi cose, ma che la realtà dei fatti restituisce malconcio e goffo, come un Alexandre Pato dopo la palestra qualsiasi. È da sempre considerato uno dei più grandi talenti della sua zona, eppure nonostante promettesse fin dal titolo di fare sul serio, il suo primo disco è stato quello che oggi definiremmo senza alcuna remora un flop.
Così, liberatosi dal suo contratto precedente, T.I. riparte a progettare la pubblicazione del suo secondo album da indipendente. C’è una regola non scritta che dice che il sophomore album sia il più difficile di un artista, perché bisogna confermare ciò che di buono si è fatto con l’esordio. Figurarsi il peso che può esserci sulle spalle di uno che, il primo disco, lo ha cannato completamente. Quello che deve fare dunque T.I., per preparare il suo nuovo disco, è “scendere a patti”. Deve accettare che il suo primo disco è stato un fallimento, ma soprattutto deve scendere a patti con il fatto che fallire vorrebbe dire solo una cosa, tornare indietro. C’è questa storiella, sull’inizio dell’hip hop, che ci racconta che in qualche modo quelle feste nascono per tenersi lontani dalla strada. Negli esordi, dunque, c’è sì la voglia di emancipazione, ma non è sicuramente economica (o almeno non lo è in primis) è comunitaria. Se quindi all’inizio sembrava quasi una provocazione l’associare la nascita del rap e quella della trap, andando ad analizzare le motivazioni della nascita dell’uno e dell’altra ci sono ancora più punti in comune.
Quello all’interno di Trap Muzik a tratti sembra quasi una richiesta d’aiuto, un disperato lamento. Dire che la trap inizia sonoramente nel 2003 è ovviamente un errore (anche se le radici del suono south saranno poi le fondamenta del genere che spopolerà davvero più avanti), ma in uno sforzo retorico possiamo vedere tutto ciò che è trap in questo disco di T.I.
Sia Mark Fisher sia il deejay londinese Kit Mackintosh afferiscono alla sfera del dolore l’uso dell’auto-tune. Uno lo fa analizzando Future e tutti i suoi figli, nonché i latrati che vengono emessi sul beat, l’altro va più indietro, arrivando addirittura in Jamaica, ma vedendo nell’uso massiccio dello strumento più odiato da chi osserva il rap solo superficialmente il tentativo ultimo di disumanizzarsi, astrarsi dal corpo, il vero conduttore di dolore.
Anche Trap Muzik è dolore. È dolore orgoglioso, come I Can’t Quit, una sorta di rivendicazione del suo ruolo nella società (anche se «I want to be a musician, pimpin', not a politician» sembra smentire quanto scritto) che nella scena rap. Ma il fatto che T.I. conosca la realtà delle trap, conosca questa shit - come didascalicamente la chiama nella terza traccia dell’album - esce meravigliosamente in Doin’ My Job, la traccia prodotta da Kanye West.
Jake La Furia diceva di aver fatto il coca-rap prima dei rapper ad Atlanta, riuscendo a essere molto più sintetico di chi scrive nel raccontare qual è l’attitude di una città intera che di lì a poco si prenderà tutto. Però la narrazione del selling dope di questo tipo di coca-rapper, o meglio del primo rapper della trap, non è quella dei Clipse, o più nello specifico di Pusha. T.I. non dice - o almeno non vuole che sia il primo messaggio - che questo suo ruolo nella struttura gerarchica lo renda real. È una trappola, perdonerete il gioco di parole, vera e propria.
«Ay I'm working here, know what I'm saying Try to put yourself in my shoes for a second Its not personal I'm just sayin though»
Immaginate di essere al cenone di Natale, con cugini, cugine e fidanzati vari. Ognuno di loro dice il proprio lavoro: c’è chi gira hamburger sulla piastra per sbarcare il lunario, chi è arrivato a 25 anni con fatica (omaggiando NAS). Bene, se a quel cenone ci fosse T.I., alla domanda: «che lavoro fai?», risponderebbe che vende qualsiasi tipo di sostanza. Ma non lo fa con orgoglio, lo fa perché deve vivere, anche compromettendo la vita sua e della sua comunità. T.I. dirà che non conosce nessuno che fa quel tipo di vita che vorrebbe continuare a farla.
Ma perché, dunque, questo disco è così importante per la storia di Atlanta? Non è solo un’importanza a livello musicale - nonostante quella sia presente. Se guardiamo Atlanta oggi vediamo una città che, come le più grandi, sta iniziando a perdere i suoi migliori frutti, incastrati in una vita che ci eravamo raccontati che il rap avrebbe elevato. Pensate a Young Thug e alla sua sete di potere, pensate a Takeoff che gioca a dadi in un garage.
Trap Muzik è il manifesto più esemplare dell’incomprensione che alberga intorno a una città che è l’emblema di un certo stile di vita. Anche Grandmaster Flash, agli inizi, parlava di messaggio. Certo, alcune di queste possono essere elucubrazioni a bocce ferme, a vent’anni di distanza, però quell’incomprensione così lamentata, l’idea di una gabbia, è qualcosa che - come già accennato - sembra fondamentale per la trap. Il genere, non il luogo.
Voi non ci capite? Allora la nostra musica diventa un lamento e prende l’elemento fondativo del genere (la parola) e lo trasforma, lo distrugge, lo rende altro.Young Thug insegna. Con Trap Muzik, dunque, una città inizia a rivoltare i capisaldi di un genere. Ricordo ancora uno dei primi articoli che appena ventenne scrissi su VICE, urlando al mondo che i trentenni erano vecchi. Ora che meno di dodici mesi mi separano da quel traguardo, mi fa ridere pensare di essere stato così tranchant. Eppure, sono sicuro, che anche Atlanta nel 2003 abbia pensato di quel trentenne chiamato hip hop che era ora di riformarlo. È bastato un po’ di tempo e, alla fine, ha avuto ragione lei.
12. Tear Tha Club Up (Memphis, 1987 - presente)
di Alessandro Quagliata
10min circa
Ho come l’impressione che solo sentire o leggere la parola Memphis crei qualcosa nella testa di chi, per un motivo o per un altro, è affascinato dagli States.
Vi lascio un attimo, prima di iniziare. A cosa vi fa pensare Memphis?
Poi ne sovvengono altre, in ordine sparso, ed è clamoroso che quello che accomuna tutti questi pensieri è l’assenza di una qualsivoglia sfumatura di positività, di allegria, di spensieratezza. Credo che anche in chi legge l’immagine, la persona o l’associazione che mettete accanto a Memphis siano sempre in qualche modo legate ad un immaginario cupo, scuro, anche violento.
Ho scelto di parlare di Memphis e della declinazione che questa città ha dato all’hip hop, ma non tanto perché sia fan del rap che ci ha dato e ci continua a dare questa città. Da 1 a 10 sono fan 6.5 del rap di Memphis: per inclinazione personale non è la mia cosa preferita tra tutte quelle che questa magnifica storia, arrivata ora alla metà di secolo, ci ha dato. Ho scelto però M-Town perché sono sempre stato attratto dal fascino di quelle città condannate, quelle che sono così e sembra che saranno così per sempre, quelle in cui tutte quelle teorie sul determinismo ambientale trovano un vero riscontro («tu individuo sei così perché il tuo ambiente ti ha fatto così», per intenderci) e anche perché, in un modo o nell’altro, è stato un anno in cui mi sono ritrovato spesso a parlare di Memphis con varie persone.
La prima volta è stata con Ernia a ottobre 2022.
Stava per uscire il suo disco Io Non Ho Paura e con Esse e Thaurus avevamo realizzato un documentario di racconto dell’album. Disco scritto per gran parte in un bellissimo viaggio itinerante negli States, che aveva toccato località del Sud spesso dimenticate o snobbate da chi visita gli USA (la Georgia, il Tennessee, il Mississippi, la Louisiana, ecc…).
Per il docu ho parlato molto con Ernia, sia a telecamere spente che accese. Lui viaggia tanto ed é molto bravo a raccontarti i posti che ha conosciuto. Mi diede quindi un ritratto molto preciso di Memphis, che aveva fatto parte del loro tour.
Ho recuperato la registrazione della nostra conversazione.
«Memphis è la seconda città del Tennessee dopo Nashville. Nashville è una città accogliente, luminosa, sorridente, è veramente bellissima, sembra quasi finta. Lì sono dei cowboy felici. Memphis, invece, è l’esatto contrario: una città sporca, imbruttita, con un altissimo tasso di disoccupazione. È piovosa, ci sono sempre le nuvole. È un disastro, è una roba tosta».
Continua: «In Beale Street si riversano da tutti i quartieri. Noi arrivammo lì di domenica ed eravamo gli unici bianchi. Avevamo tutti gli occhi addosso. Erano tutti incazzati, tutti gangsta, tutti! Noi eravamo dei pulcini in confronto, eravamo dei piccoli pulcini. C’erano tante persone fatte: lì va molto la cosa del syrup, con queste siringhe senza l’ago, tipo saccapoche trasparenti. Sono come delle granite che si sparano in bocca ogni tanto».
Memphis non è solo degrado, ma anche tanta musica: «Elvis non è di Memphis ma fin da piccolo vive a Memphis e ha ciucciato un sacco dal blues, dalla Black culture e da tutto quello che aveva intorno. È una città fortemente blues: lo vedi subito, vai nei posti e c’è il tipo che suona, vai nel bar di fianco e c’è la tipa che canta. C’è un palco ovunque».
A New York, due mesi dopo, ho conosciuto James, un ragazzo fotografo di 26 anni che scattava soprattutto in ambito musicale, originario proprio di Memphis. Era molto curioso e allo stesso tempo molto serio, non accennava mai un sorriso. Mi aveva chiesto di raccontargli qualcosa della mia città d’origine e io gli avevo detto che Salerno è una città bella e ‘’spigolosa’’ (ora non ricordo il termine con cui gli tradussi quest’aggettivo, ma in qualche modo ci capimmo), ossessionata dal voler affermare la sua specifica identità rispetto alla rumorosa vicina Napoli.
Lui disse altrettanto di Memphis, aggiungendo una definizione che mi è rimasta impressa: «Memphis è una città condannata». A cosa, gli chiesi. «Noi, lì giù, non sappiamo sognare e sembra che non vogliamo nemmeno farlo. Siamouna città con tanta arte ma senza sogni e senza futuro».
In qualche modo quello che mi ha detto James completava il quadro.
Memphis è una delle città più nere degli Stati Uniti (a seconda dei censimenti si oscilla tra il 65 e il 70% della popolazione, mentre New York è al 24% per intenderci), che vuol dire, per come sono gli Stati Uniti, che è una città molto povera, con un altissimo tasso di disoccupazione e con diseguaglianze laceranti.
Ed è un paradosso che una delle città più nere d’America abbia "ucciso"Martin Luther King, che non è stato ucciso da un nero ma (materialmente almeno) da una di quelle facce da bianco criminale pazzoide così diffuse in America. Ciò non toglie, però, che Memphis si sia sentita toccata nel profondo da questo lutto perché è una città che sente di non essere riuscita a proteggere un uomo e un simbolo che invece andava difeso, eccome.
Quel piccolo grande senso di colpa che non se ne andrà mai per davvero è stato in parte anestetizzato dalla creazione del National Civil Rights Museum, oggi una delle più grandi attrazioni per chi visita la città, situato proprio all'interno del Lorraine Motel, il luogo dove alloggiava Martin Luther King quando fu assassinato.
Tutti questi elementi di contesto ci dovrebbero far capire che Memphis aveva in saccoccia tutti gli ingredienti giusti per far uscire del gran rap:
- tanta Black culture;
- una storia musicale profonda e variegata;
- un contesto socio-economico molto complesso;
- criminalità e comportamenti devianti che si toccano con mano nelle strade;
- un certo gusto per il realismo estremo.
Ed è stato di fatto così, Memphis ha creato una sua declinazione molto interessante di rap, influente soprattutto. Che, per la serie "a Memphis il sole non batte", verrà definito horrorcore.
Come è avvenuto in tantissime altre scene locali, la procedura di esplosione di Memphis nella mappa dell’hip hop ha seguito un iter tipico:
1. un dj nei club crea una vetrina per i rapper locali, portando innovazioni sonore e stilistiche;
2. Le strade e i club del posto pullulano di entusiasmo e cavalcano queste novità;
3. Un gruppo o un rapper nato da questa situazione inizia a fare hit underground per poi prendere anche il mainstream a livello discografico.
Nel caso di Memphis ad assumere il ruolo del primo è stato Dj Spanish Fly.
