George Floyd, 3 anni dopo (una conversazione con Alessandro Portelli)
A cura di Stefano Ricaldone

Nel 2020 le proteste per l’uccisione di George Floyd, da parte di un agente della polizia di Minneapolis, hanno scatenato una mobilitazione in tutti gli Stati Uniti e per la prima volta il movimento Black Lives Matter è diventato internazionale con manifestazioni in tutti i paesi occidentali, tra cui l’Italia.
Il video dell’omicidio di Floyd, la questura di Minneapolis data alle fiamme, i feed di Instagram colorati di nero in segno di lutto: a tre anni di distanza da quei fatti abbiamo pensato di tornare sulle molte questioni che quel movimento ha aperto.
Per farlo abbiamo intervistato Alessandro Portelli che è stato professore di storia angloamericana all’Università di Roma La Sapienza. Alessandro Portelli è un ricercatore e studioso di fama internazionale e tra i principali esponenti della storia orale. Autore di numerosi libri sulla storia e cultura Americana, tra cui: Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari edito da Donzelli Editore nel 2020.
Come si è avvicinato allo studio della cultura nord-americana e in particolare a quello della comunità afro-americana?
Io mi considero appartenente alla generazione degli anni Cinquanta, quella che per prima forse inizia a sviluppare un’identità generazionale distinta da quella degli adulti. Avere diciassette o diciotto anni negli anni Cinquanta non significa più essere solo un adulto in preparazione, ma avere un’identità legata alla tua generazione. Quest’identità ruota essenzialmente attorno alla musica, che è soprattutto quella americana. Sono gli anni in cui arriva il rock n’ roll: Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e più tardi Little Richard ecc. Contemporaneamente, sono anche gli anni in cui in un contesto politico abbastanza addormentato, comincio ad avere consapevolezza dell’esistenza di qualcosa di molto affascinante che è il Movimento per i diritti civili. Non sapevamo granché del boicottaggio degli autobus a Montgomery, ma invece, per esempio, tutta la vicenda del tentativo di integrazione della scuola a Little Rock in Arkansas con l’intervento delle truppe federali, per intenderci: la famosa scena delle bambine che attraversano queste forche caudine di uomini e donne razzisti e razziste. Questa è una scena destinata a lasciare il segno perché ti da la sensazione che in qualche modo la politica possa essere qualcosa di nobile. In qualche modo è questa doppia relazione: l’arrivo del rock come identità generazionale e il modello del Movimento dei diritti civili come punto di riferimento anche per una nuova morale.

In questo periodo inizia ad avvicinarsi all’approccio della storia orale e anche all’analisi musicale?
No, prima della storia orale passano almeno altri vent’anni, o quasi, prima di accorgermene. Quello che succede è che erano tempi in cui dell’America si parlava ma era difficile andarci; ebbi l’opportunità di prendere una borsa di studio e andai un anno in California a Los Angeles per l’ultimo anno di scuola media superiore. Quello è il momento in cui stanno nascendo i movimenti: da una parte ci sono state le prime estati dei diritti civili, dall’altra sta iniziando a montare il movimento studentesco. C’era soprattutto un’attenzione al movimento per la pace, non è ancora esploso il Vietnam ma gli Stati Uniti sono coinvolti in Laos e così via. In quel momento i miei compagni di scuola mi introdussero al rapporto che c’era tra la musica del folk revival e i movimenti, quindi scoprii il mio primo disco di Pete Seeger, i miei primi dischi di Johan Baez e di Peter, Paul and Mary subito dopo, quindi poi Bob Dylan e così via. Diciamo che l’interesse è soprattutto per la musica popolare e la sua relazione con i movimenti. Il Movimento per diritti civili, che era stato così importante per me, usava moltissimo la musica e finii così per fare la tesi di laurea su Woody Guthrie. Nel frattempo si fece largo una domanda: «tutto questo c’è in America, ma in Italia?». Per esempio, esisteva a metà anni Sessanta, nel ’64, il famoso spettacolo Bella Ciao a Spoleto, interrotto dall’intervento delle forze dell’ordine, in cui si cantava contro la guerra. Scoprii così anche una tradizione analoga in Italia. Sull’onda del Sessantotto che si preparava, presi contatto con Gianni Bosio dell’Istituto Ernesto de Martino e cominciai a fare anche ricerca sul campo in Italia. Dopo un po' di tempo mi accorsi che più che le canzoni mi interessavano i racconti che le persone facevano attorno alle canzoni e da lì piano-piano viene fuori il discorso della storia orale.

L’analisi della cultura musicale l’ha utilizzata come strumento per leggere le istanze dei movimenti e i rapporti che c’erano con la musica?
Sì, perché da una parte, negli Stati Uniti, c’era un rapporto strettissimo fra il revival della musica popolare e i movimenti, questo inizia negli anni Trenta ed è legato alla sinistra tradizionale, Alan Lomax, Woody Guthrie e lo stesso Pete Seeger erano vicini al Partito Comunista negli anni Trenta e fino agli anni Quaranta, finché è stato possibile; inoltre, negli anni Sessanta nel Movimento per i diritti civili c’è We Shall Overcome. Dall’altra parte, in Italia, l’approccio di Gianni Bosio sosteneva che: se vogliamo fare la storia del mondo popolare dobbiamo usare le fonti che vengono dal mondo popolare, le canzoni e la musica sono una fonte. Dunque l’approccio alla musica popolare è come fonte storica più che come tematica etno-musicologica. Quindi questa doppia relazione fra musica e politica, musica e movimenti, musica e memoria storica di classe.
Lei ha avuto modo anche negli Stati Uniti di entrare in contatto con i movimenti di quel periodo? E una volta tornato in Italia?
Il mio primo anno, 1960-61, ero in amicizia con tutti i giovani progressisti della mia scuola, ma niente di più, era solo a livello di opinione. In Italia no, perché non avevo nessuna relazione né di tipo famigliare né personale. La cosa è piuttosto graduale, cioè questo momento di incontro con l’Istituto Ernesto de Martino, quindi con Gianni Bosio (la canzone popolare), Ivan della mea, Giovanna Marini, nel momento in cui veniva montando il Sessantotto. Diciamo poi, io ero un pochino grande, io sono del ’42, nel ’68 io già lavoravo, mi ero laureato in legge facevo l’impiegato; però quell’anno lì è quello che mi induce a tornare all’università e laurearmi in letteratura americana e poi proseguire, trovando il modo di fare quella che chiamavano la carriera accademica. Quindi per me di nuovo tantissimo passa attraverso la musica, attraverso le canzoni; di fatto passo il ’69-’70 fino al ’72 a prendere il registratore e andare in giro a registrare, a cercare musica. Soprattutto musica legata alle vicende delle lotte contadine nelle campagne del Lazio, alle vicende delle lotte operaie attorno a Terni e la Val Merina e poi la scoperta dei racconti che venivano raccontati attorno alle canzoni. Un po’ per volta iniziò a emergere questa cosa che io manco sapevo come si chiamasse: la storia orale.
Riguardo gli ultimi anni, vorrei chiederle quali sono secondo lei gli elementi che hanno contribuito a questa nuova ondata di proteste negli Stati Uniti legata ai diritti civili, ma non solo, dopo un periodo abbastanza silente dei movimenti. Io avevo pensato agli eventi storici che negli ultimi anni penso abbiano segnato gli Stati Uniti: dall’11 Settembre alla Crisi del 2007 e la rottura del sogno americano, lei cosa ne pensa?
Durante la Guerra del Golfo, l’Afghanistan e l’Iraq movimenti d’opposizione e movimenti contro la guerra ci sono stati e anche importanti, ma c’è stato anche un vero e proprio black-out informativo su tutto questo, cioè non se ne doveva parlare. Poi c’è stato questo momento cruciale che è il 2011, Occupy Wall Street. Quando è finito, quest’ultimo momento di mobilitazione si è diffuso sotterraneamente. Per esempio Barnie Sanders non sarebbe stato possibile senza che le persone che erano state coinvolte in Occupy Wall Street - che è stato un movimento nazionale che non ha riguardato solo New York - non avessero reinventato moltissimi modi di far politica e in gran parte si sono legati alla sua campagna. Riguardo l’esplosione di Black Lives Matter è difficile spiegare perché alcune cose succedono adesso e non prima, ma diciamo che la violenza della polizia, la violenza di stato, nei confronti degli Afroamericani è una lunga tradizione. Io penso sia un po' come il discorso sulla violenza contro le donne di questo momento, ovvero c’è sempre stata ma arriva un momento in cui non se ne può più, in cui soprattutto, arriva il momento in cui le vittime, i bersagli di questa violenza, si riconoscono come comunità, come collettività, e assumono una voce condivisa. Non a caso, tra l’altro, Black lives Matter comincia con un gruppo di donne e in più raccoglie in piazza, cosa interessante degli eventi di quell’estate (2020 N.d.R.), non solo neri. Era dall’epoca dei diritti civili che non c’era qualcosa di così condiviso. In uno dei luoghi cruciali che è stato Portland alle manifestazioni c'erano: neri, bianchi e altre comunità discriminate; fra l’altro di nuovo con un ruolo importantissimo delle donne. Direi che è stata anche un po' la preoccupazione per questa Presidenza Trump e tutto quello che ha rappresentato. Dunque si sono intrecciati una serie di elementi. Quello che spaventa è che la situazione non è cambiata molto: la polizia continua ad ammazzare, esattamente come prima. Dov’è andata a finire la mobilitazione di Black Lives Matter ancora non è chiaro, perlomeno a me. Come dicevo prima, la mobilitazione del 2011 si è diffusa in centomila modi e fra l’altro è arrivata anche dentro Black Lives Matter. La mobilitazione del 2020 ancora non vediamo bene dove sta andando. Sicuramente una delle cose che ha prodotto è stata una maggiore partecipazione al voto, effetti non trascurabili visto quello che è successo in Georgia. Però in questo momento ho dei grossi limiti informativi, non vado lì da molto tempo, da prima della pandemia quindi non ho niente di diretto da dire. Però direi che in qualche modo le potenzialità di quella ribellione - che è stata definita come la più importante ribellione di massa degli Stati Uniti d’America e da cui non è scaturito nessun effetto istituzionale - credo che in qualche modo le rivedremo da qualche parte.