Negli anni precedenti Memphis era diventato un centro importante per la musica, non soltanto a livello artistico ma anche a livello discografico: grossi studi, etichette indipendenti e satelliti delle principali case discografiche avevano scelto Memphis per via della sua straordinaria floridità musicale. A metà degli anni Ottanta, però, in un momento di flessione, molte di loro chiusero i battenti, lasciando la città sguarnita delle essenziali fonti d’accesso alla discografia ufficiale.
Dj Spanish Fly diventa una celebrità in città e crea una vetrina che prima non c’era: per i rapper locali essere passati da lui nel club ed entrare nelle sue cassette sono un obiettivo fondamentale. Se ci sei puoi essere qualcuno, se non ci sei non sei nessuno.
Memphis sembra insensibile a quello che accade nel resto d’Americae crea uno stile proprio, basato su note cupe, suoni inquietanti e oscuri, bassi profondi, testi tremendamente espliciti.
E poiché l’hip hop non è solo musica, in quegli anni si è sviluppato anche il gangsta walk, cioè un particolare ballo, spesso in cerchio, che somiglia ad una sorta di danza della pioggia hip hop.
Dj Spanish Fly diventa il padre spirituale di tanti aspiranti rapper e produttori e lo sarà anche della cosa più riconoscibile che Memphis ha dato al rap: i Three 6 Mafia.
Il gruppo nei primi Novanta si sviluppa attorno alle personalità di Dj Paul e Juicy J, ma poi si uniranno diversi volti e voci, tra cui quella di una delle prime rapper di successo della storia, Gangsta Boo, da poco tributata anche dalla sensation del momento Ice Spice in un pezzo che porta il suo nome.
I Three 6 Mafia spingono al limite l’essenza violenta e cupa del sound di Memphis: è un circolo che si autoalimenta, perché quella roba nei club e nelle strade funziona e allora loro ascoltano il mercato e la portano all’estremo. Le citazioni ai film horror sono continue e il gusto per il macabro a volte sfiora il "satanismo", tanto da far parlare ancora oggi, ovviamente a vuoto, dei rapper di Memphis come una sorta di setta satanica.
Gangsta Boo, sempre a Hip Hop Evolution, ha addirittura rivelato che ha comprato un manuale di stregoneria per rendere tutto più sinistro possibile nei suoi testi. Tanto, alla fine della fiera, non c’è nessuno a cui rendere conto: il gruppo si autoproduce tutto da solo e vende nelle strade e nei club. Sono prima delle cassette, poi dei veri e propri CD a partire dal primo album ufficiale Mistic Stylez. «Abbiamo investito 45 mila dollari e li abbiamo trasformati in 45 milioni di dollari con Mistic Stylez», dirà a proposito Dj Paul.
I Three 6 Mafia arriveranno a vendere quasi 6 milioni di copie con i loro dischi, ma, almeno di percezione, non raccoglieranno subito il riconoscimento che altri gruppi o altri artisti hanno avuto in quegli anni. La loro influenza, come quella di tutta la città, sarà sempre più forte negli anni a venire. Ad esempio la crunk music, che all’inizio degli anni 2000 diventerà una delle cose più interessanti nel rap, si svilupperà compiutamente ad Atlanta ma nasce negli anni Novanta a Memphis, come spesso rimarcato e sottolineato orgogliosamente dai rapper della città.
Ma anche vari tributi danno ora finalmente credito a quello che è stato il rap di Memphis. Come quello in NO BYSTANDERS di Travis Scott, in cui nella parte iniziale del brano quel «Fuck the club up, fuck the club up»cantato da Sheck Wes è una ripresa piuttosto fedele del «Tear da club up, n****, tear da club up»di Tear da Club Up ‘97dei Three 6 Mafia. Che era letteralmente «fate a pezzi il club», il che ci dice qualcosa di molto interessante su cosa ha portato il gruppo nell’hip hop: un’attitudine al pogo, al casino sfrenato, ad un modo di vivere la musica rap ai concerti in maniera più "rock" e "rage", e di cui oggi proprio Travis Scott è l’esponente più illustre, come abbiamo potuto apprezzare nei due concerti di quest’estate in Italia.
Il rap di Memphis è stata energia pura, espressione "senza scopo", cioè senza troppa ambizione o volontà di cambiare il mondo, che è una cosa davvero "da Memphis", cioè da una città che non vede un futuro diverso o migliore di quello che è il suo presente.
Sulle sponde del Mississippi piove in continuazione: guardando il cielo non speri in un domani migliore. E non speri che domani andrà meglio nemmeno se abbassi lo sguardo e lo volgi sulle strade.
Si ha l’impressione che la musica lì sia quasi l’unica cosa che conta, un modo per anestetizzare un dolore a cui la città – e torniamo di nuovo qui – sembra essere eternamente condannata.
Piove sempre ma non c’è mai silenzio, a Memphis.
Tornando dal mio amico Paul mi azzarderei a dargli arrogantemente una mia definizione del suo luogo natìo: una città nichilista in tutto, capace di distruggere i suoi sogni e anche quelli altrui, perché anche The Dream per eccellenza morì quel 4 aprile 1968.
Nichilista in tutto, appunto, eccetto che in una cosa, perché in questa città si è creata – e si continua a creare – una parte essenziale della storia della musica.
13. Cash rules everything around me (Staten Island, 1992 - ∞)
di Federico Sardo
10min circa
Manhattan, Brooklyn, il Queens, il Bronx: quattro dei cinque distretti (i famosi boroughs) di New York fanno stabilmente parte dell’immaginario collettivo. Ma ce n’è un altro, molto meno conosciuto.
Staten Island è nota principalmente per il battello gratuito che la collega a Manhattan con vista panoramica sulla Statua della Libertà, e agli appassionati di hip hop. Perché, battelli a parte, l’unica cosa che Staten Island mi fa venire in mente sono due parole: Wu-Tang.
Il quinto distretto è un posto in parte borghese e in parte formato da casermoni di edilizia popolare, attraversato da un acceso conflitto razziale: all’inizio degli anni Novanta nella zona di Park Hill le liti e le aggressioni ai neri erano all’ordine del giorno, e nei suoi projects sussistevano, in modo particolarmente violento, i classici problemi delle zone povere statunitensi.
È in questa parte poco conosciuta della città più famosa del mondo che viveva Robert Fitzgerald Diggs, che con il nome di Prince Rakeem (da non confondersi con il Rakim socio di Eric B. e già entrato nell’olimpo) aveva già tentato una carriera sotto l’egida della Tommy Boy, sfociata soprattutto nel singolo Ooh I Love You Rakeem, un pezzo commerciale con un testo da playboy che non aveva raccolto grande successo. Deluso da quell’esperienza per lui stava per cambiare tutto, e anche per la storia dell’hip hop. Cambiato nome in RZA e dedicatosi soprattutto al beatmaking sarebbe presto diventato una leggenda, mettendo per sempre il quinto distretto sulla mappa.
I segreti di quanto successo sono principalmente tre: il talento e le idee innovative legate al sampling e alla produzione, la capacità di creare un immaginario fortissimo, e l’idea di mettere insieme una sorta di supergruppo, con un numero di elementi mai visto prima.
La formazione originale del Wu-Tang Clan (anno di grazia 1992) era composta da RZA, dai suoi cugini GZA e Ol’Dirty Bastard, e poi da Method Man, Raekwon, Ghostface Killah, Inspectah Deck e U-God. Poco dopo si aggiunse Masta Killa (ma altri nomi hanno gravitato intorno alla sigla, in veste di affiliati, a partire da Cappadonna, entrato poi in pianta stabile nella formazione dopo la morte di ODB nel 2004, Killah Priest, e gruppi come Gravediggaz e Killarmy). Rappavano tutti, arrivando anche a essere in otto su una traccia, una cosa mai sentita prima, e anche impensabile da gestire, fino a quel momento. Le produzioni erano di RZA, a volte coadiuvato da qualcun altro, come Method Man e ODB.
Non tutti venivano da Staten Island, ma non importa: il quinto distretto è stato e sarà sempre sinonimo di Wu-Tang. Alcuni di loro, prima del successo, hanno anche lavorato nel ristorante del porto da cui partono i traghetti dei turisti.
Il primo atto della scalata si chiama Protect Ya Neck, e dopo qualche difficoltà per convincere le radio a trasmetterlo, esplode come una bomba grazie al passaparola. La cosa più forte che si possa sentire in quel momento in America è questo gruppo dalla struttura mai vista prima, violentissimo ma stiloso, e soprattutto composto praticamente soltanto da star, una specie di Dream Team in cui tutti sono dei fuoriclasse.
L’album di esordio, Enter the Wu-Tang (36 Chambers), pubblicato alla fine del 1993 dopo un’avventurosa storia di difficoltà con il mondo della discografia e di lavori non troppo regolari per racimolare i soldi necessari a lanciare il progetto, non solo mantiene le promesse, ma le supera oltre ogni aspettativa, rivelandosi uno di quei dischi degni di entrare nella top 5 del rap di tutti i tempi per praticamente qualsiasi appassionato in ogni angolo del globo. Il collettivo non si accontenta di quello che aveva già dimostrato, ma alza la posta: quasi ogni pezzo ha il sapore di una posse track, e le capacità che gli mc avevano fatto intuire si rivelano anche superiori a quanto si potesse immaginare; stimolati da un ambiente creativo in cui ognuno dava il meglio per essere all’altezza degli altri, ogni rapper scrive strofe memorabili nei testi e nel modo di esprimerli, e ognuno lo fa con uno stile personalissimo. C’è il cupo, il malavitoso, il pazzo, il saggio, il supertecnico… Questo è vero non soltanto nel materiale inciso sui solchi, ma anche per quel discorso dell’immaginario cui si accennava in precedenza: una delle intuizioni più geniali di RZA, e di conseguenza di tutto il collettivo, è quella di presentare ogni singolo membro come una sorta di supereroe, con una sua personalità ben definita, e di farlo all’interno di un contesto ancora una volta assolutamente inedito. Tutto il progetto infatti si ispira all’immaginario dei film di kung-fu che guardavano da bambini, e nei testi, nei video, nelle foto, negli echi di pellicole che compaiono qua e là, i vari mc si presentano nelle vesti di guerrieri shaolin, con tutta una filosofia (e un’immagine coordinata) orientaleggiante e ispirata alle arti marziali a corredo — certosinamente studiata da RZA e in seguito testimoniata ai fedeli anche attraverso un paio di volumi.
Ribadiamolo: un gruppo di ragazzi dei projects di Staten Island, l’estetica dei film di kung-fu. Così facendo si allontanano da tutto quello che si era visto prima nell’hip hop, creando un immaginario nuovo, tutto loro, e dall’attrattiva irresistibile (perché la cosa è fatta bene, tanto bene, sia dal punto di vista estetico che da quello più strettamente musicale).
Anche il sampling di RZA, operato pescando a piene mani dal soul in modo grezzo e sporco, è qualcosa di nuovo e diverso, proprio come il flow dei suoi compagni. Lui avrebbe forse anche voluto produrre come i grandi dell’epoca, tipo Eric B. o Rick Rubin, che facevano uso di tantissimi brevi campioni orchestrati in modo complesso per andare a creare qualcosa di nuovo, ma non era facile per un ragazzo che si stava affacciando a quel mondo, e che non sapeva ancora usare bene gli strumenti, al tempo ancora assolutamente analogici. Cominciò allora a lasciare andare i loop più a lungo del normale, facendo fare anche dei giri interi, di diversi secondi, a questi brani soul, ricchi di orchestrazioni, generando un effetto cupo, quasi malinconico, che andava a sposarsi in modo sorprendente con i pattern di batterie sporche, a bassa fedeltà, che creava con la drummachine, ancora una volta utilizzata in modo quasi primordiale. È questo imprevisto matrimonio a caratterizzare il suono del Wu-Tang Clan, il marchio di fabbrica dell’hardcore rap, e qualcosa che a sua volta ha poi influenzato un’infinità di produttori (ne citiamo uno solo: Kanye West).
Ma la leggenda del Clan è soltanto appena iniziata, e da quel primo disco parte una serie di progetti memorabili, un’infilata di album solisti senza pari: tra il 1994 e il 1996 escono in sequenza i dischi di Method Man, ODB, Raekwon, GZAe Ghostface Killah. I primi due sono grandi dischi, gli altri, ognuno a suo modo, capolavori immancabili in qualsiasi lista di dischi rap che si rispetti. Resta il rimpianto per il disco perduto di Inspectah Deck, a livello puramente tecnico forse la penna più brillante di quel gruppo di superstar: sarebbe dovuto uscire nel 1995, questioni discografiche lo fecero rimandare al 1997, ma lo studio di RZA si allagò, e andarono perse centinaia di beat (anche per i dischi solisti di U-God e Masta Killa). Venne rifatto tutto da capo, con produzioni dello stesso ID e partecipazioni di altri rapper, ma uscirà solo nel 1999, privato di una buona dose di magia. RZA sostiene tuttora che l’originale sarebbe stato al livello di Liquid Swords e Only Built 4 Cuban Linx: uno dei più grandi what if della storia del rap.
A proposito di magia, ovviamente uno stato di grazia del genere può durare solo qualche anno, e non tutto quello che succederà nei decenni successivi al Clan sarà memorabile. Ci saranno alcuni ottimi dischi (come il successore dell’esordio — il doppio Wu-Tang Forever — o la colonna sonora di Ghost Doga firma RZA, e vari lavori di Raekwon e Ghostface Killah, che restano ancora oggi tra i migliori rapper su piazza) e ci sarà qualche passo falso, litigi e alti e bassi, una morte pesante e la complicata storia di Once Upon a Time in Shaolin, il disco realizzato in un’unica copia fisica, venduto all’asta e comprato, pare per un paio di milioni di dollari, da uno dei personaggi più spregevoli della storia del capitalismo statunitense (Martin Shkreli, quello che si è arricchito acquistando il brevetto di un farmaco e alzandone da un giorno all’altro il prezzo del 5455%).
Sono tutte storie per cui non basterebbe un’enciclopedia, e qui proprio non c’è lo spazio per occuparsi di tutto. Del resto, negli anni, la mitologia del Clan è stata portata avanti da numerosi libri, saggi e memoir, da uno dei primi marchi di streetwear a nascere da un gruppo musicale (Wu-Wear), perfino da serie tv di fiction (Wu-Tang: An American Saga), e da una splendida docuserie intitolata Of Mics and Men, che seppur non facilissima da reperire vi consigliamo caldamente di non perdere, visto che non solo racconta più o meno tutto, per quanto si possa fare in quattro ore, ma lo fa anche vedere e sentire.
Il fatto, poi, è che stiamo parlando del Wu-Tang Clan in occasione del cinquantesimo compleanno dell’hip hop, una cultura il cui stato di salute è, legittimamente, quantomeno dibattuto. E non mi va di parlare soltanto di quegli anni di gloria senza neanche menzionare il fatto che oggi la situazione è decisamente diversa. Un recente articolo uscito su Detector, a firma Jason England, recita testualmente: «L'ho seguito quasi in ogni fase del suo percorso, e ho visto l'hip hop diventare sempre meno conquistatore e sempre più conquistato. Nella migliore delle ipotesi, è stato assorbito dal mondo – e il “mondo” significa l’Americamainstream. L'hip hop è stato assimilato. E questo ha sempre un prezzo. L'hip hop a cinquant’anni deve scontrarsi con questo prezzo; è in crisi di mezza età. Ha accettato il lavoro corporate, ha comprato la Ferrari, ha lasciato la famiglia ed è passato alle app di appuntamenti. Ha trovato un nuovo pubblico, e va ancora nei club, ma nessuno ha il coraggio di dirgli che forse non è più il bastardo più fico nella stanza. E si è anche piegato al triste cliché di diventare sempre più conservatore man mano che invecchiava».
Se ne può discutere, certo, ma credo che nessuno in buona fede possa quantomeno non cogliere la legittimità di questi dubbi. L’hip hop, se escludiamo il moral panic legato a sue precise diramazioni, non fa più paura a nessuno, nemmeno in Italia. Perfino noi siamo riusciti ad assimilarlo al nostro pop, un’operazione che poteva sembrare impossibile. Ha perso la sua carica sovversiva ed è entrato a far parte del reame dell’intrattenimento. Per immagine, valori, riferimenti culturali, i rapper contemporanei somigliano più a influencer che a GZA o a uno qualsiasi dei suoi sodali.
Ripensare a quel Wu-Tang Clan ci porta distante anni luce da quello che l’hip hop è diventato, ma forse al suo apice artistico ed estetico: i nove tizi in fissa con il kung-fu che sono apparsi sulla scena nel 1992 erano spaventosi, affascinanti, stilosi, pericolosi, veri, ma soprattutto creativi. Parlavano di soldi ma anche di valori, di droga e violenza, di incubi e di sogni, di ideali e di vita, e mai in modo moralista o stereotipato, stupido o banale, ma sempre in modo fico. Sia tecnicamente che esteticamente. Raccontavano quello che vedevano, e non era niente di bello, ma lo sapevano fare con le armi della poesia di strada; con doti di scrittura straordinarie, tali da rappresentare quello che forse è stato l’apice creativo della sottocultura più importante a livello mondiale dell’ultimo mezzo secolo. Forse è da questo che si potrebbe pensare di ripartire, interpretando quell’epopea in modo anche paradossalmente pedagogico; e forse è questo che voleva dire Ol’Dirty Bastard sul palco dei Grammy nel 1998. «Wu-Tang is for the children», e anche per i cinquantenni.
14. Armed N Dangerous (Brooklyn, 2016 - presente)
di Gabriel Seroussi
9min circa
Brooklyn è una città nella città. Fondata ufficialmente nel 1834, Brooklyn era già il terzo centro abitato più popoloso degli Stati Uniti alla fine della Guerra Civile. Poco più di un secolo dopo era in rovina, distrutta da una emorragia di posti di lavoro con pochi paragoni nel paese. Ora è invece un brand globale, una gloriosa e complessa metropoli fatta di quartieri hipster e projects ancora tutt’altro che gentrificati. È in questo miscuglio disomogeneo che è nata e si è sviluppata l’ultima scena artistica rilevante prodotta dal rap newyorkese: la Brooklyn drill.
Il rap americano è stato per i primi quattro decenni della sua storia sostanzialmente impermeabile al mondo esterno. Nel villaggio globale della musica, il rap statunitense esportava sé stesso, il suo sound, la sua estetica ma internamente si dimostrava autosufficiente. New York con il suo ostentato snobbismo era la più intransigente, la più resistente ad ogni agente esterno – anche solo proveniente da altre città americane. Ma all’inizio degli anni dieci qualcosa era radicalmente cambiato.
La tradizionale identità del rap newyorkese aveva perso il suo fascino agli occhi delle nuove generazioni di artisti. Ora il punto di riferimento era diventato un altro: Atlanta. La Grande Mela era costretta per la prima volta nella storia del rap ad accontentarsi di un ruolo da comprimaria. Brooklyn ha subìto così anche lei il ridimensionamento della scena musicale cittadina. Nei primi anni dieci, ad eccezione della mosca bianca Joey Bada$$, il borough più grande della città aveva proposto gruppi spiccatamente underground come i Flatbush Zombie, i The Underachievers o i Pro Era.
Nel 2014 succede però qualcosa. Il primo agosto un ragazzo diciannovenne di East Flatbush pubblica il video di una canzone sul suo canale YouTube. Il ragazzo si chiama Bobby Shmurda e il brano si chiama Hot N*gga. Nell’arco di poche settimane il video diventa virale e Brooklyn sembra avere la sua nuova stella. Ma a inizio novembre, Shmurda viene arrestato e condannato a sette anni di reclusione per concorso in omicidio, spaccio e possesso di armi da fuoco. La brevissima parabola di questo artista è però significativa. Hot N*gga racconta in maniera esplicita il lato più oscuro e violento di Brooklyn, l’autore è un membro attivo della GS9, una gang affiliata ai Crips, e il brano diventa virale anche per la Bobby Shmurda dance, un balletto che il rapper fa durante il video. Hot N*gga non è un brano drill ma è sicuramente l’origine di tutto. Il brano che ha fatto pensare a migliaia di ragazzini di Brooklyn che avessero una storia da raccontare.
Ed effettivamente, le storie non mancavano. Non perché Brooklyn non fosse stata sufficientemente raccontata in passato, ma perché in una città in perenne metamorfosi i cantastorie di ieri risultano oggi già obsoleti. Della Brooklyn anni Novanta, quella entrata nell’immaginario collettivo dell’hip hop, negli anni Dieci era rimasto veramente poco.
Quella Brooklyn era la cosiddetta Black Brooklyn, ossia la parte centro-orientale del borough, un insieme di quartieri omogenei etnicamente e depressi economicamente. Questo territorio è oggi stato eroso da un enorme processo di gentrificazione. Molte comunità sono state costrette a spostarsi in zone sempre meno centrali creando una geografia molto più complessa e variegata.
Nonostante questi cambiamenti, le disparità a livello di opportunità e di qualità della vita tra zone bianche e nere è rimasta ampissima. Poi, nell’ultimo trentennio, Brooklyn è stata anche meta di immigrazione di altre comunità: quella Latinoamericana e quella Caraibica su tutte. La seconda è diventata parte integrante del tessuto della vecchia Black Brooklyn. E, infine, ad essere cambiate sono anche le forme di criminalità. Oggi Brooklyn conta 375 gang attive sul suo territorio, divise in quartieri e affiliate a compagini criminali più ampie come i Bloods, i Crips e i Latin Kings. La capillarità di questo fenomeno a New York è relativamente recente e smentisce la storica specificità della Grande Mela nella scacchiere criminale nazionale.
Bobby Shmurda cresce in questa nuova Brooklyn ed è il primo a raccontarla utilizzando formule lontane dal classico rap newyorkese. Sulle orme di Hot N*gga nasce così una scena artistica che ancora non possiamo definire Brooklyn drill ma che di fatto ne precede l’arrivo. Questa scena non ha una identità sonora e stilistica precisa. Ad unire artisti come Bam Bino, Rah Swish, Money Millz e Curly Savv è più che altro il background: sono tutti giovanissimi gangbangers, affiliati e protetti dalle rispettive gang di appartenenza.
Un altro elemento in comune tra questi artisti a dire il vero c’è: la maggior parte dei brani prodotti da questa scena vengono registrati su type beat trovati su YouTube o Soundcloud. Ed è in questo circuito, tra centinaia di migliaia di produzioni più o meno caserecce, che alcuni rapper di Brooklyn scoprono che dall’altra parte dell’oceano, in Inghilterra, c’è un sound fresco che negli Stati Uniti non ha ancora sperimentato nessuno. Nasce così la fascinazione dei ragazzi di Brooklyn verso la UK drill. Questo sound si sviluppa nei primi anni Dieci in Inghilterra come punto di incontro tra la drill made in Chicago e i sotto-generi classici del rap inglese: il grime e il road rap. Questo strano miscuglio di suoni porta alla genesi di beat cupi, caratterizzati da bass line prodotte con le Drum 808 (quindi molto più potenti), alterazioni nella tonalità delle drum stesse (slides, in gergo tecnico) e delays negli snare (ossia una sorta di eco nei rullanti, potremmo dire volgarmente).
Non è stato però solo merito dell’algoritmo di YouTube se la UK drill ha fatto breccia nei cuori dei ragazzi di Brooklyn. Dalla Jungle, passando per la UK garage, fino al grime e alla UK drill: la black music in Inghilterra è in gran parte figlia dell’immigrazione dalle West Indians, ossia dalle ex-colonie dell’impero britannico nei caraibi. Il ritmo sincopato che contraddistingue questi generi era quindi familiare ai ragazzi di Brooklyn. Quasi la totalità dei pionieri della Brooklyn drill è infatti di origine caraibica. Fin dalla culla, la cultura e la musica caraibica fanno parte della vita di questi ragazzi che, anche solo inconsciamente, ne hanno subìto l’influenza.
E così, nel dicembre 2016, esce il primo brano che possiamo a tutti gli effetti far entrare nella categoria di Brooklyn drill: Suburban di 22Gz.
Gli elementi ci sono tutti: 22Gz è un membro dei Blixky - una gang di Brownsville affiliata ai Gangster Disciples, la produzione è di AXL Beats - un giovanissimo produttore inglese destinato a fare la storia della Brooklyn drill, nel video della canzone i ragazzi ballano il Blixky Twirl - il walk che contraddistingue la loro gang.
Il brano diventa una street hit e modifica le leggi non scritte della hood politics di New York. La drill diventa un terreno di scontro da cui non ci si può sottrarre. Infatti, dopo il successo di Suburban, pressoché ogni gang in conflitto con i Blixky produce un proprio dissing a 22Gz: Kooda B esce con Blixky Funeral, Young Costamado con Folk In The Trunk, Leaf Lzz con No Twirl Zone. Sempre attraverso delle diss track ai Blixky escono fuori anche due artisti fondamentali per l’evoluzione della drill a Brooklyn: Sheff G (con No Suburban) e Fivio Foreign (conBlixky Inna Box). Questi due hanno il merito di rivisitare il flow classico della drill che la primissima generazione di rapper di Brooklyn aveva importato dall’Inghilterra insieme al sound. La Brooklyn drill riesce quindi grazie a loro a maturare caratterizzando la sua identità e conquistando maggiore indipendenza. A mancare, adesso, era solo il salto di qualità a livello di pubblico. Per farlo era necessaria una figura che sublimasse le migliori qualità dei driller di Brooklyn unendole ad una presenza scenica e ad una voce inconfondibili. Il rapper giusto al momento giusto proviene dalla stessa gang di Fivio Foreign (i Woo), si chiama Bashar Barack Jackson, in arte Pop Smoke.