Durante l’ultima mobilitazione di massa del 2020, oltre a vedere una forte composizione eterogenea, con la partecipazione di Latini e bianchi, si è visto anche un forte gesto di ridefinizione dei simboli che erano nelle piazze con l’abbattimento delle statue confederate e di personalità razziste. Secondo lei questo elemento è stato molto forte? E come è stato recepito in Europa? Per esempio in Inghilterra ha avuto dei forti echi.
In Inghilterra sì, per esempio quanto avvenuto con la statua di Edward Colston, che è stata buttata nel fiume[1]. Diciamo che è diventato intollerabile vedersi rappresentare nelle strade, nello spazio pubblico, una narrazione della storia che legittima discriminazione e oppressione, molto semplicemente. Negli Stati Uniti quanto avvenuto alle statue dei presunti eroi confederati e la stessa cosa di quello che noi abbiamo fatto con il monumento a Graziani, massacratore in Etiopia e capo dell’esercito della RSI[2]. È diventato abbastanza insopportabile veder rappresentare come eroi personalità che non lo sono e questo è entrato nella ridefinizione dell’identità collettiva. Qui in Italia anche la sinistra, anzi diciamo aree di pensiero liberal-progressista, hanno interamente ingoiato la narrazione della destra americana sulla cosiddetta cancel culture. Ovvero che l’idea di abbattere una statua di un massacratore schiavista sia violare la storia e che in generale, invece, la storia sia non mantenere quella statua, che è una menzogna. In Italia la polemica sulla cosiddetta cancel culture è veramente un trionfo dell’egemonia di destra. Ovviamente voglio dire in tutte le cose possono esserci degli eccessi e altro, però è ridicolo che a causa di due giornaliste di un giornalino di quartiere di San Francisco, che dicono il bacio del principe a Biancaneve è un approccio sessuale non consensuale[3] - che peraltro è vero - in Italia (!) si scatena una campagna mediatica tipo: «in America vogliono vietare Biancaneve». In America due persone hanno detto questo. Il tentativo di ridefinire la significazione dello spazio pubblico in termini di correttezza storica vuol dire mettere a posto la storia, ovvero chiamiamo gli assassini: assassini, chiamiamo gli stupratori: stupratori; chiamiamo i pessimi giornalisti: pessimi giornalisti. Vedi il caso Montanelli. In questo senso, la battaglia culturale sul linguaggio e sui simboli è una battaglia democratica. Noi purtroppo in Italia a Roma abbiamo ancora l’obelisco con su scritto “Mussolini” e guarda caso abbiamo gli eredi di Mussolini al governo.

Sempre riguardo agli eventi del 2020, c’è un filo conduttore di questa battaglia storica che porta poi al famoso assalto al Campidoglio?
La statua del generale Lee che è stata rimossa[4] era dal 1890 che gli Afroamericani dicevano che andava rimossa. Anche qui tutta una serie di cose che sono venute al pettine adesso, non è che improvvisamente la gente è impazzita e ha detto, per esempio: «non voglio più che il foro italico si chiami foro mussolini», è semplicemente che non ne si può più. Non dimentichiamoci, gran parte di questi monumenti razzisti non sono eredità, ovvero non sono stati fatti quando c’era la segregazione, ma sono stati fatti adesso. Il monumento equestre al generale Bedford, fondatore del Ku Klux Klan, è stato eretto a Memphis Tennessee, la città in cui è stato assassinato Martin Luther King, negli anni Novanta del Novecento, di fatto sostenendo un discorso del tipo: «hanno fatto bene ad ammazzare Martin Luther King, noi siamo dalla parte del Ku Klux Klan». Sono imposizioni di adesso, non eredità. Tutti a dire: «E allora la colonna Traiana?», ma quella c’è da tremila anni mentre le statue equestri ai razzisti le abbiamo fatte adesso. La statua a Colson, uomo del Settecento di Bristol, l’hanno fatta a fine Ottocento con l’intenzione precisa di offrire un’identità razziale in alternativa al movimento operaio che veniva crescendo. Questi sono interventi precisi sul presente.
Secondo lei è lo scoppio di un movimento così di massa e radicale ad aver spinto alla risposta dell’America bianca razzista con l’assaltato al Campidoglio?
Sì, certamente. La cosa veramente impressionante è che le persone che hanno dato l’assalto al Campidoglio pensavano di essere loro i difensori della democrazia. Perché la disinformazione e la manipolazione dei media ha fatto sì che in qualche modo ritenessero che ci fosse la sostituzione etnica, l’egemonia dei liberali e in definitiva che fosse minacciata la democrazia. Al tempo stesso, cosa intendessero per democrazia costoro è tutto da definire. Penso che in larga misura quando Trump diceva “Make America great again”, dicesse molto semplicemente: «ritorniamo agli anni Cinquanta, a prima dei Movimenti per i diritti civili; ritorniamo ad un’America in cui la certezza e la garanzia delle gerarchie razziali sia l’elemento di garanzia per le componenti più precarie delle classi popolari bianche». Da Reagan in poi c’è stato un lavoro molto radicale, intelligente e approfondito di spaccare una cosa che fino agli anni Sessanta andava insieme, ovvero l’unità tra diritti civili - intesi tutti anche il movimento delle donne - e il movimento sindacale e operaio. La distruzione del sindacato è stata resa possibile e ricercata attivamente anche dal Partito Democratico che fin dalla fine degli anni Ottanta ha sostenuto un discorso del tipo: «noi con i sindacati non c’entriamo niente, vogliamo i loro soldi e i loro voti ma noi siamo il partito del ceto medio professionale». Questa rottura fa si che si sia inserita un’intelligente politica reazionaria che senza mai dirlo in maniera clamorosa o altro, ha identificato working class con white race. L’epoca dell’attacco al welfare degli anni Novanta con Clinton è stata possibile grazie ad una retorica che più o meno recitava così: «il welfare serve ai parassiti, ai n*gri che non hanno voglia di lavorare, noi working class bianca paghiamo le tasse per mantenere loro».

Si riferisce alla famosa figura della welfare queen[5], giusto?
Sì, la welfare queen: nera e donna. Questa spaccatura ha fatto sì che ogni progresso, ogni conquista degli Afroamericani e dei migranti sia stata sentita non come un passo avanti collettivo di tutti i lavoratori ma come una minaccia a quelli che c’erano prima. Di nuovo, il parallelo con il movimento delle donne: la crescente violenza contro le donne, oltre ad esserci sempre stata, è anche l’effetto di una visione del mondo in cui i maschi pensano di avere il diritto di comandare e a mano a mano che le donne ubbidiscono di meno si sentono minacciati. Lo stesso avviene quando tu pensavi che in nome del colore della tua pelle avevi diritto a priorità nelle assunzioni e a posti di lavoro più garantiti e improvvisamente rischi di dover fare i conti con l’uguaglianza. Soprattutto ti è stata sottratta ogni nuova forma di identità, non ti identifichi più come lavoratore ma come bianco e maschio. Questo sta succedendo anche in Italia: i lavoratori che votano Lega sono parenti della classe operaia che vota Trump. Non è una novità. La tua identità in quanto lavoratore viene messa in discussione, non esiste più, le uniche identità che hai sono quella di genere e del colore della pelle, allora difendi quello. Va detto che ci sono piccoli, non trascurabili, segnali di ripresa di una presenza sindacale negli Stati Uniti: il caso Amazon[6] e il caso Starbucks[7]. Non a caso tutti settori in cui c’è una forte presenza dei vari gruppi di minoranza. Anche un presidente come Biden - che è il meno anti-sindacale che ci sia stato nella storia degli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo - tuttavia è intervenuto pesantemente per impedire lo sciopero dei ferrovieri. E' significativo che per la prima volta in trent’anni i ferrovieri fossero sul punto di scendere in sciopero per le condizioni di lavoro, per i diritti e la salute. Sono piccoli segnali, direi non trascurabili che mettono in crisi l’idea che possa continuare ad esistere indefinitamente una classe operaia priva d’identità e di diritti politici in quanto tale. Una cosa che in Italia non si racconta mai è quanti ostacoli infiniti ci siano all’organizzazione sindacale negli Stati Uniti. La National Labor Relations Board degli anni Trenta nasceva in realtà come riconoscimento dei diritti sindacali, ma è finita poi per mettere tali e tanti ostacoli che è diventato davvero difficilissimo fare attività sindacale. Negli Stati Uniti tu non puoi andare alla camera del lavoro e iscriverti al sindacato, non c’è un diritto personale di iscrizione ai sindacati.