Nel 2019 è grazie a lui che la Brooklyn drill si consacra a livello internazionale. Welcome To The Party e poi Dior, contenuta nel suo mixtape Meet The Woo, sono le hit che trainano in una nuova dimensione.
Chi avrebbe mai scommesso che a risollevare New York dal torpore sarebbe stato un sound prodotto in Europa? Che la Brooklyn di Biggie e Jay-Z sarebbe stata rappresentata da ragazzi affiliati ai Bloods o a iCrips? Che i gangsta walk sarebbero diventati dei trend di Tik Tok?
Eppure la Brooklyn drill, ha dimostrato che tutto questo era possibile. In un rap game ormai pienamente integrato nella distopica industria dell’intrattenimento, i ragazzi di Brooklyn si sono ritagliati il proprio spazio facendo la cosa più semplice di tutte: quello che gli piaceva come gli piaceva, rubando beat onlinee insultando le gang rivali. La ricetta più antica della storia del rap. Un genere musicale che è sempre stato in grado di unire l’infinitamente piccolo con l’immensamente grande rendendo visibili, comprensibili (...e quindi vendibili) storie che senza il rap verebbero dimenticate. Insomma, citando uno dei brani più ispirati del rapper italiano Ensi: Tutto il mondo è quartiere.
15. The Old Groove (Buffalo, 2012 - presente)
di Andrea Signorelli
10min circa
È una delle prime domande che molti farebbero a Westside Gunn: perché – all’inizio degli anni Dieci, quando perfino a New York era stato abbandonato da chiunque aspirasse al successo – hai puntato tutto su un sound così classico, street, quasi da ritorno del boom bap? La risposta del fondatore e mente creativa della Griselda – in una video-intervista rilasciata a Complex assieme ai due soci Conway the Machine e Benny the Butcher – è semplice: «Buffalo non è New York. Buffalo non è mai cambiata».
Da un certo punto di vista, è la risposta più chiara che si possa dare. La città natale dei tre membri storici della Griselda potrebbe essere considerata provincia piena: 270mila abitanti in calo da decenni, attaccata al Canada e dal clima gelido, Buffalo dista più di 600 chilometri dalla Grande Mela e non si trova nelle vicinanze di nessuna importante metropoli statunitense (è però a meno di due ore d’auto da Toronto).
Città tra le più povere degli Stati Uniti (sesta in classifica permaggior percentuale di abitanti sotto la soglia di povertà, circa il 30%) e con interi quartieri in stato di abbandono, Buffalo non è mai stata sulla mappa dell’hip hop nonostante l’incessante lavoro portato avanti dalla leggenda locale Dj Shay (morto nel 2020 all’età di 48 anni). Tagliata fuori dal giro che conta e isolata rispetto ai centri maggiori, non stupisce che i rapper del posto siano rimasti maggiormente legati a un suono del passato.
E questo vale a maggior ragione per un altro aspetto cruciale. Nonostante il loro successo sia relativamente recente, i membri della Griselda hanno un’età che li avvicina più a Nas e ai Mobb Deep che alle nuove generazioni di rapper newyorkesi della Brooklyn drill e dintorni. Conway e Gunn sono classe ’82, Benny è di soli due anni più giovane. Per molti versi, Griselda non ha riscoperto un suono che richiama direttamente i classici di un’epoca precedente: sono loro stessi a far parte di un’epoca precedente e ad averne portato avanti il suono (nonostante Benny the Butcher avesse inizialmente cercato fortune seguendo il sound del momento, come si sente ancora in Tana Talk 2 del 2009).
Vista l’età non più giovanissima, non sorprende nemmeno che, per cercare le origini del collettivo Griselda, si debba andare parecchio indietro nel tempo. In verità, bisogna risalire direttamente alla loro infanzia: Westside Gunn e Conway the Machine sono infatti fratellastri per parte di padre e hanno condiviso tutta la loro esistenza con il cugino Benny the Butcher e il fratello di quest’ultimo, Machine Gun Black (ucciso in un agguato armato nel 2006).
«Dormivamo nello stesso letto, facevamo il bagno assieme. Usavamo gli stessi vestiti. Con loro ho fatto letteralmente tutto», ha raccontato Gunn in un’intervista a The Ringer. «È come se fossimo sempre stati uniti. È per questo che Griselda è così forte, perché non è un gruppo costruito dal nulla (...). Come può il rap o qualcos’altro rompere ciò che ci ha unito per tutta la vita?».
Cresciuti nella difficile zona est della città, l’adolescenza dei quattro segue il più classico dei copioni: rap e spaccio. Attività alle quali Westside Gunn – il più appassionato al mondo della moda e che si distingue anche per i costanti riferimenti all’arte contemporanea – aggiunge quella di designer di abbigliamento. È in realtà proprio da questa attività che nasce il nome Griselda. Per la precisione, Griselda by Fashion Rebels (che si può sentire nelle tag inserite in molti dei loro pezzi): marchio d’abbigliamento fondato da Gunn nel 2005 e che prende il nome dalla narcotrafficante colombiana Griselda Blanco.
Nonostante sia Benny sia Conway (con il nome di Kannon) si stessero nel frattempo facendo un nome nella scena underground di Buffalo, l’unico lavoro dell’epoca facilmente reperibile oggi è una raccolta delle registrazioni eseguite da Gunn tra il 2003 e il 2005: Flyest Ni**ainCharge vol. 1(dove troviamo anche la presenza massiccia degli altri). Al tempo, sembrava insomma che Gunn avesse trovato la sua strada. Il percorso subisce però un brusco deragliamento nel 2006, quando viene arrestato per possesso d’arma da fuoco. Rilasciato nel 2008, finisce di nuovo in carcere meno di 24 mesi dopo.
Uscito definitivamente nel 2011, Gunn ha le idee chiare su cosa vuole fare: essere coinvolto nella musica, ma più nel ruolo di produttore esecutivo che di rapper. Anzi, come “curatore” (termine da lui usato e che richiama il mondo dell’arte). Ed è ovviamente su Conway che si concentrano le sue energie, mentre Benny segue la sua strada in autonomia collaborando col citato Dj Shay.
Anche questa traiettoria deraglia però brutalmente nel 2012. Conway, che al tempo faceva la spola tra Buffalo e Atlanta (una città lontanissima, ma in cui i due fratelli si recavano costantemente via bus fin dall’adolescenza), è di ritorno in città per una collaborazione con French Montana (all’epoca al massimo del successo underground con i Coke Boys). Mentre è al volante subisce un agguato armato: i proiettili lo colpiscono anche alla spalla e al collo, lasciando paralizzata metà del volto.
Come ha raccontato in parecchi dei suoi pezzi (per esempio God Don’t Make Mistakes dall’omonimo album), in quella fase Conway è convinto che la paralisi al volto gli impedirà per sempre di proseguire la sua carriera. Ed è questo, a sua volta, a convincere Westside Gunn a riprendere in mano il microfono: «Se non avessero sparato a Conway non ci sarebbe Westside Gunn il rapper», ha spiegato sempre a The Ringer.
Il rap è però cambiato drasticamente rispetto al 2005, quando crew come la G-Unit ancora dimostravano come fosse possibile avere enorme successo commerciale mantenendo un’attitudine classicamente newyorkese. Nel 2012 non più: la trap è già dominante e il baricentro dell’hip hop si è definitivamente spostato a sud, portando a compimento un percorso che andava avanti già da parecchio tempo.
Westside Gunn sembra però capire una cosa:se tutti vanno nella stessa direzione, inevitabilmente si apre uno spazio per chi decide di andare in direzione opposta. Non trap, non Soundcloud rap e nemmeno nessun’altra sonorità associabile a quegli anni. Ma un suono sporco e minimale, anni Novanta, del quale si occupa fin dall’inizio la persona che diventerà il produttore in-house e ultra riconoscibile della Griselda: Daringer (alle produzioni troviamo comunque già al tempo anche una leggenda come Alchemist, un nome importante dell’underground come Big Ghost LTD e altri).
Oltre al suono, Gunn ha un’altra intuizione. Coerentemente con la scelta musicale, non si cura più di tanto dei numeri, ma punta tutto su una nicchia di appassionati desiderosi di acquistare il merchandising ufficiale Griselda e soprattutto i loro vinili a tiratura limitata, venduti in pochi secondi a prezzi spesso folli.
Nel 2012 esce il primo vero e proprio lavoro della neonata Griselda Records: il mixtape di Westside Gunn Hitler Wears Hermes vol. 1, nome che – pur richiamando ovviamente Il diavolo veste Prada – gli procura critiche delle quali non si cura minimamente, continuando a portare avanti questa saga fino al decimo capitolo dello scorso anno. Nel 2014 esce Physikal Therapy, che segna il ritorno di Conway dopo la riabilitazione. Nello stesso anno anche Benny, che era rimasto sempre attivo in tutti gli anni precedenti, inizia a fare uscire i suoi mixtape per Griselda.
Tra un omaggio a Basquiat e una citazione di wrestling, tra un riferimento all’NBA e gli inevitabili rimandi alla vita da drug dealer (e senza dimenticare gli immancabili adlibs “BRRRRR” e “TUTUTUTU”), inizia la scalata della Griselda verso il successo di critica e tra gli appassionati: una scalata costruita attraverso un numero spropositato di mixtape, progetti collaborativi (tra cui il mini-ep di Conway e Prodigy dei Mobb Deep, punto di riferimento cruciale della crew) e album ufficiali.
Se dovessimo isolare alcuni di questi primi lavori, andrebbero probabillmente citati Flygoddi Westside Gunn (2016), Reject 2di Conway (2015) e un po’ più in là Tana Talk 3 di Benny (2018). In realtà, è complesso individuare pochi precisi album e mixtape, a causa della loro spropositata quantità e della difficile reperibilità dei primissimi. Complesso e forse anche inutile: quello che conta è infatti che la loro impronta, tra il 2016 e il 2018, inizia a farsi sentire in maniera sempre più massiccia, portando Gunn e Conway a firmare per breve tempo con la Shady Records di Eminem, mentre Benny segue Gunn affidandosi alla società di management di Jay-Z: la Roc Nation. Nel frattempo il collettivo si allarga: esce l’album di debutto ufficiale di un’altra artista di Buffalo come Armani Caesar, viene accolto un rapper dotato come Rome Streetz (ottimo il suo Wasn’t Built in a Day con Big Ghost, del 2023) e un nome ormai di fama come Boldy James.
È in questa fase che esce quello che è probabilmente il disco migliore della Griselda: l’album collettivo WWCD(2019), che oltre a rappresentare l’apice del loro suono (merito anche del contributo di un produttore di altissimo livello come Beat Butcha, a cui Daringer si affida massicciamente) mette in mostra le caratteristiche che distinguono i tre rapper.
Per quanto tutti e tre siano sicuramente dotati, è evidente come Conway sia il più tecnico, dotato di un’abilità da mc e punchliner fuori dal comune. Westside Gunn è il più eccentrico, quello che regge le fila creative del progetto e che sembra sentire sempre più stretto il ruolo da rapper (ha infatti annunciato il ritiro: vedremo). Benny è probabilmente il più completo, che unisce le capacità da rapper a quelle di storyteller ed è in grado di dare forma ai progetti più completi. Sono differenze che lo stesso Conway riassume in un paio di barre del pezzo 6:30 Tip Off (2021): «They say West is the brain behind it and Benny is the star / But let's not act like Machine ain't the silliest with the bars»(«Dicono che West è il cervello dietro tutto questo e Benny è la star, ma non facciamo finta che Conway non sia il più malato con le barre»).
Un riassunto perfetto. E che tra l’altro suona come l’incoronazione di Benny the Butcher in quanto elemento dalle maggiori potenzialità. Nonostante un mezzo passo falso come l’album di debutto ufficiale del 2020 Burden of Proof (in cui ha cercato, senza troppo successo, di allontanarsi dal sound classico Griselda), è in effetti evidente come Benny sia probabilmente l’artista più consapevole e a tutto tondo del collettivo, come mostrato soprattutto in un ottimo lavoro come Tana Talk 4 (2022).
Lo stesso non si può dire degli altri due membri storici: Westside Gunn va ormai talmente a briglie sciolte che molti dei suoi lavori sembrano puntare a un’originalità a tutti i costi e fine a se stessa (non aiuta il fatto di appoggiarsi spesso a un produttore particolarissimo come Conductor Williams); mentre Conway, probabilmente nel tentativo di espandere il suo appeal oltre l’underground, ha modificato il suo sound senza trovare però una direzione convincente (come evidente soprattutto nell’ultimo, pessimo, Won’t He Do It).
Nonostante vengano chiamati a collaborare con ogni artista che conta (basti citare Kanye West) e nonostante l’evidentissima influenza sull’underground e non solo, forse il picco della Griselda è insomma già passato. Una cosa però è certa: l’impatto di questa crew sulla scena hip hop mondiale, e il modo in cui hanno riportato in auge un certo tipo di suono e di cura del rap, è destinato, per fortuna, a durare ancora per lungo tempo.
16. I don't do it for the 'gram, I do it for Compton (Compton, 2012 - presente)
di Michele Sugarelli
9min circa
Sorta nel 1888, Compton è una delle città più antiche della contea di Los Angeles. Secondo la leggenda legata alla sua fondazione, il pioniere Griffith Dickenson Compton ordinò che una parte della città venisse destinata all'agricoltura, ponendo così le basi per la creazione dell’area delle Richland Farms, oggi territorio della comunità di cowboy Afroamericani nota come Compton Cowboys. Gli ampi lotti residenziali delle Richland Farms offrivano ai residenti lo spazio sufficiente per crescere e sfamare una famiglia grazie all'allevamento del bestiame.
Per i primi cinquanta anni della sua storia, Compton è rimasto un tranquillo sobborgo a maggioranza bianca, dimora persino della famiglia Bush, anche se per un breve periodo. Nonostante non fosse collocata nel Sud degli Stati Uniti, dove negli anni Quaranta e Cinquanta era ancora in vigore la segregazione razziale e i lasciti della schiavitù determinavano ancora la vita dei cittadini, anche a Compton bande di suprematisti bianchi come gli Spook Hunters terrorizzavano neri e Latini in tutta la contea.
L’emanazione della sentenza della Corte Suprema che nel 1948 aveva sanzionato le pratiche razziste in materia di alloggi e la successiva Rivolta di Watts del 1965, a pochi chilometri da Compton, portarono a una trasformazione demografica della regione negli anni a venire: la popolazione bianca iniziò a diminuire mentre quella delle minoranze aumentò. Le fattorie attirarono le famiglie nere che avevano iniziato a migrare dal Sud rurale; anche se Compton non poteva sostenere attività agricole su larga scala, dava comunque alle famiglie l'opportunità di lavorare la terra. Dagli anni Settanta iniziò l’ascesa delle bande Crips e Blood, fortemente rivali tra di loro, osteggiate e represse violentemente dalla polizia di Los Angeles tanto che nel 1990 Compton registrò un tasso di omicidi incredibilmente alto, pari a quasi 90 omicidi ogni 100.000 abitanti.
In questo scenario, il rap inizia a raccontare quello che avviene nelle strade e quali siano le prospettive di un ragazzo Afroamericano che nasce e cresce a Compton. Gli NWA (Niggaz Wit Attitudes), con il loro disco Straight Outta Compton, nel 1988 raccontano in rima le violenze della polizia e le dinamiche all’interno delle gang, dando inizio a uno dei filoni più longevi e di successo del genere, il gangsta rap.
Soltanto un anno prima, nel 1987, a Compton nasceva Kendrick Lamar Duckworth (KL), che a soli 8 anni, mentre andava con il padre al mercato delle pulci, vide in strada Tupac Shakur e Dr. Dre, impegnati nelle riprese del videoclip California Love.
Il percorso musicale di Kendrick Lamar e il ruolo simbolico che egli ricopre per la comunità Afroamericana lo rendono indubbiamente uno degli artisti più interessanti del panorama rap contemporaneo. Le caratteristiche principali del suo personaggio lo distinguono dagli altri grandi interpreti contemporanei del genere: poco spazio all’apparenza, assenza quasi totale dai social network. Centrale nella sua produzione musicale, soprattutto nei primi lavori, è proprio la tematica del quartiere, Compton, non inteso soltanto come preciso luogo geografico ma piuttosto come una comunità attraversata da razzismo e povertà, dove spesso si finisce in carcere e dove le poche alternative sono le economie illegali e la vita di strada.
«You wore no chain in this game, your hood, your name in this game»
Per Kendrick, però, l’esperienza nel quartiere è stata indubbiamente anche un punto di forza. La sua capacità di ribaltare il gioco del neighborhood assecondando il bisogno di raccontare davvero Compton e la sua gente, attribuisce a Kdot - primo pseudonimo di KL come rapper - quella “credibilità” che pochi artisti della stessa generazione hanno. E non si tratta di street credibility in termini di numero di reati commessi, o anni di carcere vissuti, ma della decisione di mantenere le radici ben affondate nella propria comunità, portando avanti un percorso musicale di successo che diventa simbolo di riscatto collettivo.
La sua musica è un racconto crudo ma al contempo poetico della quotidianità fra i projects, una mad city dove ancora si muore perché neri. Nei suoi dischi sentiamo le voci di autentici personaggi della comunità come quella di MC Eiht, storico rapper di Compton, che compare proprio nel brano m.A.A.d. City, o spezzoni di telefonate con amici e parenti. Molti dei pezzi sono inoltre storytelling di esperienze di strada, vissute da Kendrick e dai suoi amici o dalla sua famiglia, come in Sing About Me, I'm Dying of Thirst, dove Lamar racconta le storie che lo hanno allontanato dalla cultura delle gang e racconta la rinascita spirituale che gli ha permesso di fuggire dalla strada.
Simbolo della vicinanza con il quartiere e i suoi abitanti è l’iconica cover album di To pimp a butterfly, una fotografia photoshoppata che ritrae il rapper insieme ad amici che stringono mazzette di dollari di fronte alla Casa Bianca, con con un giudice bianco morto ai loro piedi. Il percorso musicale che porta Kendrick Lamar a questo disco, un instant classic del genere, prende forza da tanti artisti cresciuti nel suo stesso territorio. Terrace Martin, trombettista jazz e producer, seguì l’intero processo di produzione del disco, coinvolgendo musicisti come Thundercat al basso, Robert Glasper al piano e Kamasi Washington al sassofono.
Il successo dell’album diede linfa vitale alla nuova scena jazz di Los Angeles e non solo, permettendo ai progetti solisti degli artisti citati di ricevere un’attenzione maggiore proprio grazie alla precedente collaborazione con Kendrick.
Lo stesso meccanismo si produsse con tutta la TDE (Top Dawg Entertainment), etichetta indipendente e famiglia musicale di KL, che da metà degli anni Duemila raccolse rapper, producer e musicisti attorno allo studio messo su da Antony Tiffith nella sua abitazione a Carson, a 10 miglia da Compton.
Jay Rock, Schoolboy Q, SZA, Sounwave, Dave Free e altri trovarono un’alternativa alla vita di quartiere nei pomeriggi passati a produrre musica nello studio della TDE e, anche grazie al successo enorme che ebbe KL con i suoi primi due dischi in major, riuscirono a trovare uno spazio rilevante all’interno dell’industria musicale. Un progetto indipendente, legato al territorio, composto da Dawgs - dogs, cani, ma inteso come amici - che spingevano ognuno per la riuscita del progetto dell’altro, questo era la TDE, quasi un unicum nell’industria musicale del tempo e quindi centro di particolari attenzioni e interesse.
Ma la Compton in cui è cresciuto Dot è anche una città fortemente segnata dai riot scoppiati dopo il pestaggio di Rodney King, il primo esempio di violenza della polizia ripresa da una telecamera e mandata in televisione dopo poche ore. Seguirono cinque giorni di rivolta, oltre 2000 feriti, 63 morti e un miliardo di dollari di danni, in un clima in cui le molestie e la violenza da parte degli agenti di polizia nei confronti dei membri della comunità Afroamericana erano pratica quotidiana. Ma il pestaggio di Rodney King e le rivolte di Los Angeles, così come altri episodi di violenze istituzionali e le successive risposte delle comunità razzializzate, sono dirette conseguenze dei problemi sociali che ancora oggi permeano gli Stati Uniti. E di questi problemi si fa megafono la musica di KL, in un percorso che serve all’artista stesso per analizzare il contesto in cui è cresciuto, la violenza sistemica nei confronti delle comunità Afroamericane e il contraddittorio rapporto con il successo economico e la fama, un cambiamento difficile da metabolizzare per un ragazzo cresciuto all’interno di una famiglia repentinamente abituata a entrare e uscire dal sistema di previdenza sociale.
«You hate me, don’t you? You hate my people, your plan is to terminate my culture»
Nel 2014 Kendrick è in Sudafrica per un piccolo tour che lo porta per la prima volta nel continente africano, dove visita Robben Island, l’isola dove venne imprigionato Mandela, e dove ha la possibilità di interagire con la terra originaria della Diaspora Africana. L’incontro con il continente africano e la sua popolazione sono passaggi importanti nel percorso di Kendrick, che riprende la questione in brani come Momma, e accogliendo diversi artisti Sudafricani nel progetto Black Panther, partorito con tutta la TDE e colonna sonora dell’omonimo film Marvel.
Gli omicidi di Travyon Martin, Eric Garner, Mike Brown, Tamir Rice e George Floyd, seguiti dai riot nelle principali metropoli statunitensi, segnano la fondazione e la diffusione del movimento Black Lives Matters. Con il famoso verso «… and we hate popo, wanna kill us dead in the street fo sho’», una delle canzoni cantate nelle piazze, diventata simbolo del movimento, è Alright di Kendrick, prodotta da Pharrel Williams, e il cui ritornello canta «… we gon be alright». Un brano atipico per un contesto in cui si fronteggia la polizia in assetto antisommossa, ma in realtà non è un caso che KL sia stato scelto come rapper simbolo dell’orgoglio e del senso di rivalsa della comunità Afroamericana.
Negli ultimi due dischi Kendrick sposta leggermente il fuoco della narrazione verso un’introspezione meno legata alla comunità e al quartiere. In DAMN è presente un’analisi del rapporto con Dio e con la spiritualità ma non mancano i riferimenti a Compton, come la citazione di Element presente nel titolo di quest’articolo, o prese di parola sul mutato scenario politico americano, che ha visto l’ingresso di Trump alla Casa Bianca.
«We all woke up, tryna tune tothe daily news Lookin’ for confirmation, hopin’ election wasn’t true»
In Mr. Morale and The Big Steppers, a partire dalle sue vicende familiari, Kendrick prova a mettere a nudo le sue debolezze e i suoi traumi: dice chiaramente di non essere il nostro salvatore, di non avere le risposte ai problemi della società americana, di essere percepito come un Mr. Morale, e di non voler ricoprire questo ruolo, mentre affronta ancora tante questioni problematiche della sua esistenza, dal rapporto con l’esposizione mediatica e il successo a quello con le donne. Un percorso di autoanalisi in rima che mette l’ascoltatore di fronte alle stesse domande e contraddizioni che Kendrick, per scelta, non ha il compito di risolvere.
17. Los Angeles is up for grabs (Los Angeles, 2015 - presente)
di Francesco Tirinnanzi
10min circa
L.A. 2015, Kendrick esce con To Pimp A Butterfly e si consacra definitivamente come uno dei migliori liricisti della sua generazione, anche artisti come YG, Schoolboy Q e Nipsey Hussle danno il loro contributo per rappresentare la West Coast in un’industria sempre più saturata dal suono di Atlanta. Tutti i rappers di questa generazione, seppur con grandi innovazioni, mantengono gli stilemi classici ereditati da Dr. Dre e dai grandi del passato, dando alla scena un’identità rinnovata ma sempre ben salda sui binari gettati negli anni Novanta e primi Duemila.
Per le strade però l’aria è cambiata. L’influenza delle gang sulla cultura rimane viscerale ma la figura del gangbanger è completamente diversa. Se prima eravamo abituati a vedere completi khakie Chuck Taylors, ora i ragazzi più giovani ostentano un distaccamento totale da quelli che ormai vengono definiti old nigg*s. Le low riders sono sostituite da auto sportive, preferibilmente esotiche, le Chucks diventano Maison Margiela e le bottiglie di Old English rimpiazzate da double cups di lean. In prima linea a rappresentare questa rivoluzione troviamo Drakeo The Ruler e lo Stinc Team.
Drakeo e suo fratello Ralfy The Plug crescono a South Central su Naomi Ave e 32nd Street negli 100’s, un quartiere controllato da vari set dei Crips. Decidono sin da adolescenti di non affiliarsi, nonostante molti dei loro amici provengano da alcune gang della zona. I due formano una loro crew che inizialmente prende il nome di Too Greedy Family. La TGF è una crew atipica per L.A.: riunisce infatti sotto una stessa bandiera amici sia affiliati che non, talvolta appartenenti a set diversi, ma con uno scopo comune: fare soldi in qualsiasi modo possibile. Tra le varie attività a cui si dedicano, sarà il flockin quella per cui diventeranno più noti. Tipica di South Central, e di L.A. in generale, consiste in furti con scasso presso abitazioni private. La TGF si concentra in particolare sulle comunità asiatiche in quanto solite tenere grosse quantità di denaro e oggetti di valore in casa: nasce così lo Stinc Team. La crew prende infatti il nome dagli odori pungenti della cucina cinese, un vero e proprio omaggio ironico e non troppo velato alle loro vittime.
Sono questi gli anni in cui Drakeo inizia a rappare e da subito si capisce che ha qualcosa di speciale, crea infatti un suo stile unico fatto di metafore e allitterazioni legate da un flow inedito, nonchalant ma allo stesso tempo minaccioso. Questo stile viene battezzato da Drakeo stesso con il nome di “Nervous Music”, in quanto «girare sopra auto da più di 100k con i tuoi nemici che ti cercano per ucciderti è piuttosto snervante». Pippy Longstocking diventa il termine per descrivere le armi con i caricatori estesi. I Meet & Greet con Mei Ling stanno a ricordare le sue attività da flocker. Drakeo non beve lean, Drakeo «mud walks through Neimans» ovvero calpesta le pozze di lean che cadono dal suo bicchiere mentre cammina dentro Neimans & Marcus. Il “lingo bingo”, ovvero lo slang e le metafore presenti nei suoi pezzi sono infinite e indecifrabili per l’ascoltatore distratto, nulla di quello che rappa si ferma al significato più ovvio, in ogni barra c’è un riferimento oscuro o un double meaning da svelare. Drakeo ostenta il suo non essere affiliato, in una scena rap come quella Los Angelina dove lo standard è rappresentare un set godendone della protezione e degli appoggi nell’industria: «we from the Stinc Team and we don’t do big homies». Si dà il nome di Bully Breaker e mette in chiaro la sua attitudine in ogni pezzo: «wake him up, shake him up, chopper make him go Ugh, May Day, man down, I guess he thought he was Suge, run up on Drakeo yeah I wish a n*gga would» rappa in Impatient Freestyle.
È una vera e propria ventata di aria fresca, se ne accorge tutta la città e se ne accorge soprattutto Dj Mustard che si vuole prendere un pezzo di Mr. L.A. Contatta così Drakeo e lo convince a fare un remixdi Mr. Get Dough che con uno street video era riuscita a diventare una hit assoluta nella città. Drakeo a malincuore elimina la strofa del suo socio Ketchy The Great dal pezzo e accetta di procedere con il remix. Questa collaborazione porterà al tape di esordio della sua carriera che verrà rilasciato sotto 10 Summers Records: I Am Mr. Mosely.
È a questo punto però che fa una scelta fuori dagli schemi che lo caratterizzerà fortemente in tutto il suo percorso. Suggerito da suo fratello Ralfy, usa Mustard come trampolino di lancio per una carriera indipendente decidendo di non firmare nessun contratto né con lui né con altre label. Forte del suo stile e della visibilità ottenuta, inizia a rilasciare mixtape in maniera indipendente. La cosa ovviamente irrita Mustard e da qui iniziano le prime ostilità e boicottaggi da parte di alcuni degli artisti affiliati a 10 Summers.
Nulla sembra però fermare l’ascesa di Drakeo che, tape dopo tape, raccoglie sempre più fan e riesce a stringere rapporti con altri emergenti della sua generazione slegati da vincoli con la vecchia guardia. Nascono così i sodalizi con Shoreline Mafia e 03 Greedo. I primi sono un collettivo con un’anima street che però riprende gli aspetti più party e drugged out della vita Los Angelina incatenando hit su hit fino a firmare con Atlantic. Il secondo invece è un rapper di Watts appartenente ai Grape Street Crips con uno stile emo gangsta allucinato e psichedelico che mescola rap più tradizionale a melodie e armonizzazioni assurde su una selezione di beat inusuale per gli standard californiani. Queste collaborazioni con gli altri protagonisti della nuova scena di L.A. servono a cementificare la posizione di Drakeo e dello Stinc Team come innovatori assoluti e soggetti con cui fare i conti per chiunque si approcci al rap della costa Ovest.
Marzo 2018, l’ascesa subisce uno stop improvviso: Drakeo viene arrestato con l’accusa di omicidio in relazione all’assassinio di un’OG degli Inglewood Families Bloods (IFGB) avvenuto nel 2016. Dodici membri dello Stinc Team, compreso suo fratello, vengono arrestati con lui. Le accuse sono gravi, il District Attorney ritiene Drakeo mandante dell’omicidio e lo vuole inchiodare come leader di una gang, identificando lo Stinc Team non come un crew di artisti ma come una vera e propria organizzazione criminale. Per le leggi relative alle gang vigenti in California, se confermata questa tesi, Drakeo rischierebbe la pena di morte.
Durante la carcerazione riesce a registrare un album intero tramite il servizio telefonico carcerario: Thank You For Using GTL. Viene definito da Pitchfork come il miglior progetto della sua carriera e il miglior album mai registrato da un’artista in carcere. A questo risultato si affianca anche un evento tragico, il 31 marzo 2019 Nipsey Hussle viene ucciso davanti al suo negozio su Slauson Ave. L’incidente colpisce Drakeo che in una lettera menziona per la prima volta la volontà in caso di scarcerazione di spostarsi definitivamente da Los Angeles in quanto vede nell’accaduto una dimostrazione chiara che la città non rispetta nessuno.
Dopo 3 anni, di cui 18 mesi spesi in isolamento e un retrial, il processo si arena e Drakeo è convinto dai suoi avvocati ad accettare un plea deal proposto dal nuovo District Attorney per salvarsi dal braccio della morte.
«The D.A. wanna fight me at the trial ‘cause I beat ‘em, all 12 jurors NOT GUILTY n*gga BEAT IT»
Novembre 2020, Mr. Mosely a sorpresa è fuori. I fan non ci speravano più, Drakeo non perde tempo e si chiude in studio. Nell’anno che segue rilascia i progetti più importanti della sua carriera, la selezione dei beat è immacolata, le punchline assassine, il suo flow è ancora più gelido e minaccioso, non risparmia nessuno dei suoi nemici sia nell’industria che nella strada. I suoi vecchi collaboratori non ci sono più: 03 sta scontando una pena di 25 anni in Texas e gli Shoreline Mafia si sono sciolti. La musica di Drakeo ha però ispirato una generazione di nuovi artisti Californiani che lo hanno preso come riferimento: Bris, Young Slo-Be, DaBoii, R3, Zoe Osama, Tru Carr, i Blue Bucks e molti altri sono cresciuti con lo Stinc Team e il loro modello di business indipendente. Il co-sign definitivo arriva quando Drake gli regala un beat ed un ritornello con due strofe aperte. Un featuring di tale portata per qualsiasi artista è un game changer, per Drakeo è l’ennesima conferma che la vecchia guardia ha fatto il suo tempo e che piaccia o no è il momento di aprire le porte alla nuova L.A.
Nonostante il successo, Drakeo non sembra in grado di scrollarsi di dosso le street politics. Ogni occasione è buona per provocare e lanciare minacce più o meno velate, sembra che l’isolamento, i beef ed il boicottaggio che percepisce da parte dell’industria abbiano preso ormai il controllo dei suoi pensieri.
Nel febbraio 2021 Ketchy The Great perde la vita in un incidente stradale ed i nemici dello Stinc Team accolgono la notizia con esultanze e celebrazioni. Il beef si fa sempre più teso e Drakeo decide di mettere tutti a tacere una volta per tutte, registra un pezzo e fa subito uscire un video di accompagnamento: IngleWEIRD. A Los Angeles la parola “weirdo” non ha l’accezione di “strano” ma è considerata un insulto al pari di “mark” o “buster” ha il significato di impostore, fake – nell’ambiente dei gangbangers è ritenuta un’offesa che rivolta a qualcuno ha solo un tipo di ripercussione. Il brano è un dissing aperto a tutta Inglewood e su Instagram iniziano a circolare messaggi dove alcuni OG degli IFGB dichiarano la no fly zone per lo Stinc Team in città.
La fama di Mr. Mosely continua ad aumentare tant’è che riesce a fare un tour sold out in onore di Ketchy e finalmente suona davanti ad un pubblico di decine di migliaia di persone al Rolling Loud di Los Angeles 2021. La scena è quella dell’incoronazione: tutto lo Stinc Team è sul palco e Drakeo sorridente dichiara definitivamente che è il momento di mostrare al mondo la vera LA.
Dicembre 2021, Once Upon A Time In L.A. Festival, Drakeo è nella line up, arriva poco prima dell’orario dell’inizio del suo set con una decina di persone, insieme a lui inseparabile anche suo fratello Ralfy. Mentre il gruppo si avvia verso il palco arriva sul luogo dell’evento YG, anche lui previsto nella line up della serata. Insieme a YG entrano circa settanta persone che provano a strappare la catena ad un membro dello Stinc Team. Parte una colluttazione con Ralfy e Drakeo in prima linea.
È il caos.
Per i presenti la scena che si sviluppa poco dopo è raccapricciante, Drakeo è stato colpito al collo con un’arma da taglio, continua a difendersi e ad allontanare gli assalitori ma alla fine, sfinito, è costretto ad accasciarsi a terra. L’evento viene immediatamente annullato.
Drakeo The Ruler morirà in ospedale 4 ore dopo l’incidente, vittima di un assassinio organizzato. È la prima volta nella storia della musica rap che un’artista perde la vita ad un proprio concerto.
Inizio 2023, Ralfy ha preso in carico l’eredità dello Stinc Team e in un anno rilascia più video e progetti di qualsiasi altro artista in California. 03 Greedo, dopo aver scontato cinque dei 25 anni per cui era stato condannato, viene scarcerato a sorpresa. Nella prima intervista che rilascia, quando si menziona Drakeo ed il modo in cui è scomparso, si fa serio e insiste nel voler cambiare discorso in quanto non è ancora riuscito a metabolizzare la tragedia per la dipartita del suo Evil Twin. Nonostante il boicottaggio dell’industria nei confronti di un’artista così innovativo ma allo stesso tempo così controverso, 03 continua a rendergli omaggio in ogni intervista che rilascia fino a culminare con un vero e proprio tributo nei suoi primi due show di ritorno sulla scena. Invita sul palco Ralfy a performare alcune strofe del fratello regalando ai fan sia un momento di chiusura che l’inizio di una nuova era, dove l’aura di Drakeo continua ad aleggiare fredda e minacciosa su tutta L.A.
Quella sera di dicembre 2021 L.A. ha perso uno dei suoi più grandi innovatori, uno street rapper con un immaginario, una tecnica, un flow ed una delivery che si erano completamente slegati dallo stereotipo che ha dominato il suono Westnegli ultimi trent’anni. Un artista che avrebbe finalmente dato alla città l’occasione di essere nuovamente un polo centrale di riferimento per la cultura hip hop.
LONG LIVE THE RULER
18. Soulquarians (1997 - 2001)
di Marta Blumi Tripodi
8min circa
Se siete appassionati di fotografia hip hop, vi sarà senz’altro capitato di imbattervi in uno scatto ormai iconico. Fu pubblicato per la prima volta sul numero di settembre 2000 di Vibe – altrettanto iconica rivista di musica e Cultura Black fondata da Quincy Jones – ed era una foto di gruppo che ritraeva una serie di musicisti, rapper e produttori di belle speranze. Alcuni erano già famosi, altri meno, altri ancora forse non lo sarebbero mai diventati davvero; non condividevano la stessa crew, provenivano da città e realtà lontanissime tra di loro e formalmente non facevano neppure lo stesso mestiere. Ad accomunarli tutti però, oltre a una grande amicizia, c’era un senso dello stile e del sound che si distanziava nettamente dai canoni dell’epoca, dominati da look futuristici e sonorità sintetizzate. Nell’ordine, da sinistra a destra, l’immagine immortalava i rapper Talib Kweli e Mos Def (oggi noto anche come Yasiin Bey); il polistrumentista e membro dei Roots, James Poyser; la diva del neo-soul Erykah Badu; il geniale batterista, produttore, divulgatore e fondatore dei Roots, Questlove; il soulman per eccellenza D’Angelo; il rapper e fondatore degli A Tribe Called Quest, Q-Tip; il cantante R&B Bilal; e in prima fila, accovacciati davanti ai soci, il rapper Common e il compianto super produttore J Dilla. Tutti insieme formavano i Soulquarians, un collettivo che, dopo aver eletto Questlove a capitano di tutte le operazioni, si prefiggeva lo scopo di portare avanti una sperimentazione costante e avanguardistica in termini di contaminazione. Più di tutto, però, aveva un obbiettivo: abbattere i confini tra i vari sottogeneri della musica black e hip hop.
All’epoca la distinzione tra una branca e l’altra della materia era nettissima, non tanto in termini di fan base e collaborazioni – chi ascoltava rap tendenzialmente non disdegnava neanche l’R&B, il soul e il jazz, e capitava spesso che i membri delle rispettive scene si incontrassero per qualche featuring – quanto in termini di approccio al lavoro. Alla fine degli anni Novanta, ad esempio, era molto raro che i rapper si presentassero sul palco con una vera e propria band, e anche durante le registrazioni o le session di scrittura in studio la presenza di strumentisti non era proprio contemplata. I pochi che avevano provato a muoversi in tal senso, come Guru dei Gang Starr con i suoi progetti targati Jazzmatazz, non erano mai riusciti a sfondare a livello commerciale e di immaginario. L’unica eccezione davvero rilevante fu Lauryn Hill, che rappresenta benissimo il famoso esempio del calabrone che teoricamente per via della sua conformazione fisica sarebbe inadatto a volare, ma siccome non lo sa vola lo stesso. Sulla carta, un progetto che avvicinava i fan dell’hip hop a quelli della musica nera suonata era ritenuto fallimentare, ma dopo il travolgente e spontaneo successo di The Miseducation of Lauryn Hill(20 milioni di copie vendute nel mondo, dieci nomination ai Grammy Award di cui cinque vittorie) aveva dimostrato che far coesistere più dimensioni non era un’utopia. Forse, se non si fosse ritirata nel suo eremo e avesse continuato a lavorare in quella direzione, oggi staremmo scrivendo una storia diversa, fatto sta che dopo il clamoroso exploit del 1998 decise di non dare mai seguito a quel disco e di pubblicare un semplice MTV Unplugged in alternativa, e l’esperienza terminò lì.
Certo, quella non era l’unica interazione possibile tra rap e musica cantata. Ai vocalist R&B, in quanto dispensatori di ritornelli orecchiabili, andava un po’ meglio quanto a flessibilità e apertura mentale di pubblico e addetti ai lavori, ma anche quando lavoravano ai loro progetti solisti i vari Ginuwine, Faith Evans o Brandy spesso scrivevano direttamente su beat, senza l’interazione con un vero e proprio gruppo musicisti. I beat in questione venivano prodotti da hitmaker specializzati in quel tipo di operazione, e ai tempi erano venerati come superstar, anche se oggi nomi del calibro di She’kspere, Jermaine Dupri o Darkchild sono stati quasi dimenticati; come producer avrebbero avuto tutte le capacità per collaborare anche con i rapper (anzi, ne sarebbero uscite delle cose senz’altro interessanti e originali), ma a furia di essere associati a progetti più soft finivano per perdere la street credibility necessaria a muoversi in quell’ambito. Nella percezione generale, infatti, l’R&B era considerato un genere per fare felici le donne, o tutt’al più per farsele, tant’è che esisteva perfino un filone di canzoni studiate apposta allo scopo, dette bedroom hit. Infine c’erano i cultori del soul, che bazzicavano lo stesso ambiente dei musicisti jazz e gospel, ma dopo i fasti degli anni Settanta si erano ridotti a una piccola nicchia. Una nicchia di intellettuali dal pubblico assolutamente marginale, per come la vedevano i discografici dei tempi; ed era proprio da lì che proveniva la maggior parte dei Soulquarians e dei loro fan.
Negli anni di attività, una manciata scarsa a cavallo tra fine Novanta e primi anni Zero, i Soulquarians lavorarono insieme a dischi seminali come Like Water for Chocolatedi Common, Voodoo di D’Angelo, Things Fall Apartdei Roots o Mama’s Gun di Erykah Badu. Purtroppo, però, nonostante la buona volontà e i visionari obiettivi dei suoi fondatori, il loro percorso collettivo terminò prima ancora di avere modo di registrare un album a loro nome. Da una parte, il problema furono le vendite piuttosto scarse di alcuni dei dischi da loro realizzati in quel periodo, come Electric Circusdi Common o 1st Born Second di Bilal, che convinsero la discografia a non investire nel progetto. Dall’altra, secondo una leggenda metropolitana diffusa dallo stesso Questlove, l’inizio della fine fu proprio quel servizio fotografico (e relativo articolo) pubblicato su Vibe: prima di allora, ha spiegato in seguito, si trattava semplicemente di un gruppo di amici che collaboravano in maniera spontanea, non si erano neanche dati un vero e proprio appellativo o una gerarchia. Il giornalista David Bry, invece, aveva titolato il pezzo usando il nomignolo Soulquarians (che usavano informalmente e a mo’ di scherzo i soli Questlove, Poyser, D’Angelo e J Dilla), e aveva implicitamente affermato che si trattasse del supergruppo di Questlove. «Quando vidi Vibe in edicola e lessi il titolo dissi "Oh cazzo, qui si mette male"» raccontò in seguito il diretto interessato. «Da quel momento, ogni volta che il telefono suonava c’era qualcuno di loro dall’altra parte della linea che mi diceva “Ehi, amico, a quanto pare lavoro per te. Guarda che non sono un Aquarian o come mi hai chiamato, io faccio le cose per conto mio”». Insomma, l’ennesima dimostrazione che nell’hip hop l’unico vero supergruppo che resiste alla prova del tempo senza problemi di ego o di diatribe interne è e resterà il Wu-Tang Clan.
Like Water for Chocolate di Common, Voodoo di D’Angelo, Things Fall Apart dei Roots, Mama’s Gun di Erykah Badu, Electric Circus di Common o 1st Born Second di Bilal
Nonostante il finale un po’ travagliato dell’esperienza Soulquarians, però, negli anni successivi la contaminazione tra la scena hip hop, jazz e soul cominciò progressivamente a prendere piede un po’ ovunque. Non fu un processo rapido e indolore, sia chiaro. Lo sa bene Alicia Keys: oggi il suo punto di forza è universalmente considerato la sua capacità di unire il pianoforte ai beat hip hop, ma ai tempi del suo debutto, nel 2001, fu costretta a cambiare in corsa casa discografica perché il produttore a cui era stato assegnato il suo progetto (il già citato Jermaine Dupri) riteneva che fosse troppo sofisticata per il mercato e voleva spingerla ad abbandonare il piano a favore di canzoncine orecchiabili e balletti. Come nel caso di Lauryn Hill, Dupri fu smentito e il successo fu travolgente: 12 milioni di copie vendute per il suo album di debutto Songs in A Minor(2001) e cinque Grammy Awards, più una manciata di street single tra cui il rifacimento di NY State of Mind di Nas (ribattezzata Streets of New York) e di Juicy di Biggie (Juciest). Un trionfo che aprì le porte a un altro pianista/soulman, John Legend, che nel 2004 pubblicò il disco d’esordio Get Lifted, prodotto e fortemente voluto da Kanye West. Esperimenti analoghi si ripetevano anche su questa sponda dell’Atlantico, con una giovanissima Amy Winehouse impegnata a collaborare con Salaam Remi (con cui rifarà una versione personalissima di Made You Look di Nas, intitolata In My Bed) e Mark Ronson. Oggi il panorama è completamente cambiato: non solo le platee dell’hip hop, dell’R&B, del soul e del jazz spesso non si distinguono, soprattutto nei loro segmenti più giovanili, ma addirittura spesso è impossibile assegnare un genere specifico a un artista o a un album.To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar è un album jazz o rap? Anderson .Paak fa hip hop, soul o funk? E arrivando fino all’Italia, Madame è una cantante o una rapper? Grande è la confusione sotto il cielo, finalmente: dalla contaminazione e dall’ibridazione non possono che nascere frutti dal gusto straordinario. Ma per arrivare fin qui, la strada da fare è stata davvero lunga.
19. Dipset vs The Lox (Harlem/Yonkers, 2000 - 2008)
di Marco "Ted Bee" Villa
6min circa
C’è stato un periodo, quello a metà degli anni Zero, o forse sarebbe meglio dire un anno in particolare, il 2004, nel quale la scena newyorkese è stata dominata dalla competizione, fortunatamente - caso più unico che raro trattandosi di hip hop - soltanto stilistica, tra due collettivi che hanno prepotentemente influenzato il rap di tutto il mondo, Italia compresa.
Da una parte i Dipset, o Diplomats, crew di Harlem, attiva dalla fine degli anni Novanta e originariamente parte della scuderia di Jay-Z, composta da Cam’ron, Jim Jones e Juelz Santana. Dall’altra i The Lox, o D-Block, di Jadakiss, Styles P, Sheek Louch e J-Hood.
A settembre del 2021 questi due gruppi sono tornati a sfidarsi, nel vero senso della parola, in una battle della durata di un paio d’ore organizzata al Madison Square Garden facilmente recuperabile su YouTube, dove hanno alternato pezzi storici a freestyle, esaltando e facendo scendere qualche lacrimuccia ai fan più attempati. Per la cronaca: il verdetto unanime è che i The Lox siano stati decisamente più convincenti.
Tornando a quell’epoca magica che chi scrive considera una sorta di età dell’oro, non fosse altro perché era quella in cui muoveva i primi passi nel rap, i Diplomats rappresentarono davvero una formidabile novità e un punto di non ritorno.
Harlem è un quartiere da sempre vivo sul piano artistico. Si pensi solo all’Harlem Renaissance, corrente artistica e culturale risalente agli anni Venti. Meta di importanti ondate migratorie dopo la Seconda guerra mondiale, principalmente Ispanoamericane, Harlem è stata anche una delle prime zone in cui i ragazzi hanno iniziato a ballare per strada. Se negli anni Novanta aveva la nomea di quartiere pericoloso e malfamato, oggi, a causa anche di un intenso processo di gentrificazione sta cambiando faccia con il conseguente aumento di posti di lavoro e la riduzione della criminalità.
On my way to church di Jim Jones, Purple Hazedi Cam’ron, entrambi del 2004, ma soprattutto What the Game's Been Missing!di Juelz Santanadefinirono un nuovo modo di rappare, inteso proprio come nuovi flow e nuove metriche, contraddistinti da sillabe e parole spezzate. Chi più di tutti a casa nostra ha saputo tesaurizzare questa lezione è senza dubbio Marracash che ha esplicitamente riconosciuto nell’album di Santana uno dei lavori che più lo hanno ispirato a inizio carriera. Ricordo, tra l’altro, che sulla base di Crunk Muzik, presente sia nell’album di Jim Jones che in quello del gruppo Diplomatic Immunity 2, Marra scrisse le strofe di Il gioco, brano con Inoki presente in Roccia Music, quello che fa: «Io sono uno di voi, uno fra tanti, ma uso le stesse armi dei giganti del marketing…». Al di là di queste memorie personali, quella anthem track tratteggiava un vero e proprio manifesto dello stile dei tre rapper, non solo per quanto riguarda le strofe, in cui è riconoscibile l’utilizzo ben studiato di sporche e onomatopee (“bang bang”, “boom boom”, “ta ta ta”) o addirittura entrambe insieme («woop, woop, wham, wham, beep, beep - that's the cops») e di parole latine (“loco”, “te matan” o l’immortale “ok, muchacho” di Jim Jones), ma anche in relazione al video. Come dimenticare la catena di Jim Jones, la mazza di Santana o il gesto che accompagna il verso finale del ritornello «High like space, .45 on waist».
Personalmente ai tempi io stavo dall’altra parte della barricata preferendo i The Lox. Acronimo di "Living Off Experience", il trio inizia a farsi conoscere verso la fine degli anni Novanta grazie alle collaborazioni con Puff Daddy. Sono presenti addirittura nel maxi-singolo di I’ll be missing you con cui il rapper e produttore tributava l’amico scomparso Notorious Big nella traccia We'll Always Love Big Poppa.
Legati a New York, Jadakiss in particolare viene da Yonkers, città confinante con il Bronx famosa solamente per aver dato i natali alla Tanglewood Boys, associazione criminale Italoamericana definitivamente soppressa a metà degli anni Novanta.
Più di 200 pagine dedicate alla storia e alla cultura della comunità Afro-americana. Sostieni oltreoceano, sostieni il giornalismo indipendente.
Dopo anni in cui il featuring di Jadakiss è richiestissimo, da Jay Z (Reservoir Dogs) a Notorius Big (Last Dayz) passando per Noreaga (Banned from TV), il 2004 è l’anno della sua consacrazione solista con l’albumKiss of Death, dove figurano collaborazioni di rilievo come Snoop Dogg, Nate Dogg e Mariah Carrey e le produzioni di Neptunes, Kanye West, The Alchemist, Swizz Beatz, DJ Green Lantern, insomma la crema dei beatmaker di quell’era. Di questo disco merita una menzione particolare la traccia numero sei, Why, che vede al ritornello Anthony Hamilton, in cui risalta la frase «Why Bush knocked down the Towers», poi ripresa da Immortal Technique, rapper e attivista anch’egli newyorchese con origini cubane, nel brano Bin Laden. Come se il messaggio non fosse chiaro, nel videoclip un uomo solleva un cartello con la scritta “Buck Fush”, spoonerismo di Fuck Bush. Per queste ragioni il brano verrà bandito da alcune radio o riprodotto mutando i versi incriminati. Sono d’altronde questi gli anni che seguono il tragico attentato alle Torri Gemelle e per i rapper di New York è impossibile ignorare questo avvenimento. A un inno un po’ retorico alla Grande Mela che fa Jay Z col suo Empire State of Mind, con l’afflato oraziano del nihil urbe visere maius, corrisponde quindi un’altra schiera di rapper che non usa mezzi termini rivolgendosi alla politica e racconta le contraddizioni di una città che non è solo quella giungla di cemento dove i sogni diventano realtà.
Nello stesso anno Styles P realizza il remix di Locked Up di Akon, cantante di Saint Louis di origini senegalesi che si accingeva a diventare uno dei principali hitmaker della seconda metà del decennio.
Non va dimenticato che il D-Block, sin dal 2000, fa parte del roster di Ruff Ryders, label che raccoglie gente del calibro di DMX, Cassidy e Swizz Beatz. Grazie a questa appartenenza Jadakiss e soci impreziosiscono ulteriormente il proprio status nel rap game. La partecipazione alle compilation prodotte dall’etichetta, in particolare l’immortale ciclo di mixtape Ready or die, contribuisce a definire l’immaginario iconico dei The Lox.
Per quanto concerne i Dipset, l’ascesa è stata fugace tanto quanto il loro declino. Verso il 2010 i gusti del pubblico si stavano orientando verso sonoritàsouth che la crunk muzic dei ragazzi di Harlem aveva in qualche modo influenzato e che avrebbero a loro volta ispirato di lì a poco l’esplosione della trap.
La stessa produzione dei The Lox, in particolare del loro membro più rappresentativo, Jadakiss, tende di lì a poco a essere meno prolifica e soprattutto incisiva.
Per chi c’era resta uno dei periodi più entusiasmanti della storia semisecolare dell’hip hop, quando forse le parole e i concetti contavano più di oggi. Per chi non c’era, è tutto lì e può andare a recuperare perché molti di quegli insegnamenti sono tuttora validi.
Extra. La notte in cui l’hip hop venne al mondo (The Bronx, 11 Agosto 1973)
di Daniele Benussi
7min circa
Se sentiamo la parola Bronx, probabilmente a ognuno di noi vengono in mente per prime cinque o sei cose: i palazzoni grigi, un paio di gang Afroamericane che si fanno la guerra, la droga, qualche campetto da basket ritagliato sull’asfalto, una manciata di pistole, il battito incessante di certa musica, e nell’aria, cupa e ovattata, una sirena che non smette mai di suonare.
Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, in cui nel Bronx ci vivevano i bianchi, gente borghese che lavorava in città e poi la sera faceva ritorno proprio lì, in quei palazzoni, per badare alla famiglia e coltivare il proprio sogno. Un posto tranquillo insomma, uno dei tanti quartieri residenziali in cui consumava la sua esistenza lo smisurato esercito di formichine che collaboravano all’inarrestabile crescita di una metropoli come New York.
Poi le cose cambiarono, e a fare del Bronx un inferno arrivarono gli anni Sessanta.
Dopo diversi tentativi, fu avallato il progetto per la costruzione della Cross Bronx Expressway, un’autostrada che avrebbe attraversato tutto il Bronx da est a ovest collegandolo col centro di New York, e i lavori furono devastanti. Il quartiere divenne un cantiere a cielo aperto, le case si svalutarono e nel giro di qualche anno ci fu la cosiddetta “fuga bianca”: 300.000 persone svuotarono il Bronx e si trasferirono altrove, lasciando i palazzi deserti e una miriade di negozi senza lavoro.
A ripopolare il quartiere, sfruttando i prezzi crollati e le case sfitte, furono neri, ispanici, avanzi umani del Vietnam, e tutta quella gente che provava, con immensa fatica, a ritagliarsi un posto nel grande marasma americano. Il degrado aumentò, così come la violenza e i giri loschi. Nacquero le prime gang e, per via della svalutazione, i vecchi proprietari delle case cominciarono a dare fuoco alle proprie abitazioni, per provare a riscuotere le polizze assicurative.
Presto il Bronx divenne un fantasma, un fantasma che bruciava.
Fra le famiglie arrivate nel quartiere all’inizio degli anni Settanta, ce n’era una, la famiglia Campbell, immigrata da Kingston, Jamaica, che si sistemò in un palazzone di diciotto piani, al numero 1520 di Sedgwick Avenue. Erano in otto: padre, madre e sei figli, di cui il primogenito era Clive, un ragazzone alto quasi due metri che sarebbe stato destinato, di lì a poco, a cambiare per sempre la storia della musica.
Sì, perché se c’è una cosa che un giamaicano si porta via quando lascia il suo Paese, quella è proprio la musica, la suamusica. E Clive nella musica ci era cresciuto, ascoltando i dischi del padre e accompagnandolo, fin da piccolo, ai concerti ska e alle dancehall di tutta Kingston, in cui rimase stregato dai DJ jamaicani e dai loro toasting, i discorsi con cui davano il via alle serate.
Arrivato a New York, col suo fisico prestante, Clive cominciò fin da subito a primeggiare nello sport, tanto che i compagni lo soprannominarono “Hercules”. “Herc”, per abbreviare.
Fuori da scuola invece Clive si divertiva, come tanti altri suoi coetanei del Bronx, a fare graffiti, e presto si unì a un clan di graffitisti in cui cominciò a farsi chiamare “Kool”. “Kool Herc” divenne così il soprannome completo.
Ma c’era un altro momento, nelle sue giornate, in cui Herc non si trovava né a scuola né per strada, ma a casa sua, circondato dai vinili e dalla sua musica, con la quale sognava un giorno di arrivare anche lui ad animare una festa come quelle che aveva visto da piccolo, in Jamaica. E fra le quattro mura di camera si lasciava andare, un po’ ai ricordi e un po’ alla voglia matta di prendersi un futuro che nel Bronx sembrava veramente, ma veramente, un inutile vagheggio.
Però c’era un problema: a New York quella musica non interessava a molti, Bob Marley non era ancora Bob Marley e della Jamaica importava poco e nulla. Troppa spensieratezza, troppa salsedine. I ragazzi Afroamericani avevano altri gusti, la vita di strada li spingeva a cercare ritmi più decisi, camminavano diverso e il loro accento non aveva contaminazioni. Eppure nemmeno la musica dei loro genitori gli bastava. Serviva qualcosa di nuovo, qualcosa che appartenesse soltanto a loro, i ragazzi del Bronx. Per arrivare ai loro gusti bisognava inventarsi qualcosa.
Allora Herc si mise lì, sempre nella sua cameretta, e cominciò a fare una cosa strana coi vinili, una cosa con le puntine.
Provò a individuare il momento più ritmato e ballabile delle sue canzoni preferite, e a isolarlo, sollevando la puntina del giradischi e riposizionandola ogni volta all’inizio di quel pezzetto che gli interessava, riproducendolo una, cinque, dieci, venti volte consecutive, e facendolo così diventare una canzone nuova, tutta composta dal suo segmento migliore, che chiamò: break. Il primo brano su cui mise le mani fu Give It Up or Turnit a Loose, di James Brown, e quello che venne fuori fu qualcosa che nemmeno lui si aspettava. Era una bomba.
Nei giorni successivi comprò nuovi dischi da mixare, perfezionò la tecnica del break, e cominciò ad aver voglia di farla sentire a qualcuno. Una sera chiamò in camera sua la sorella, Cindy, che a quei tempi era poco più che una bambina. Era l’inizio del 1973. Ehi Cindy, senti qua. Herc fece partire il vinile dal ritornello, e poi, come aveva fatto per tutti quei mesi da solo, fece quella cosa con le puntine: finito il break voluto,cominciò a sollevare la puntina e a riposizionarla sempre lì, in quel punto, per cinque minuti. Cindy ascoltò per i primi due, dopodiché non riuscì più a contenersi, e cominciò a ballare come una matta.
Clive, ma che ti sei inventato?!?
Passò qualche mese. Arrivò la primavera del ‘73. Herc si comprò il suo primo impianto e continuò a mixare altra musica, musica nera, quella che non passava in radio: il soul, il jazz, il funk, e il sognò cresceva, si alimentava. Herc prendeva i brani, individuava i loro pezzi forti, ne isolava bassi e percussioni, e poi via, in loop, fino a diventare qualcos’altro, qualcosa di così travolgente, che era difficile rimanere fermi.
Ma non era tutto qua. Grazie all’impianto nuovo, Herc capì un’altra cosa: con due giradischi, e due copie identiche dello stesso vinile, si rese conto che poteva gestirli entrambi, abbassando la puntina di uno mentre sollevava e riposizionava quella dell’altro, e azzerando così del tutto le pause fra i break. Ora i suoi pezzi erano davvero nuove canzoni.
Nella cameretta di quel palazzone al 1520 di Sedgwick Avenue, stava nascendo qualcosa che lo stesso Herc non poteva nemmeno immaginare: stava nascendo l’hip hop.
even imagine was being born: hip hop.
Perché la nascita ufficiale avvenisse mancava una sola cosa: il primo evento. Ma per ora tutto era ancora circoscritto alla cameretta di Herc. Nessuno che non fosse sua sorella Cindy aveva sentito la sua tecnica, e soprattutto non c’era nessuna garanzia che anche ad altri sarebbe piaciuto sentire quella roba. Herc aveva messo le mani sui migliori pezzi di mostri sacri della musica nera, e non era per niente sicuro che là fuori la gente avrebbe apprezzato una mossa simile. E poi le dancehall, i toasting, i DJ: tutta roba jamaicana… Chi poteva dire che avrebbe funzionato anche in America?
Herc aveva appena compiuto diciott’anni, l’estate nel Bronx trascorreva torrida, e presto, come ogni anno in agosto, sarebbe arrivato il momento di organizzare la festa per il rientro a scuola.
L’idea allora venne a Cindy. Una sera di luglio si infilò nella camera del fratello che, come sempre, stava suonando.
Senti Herc, questa roba è una bomba, non può più rimanere qui dentro, e poi io vorrei rifarmi il guardaroba per l’autunno… Senti un po’, ma se la festa la organizzassimo qui?
Qui dove?! E poi che c’entra il guardaroba?!?
Qui a casa, da noi, in cortile: io organizzo tutto quanto e tu suoni i tuoi pezzi. Chi vorrà venire dovrà sborsare i quattrini del biglietto. Cinquanta centesimi i ragazzi e venticinque le ragazze. Vedrai se non ci rifacciamo il guardaroba tutti e due… Ho già parlato con papà ed è d’accordo!
Herc sentì un brivido, si fermò un secondo, tirò un’occhiata ai suoi dischi, e poi si girò verso la sorella.
Merda… Facciamolo!
Cindy corse subito da suo padre, e insieme di misero a preparare i biglietti d’invito. Li scrissero a mano, con un pennarello e una penna nera. Tra gli special guest, Cindy mise alcuni amici del fratello, che durante la festa avrebbero dovuto imbracciare il microfono e ripetere qualche frase improvvisata durante i suoi pezzi, senza neanche immaginare che sarebbero stati ricordati per sempre come i primi MC della storia.
Nelle settimane successive, quei biglietti, scritti a mano da Cindy e Mr Campbell, li acquistarono in trecento, e fra quei trecento, oltre ai compagni di scuola e agli amici di Cindy e Herc, ci furono anche un paio di curiosi, appassionati di musica, che decisero di partecipare perché in quell'invito sentirono l'odore di qualcosa di rivoluzionario. Erano due personaggi che quella sera sarebbero rimasti letteralmente folgorati dall’arte di Kool Herc, tanto che da lì in poi decisero di farla propria e diventare ciò per cui oggi li conosciamo, ovvero due dei più storici fondatori dell’hip hop americano: Afrika Bambaataa e GrandMaster Flash, ma questa è un'altra storia.
Ciò che conta qui, è che la sera del 11 agosto del 1973, alle ore ventuno, nella sala ricreativa del numero 1520 di Sedgwick Avenue, West Bronx, DJ Kool Herc si mise davanti a quelle trecento persone coi suoi due giradischi, e pronunciando il primo toasting della sua vita, diede il via a quella che verrà per sempre ricordata come la prima serata hip hop della storia.