Se non sbaglio è anche utilizzato e legittimato che i datori di lavoro mettano in competizione gruppi di lavoratori sindacalizzati con quelli che non lo sono, giusto?
Sì, tu lavoratore ti puoi iscrivere al sindacato solo se è l’unico sindacato accettato dalla maggioranza. Tra l’altro ci sono anche gli ostacoli alle campagne di mobilitazione. Le persone che hanno aggredito il Campidoglio erano gente spaventata e noi assistiamo ormai da più di vent’anni ad una politica della paura. La paura del migrante, della criminalità, della precarietà ... e la paura va a destra, va sempre a destra. Aggiungo inoltre che le forme storiche della paura avevano un modello storico molto chiaro che era quello dei linciaggi.
L’ultimo tema che le vorrei porre si lega abbastanza ai temi che abbiamo già toccato, da un lato alle modalità di governo inaugurate negli anni Ottanta con l’avvento del neoliberalismo e dall’altro all’incarcerazione di massa (The new Jim Crow), ovvero la militarizzazione della polizia nel governo dei movimenti sociali e delle città americane. Per esempio, mi ha molto colpito vedere come sono state gestite le proteste come quella avvenuta a LA nel ’92 e quelle degli ultimi 10 anni. Lei cosa ne pensa?
Questo processo di militarizzazione è andato avanti in parallelo con le guerre intraprese degli Stati Uniti. Quando gli armamenti e gli equipaggiamenti bellici venivano rinnovati dalle forze armate, quelli dismessi venivano poi trasmessi alle varie polizie locali, che hanno sempre avuto una visione del loro ruolo essenzialmente come di repressione. Mi ha colpito come con Black Lives Matter - a partire dal 2015 a Ferguson - nelle comunicazioni interne alle cosiddette forze dell’ordine si parlasse in termini bellici, cioè: «il nemico da controllare». Da questo punto di vista pensando letteralmente a una guerra civile, che poi rinvia alle grandi tematiche degli anni Sessanta sul ghetto come colonia, sul ghetto come territorio di occupazione militare. Questa dimensione strutturale si intreccia poi con la cultura dell’organizzazione delle polizie, voglio dire in Italia abbiamo appena avuto Verona e prima Piacenza, la Uno Bianca, Cucchi e Aldrovandi; non c’è dubbio che all’interno di un corpo autoreferenziale, armato e titolare dell’esercizio della violenza si sviluppi una cultura violenta di questo tipo. Nel caso degli Stati Uniti questo elemento è ancora più accentuato. Una delle differenze tra, per esempio, le violenze di Verona e uno serie di massacri e assassini di polizia negli Stati Uniti, è che nella prima agivano sapendo di prendersela con delle persone inermi, nei secondi invece c’è anche un elemento di paura perché la popolazione è armata. Quando la polizia effettua controlli autostradali ovviamente sono in paranoia, perché non sanno se la persona che hanno fermato per essere passato con il rosso non è armata. Aggiungiamo un’altra cosa, gran parte degli assassini di polizia negli Stati Uniti avvengono per violazioni del traffico. Passare con il rosso negli Stati Uniti è un reato penale, non è come da noi una contravvenzione che comporta una multa. Questo è uno degli elementi che accentuano la dimensione di classe e razziale, chi si trova a violare le leggi del traffico perché magari non gli funzionano le luci sono quelli che hanno le macchine più sfasciate, sono i meno ricchi. Non ci dimentichiamo, noi parliamo degli assassini di polizia sui neri ma una percentuale meno tragica ma altamente superiore alla media collettiva riguarda i Latini e il gruppo “etnico” più colpito proporzionalmente dalla violenza poliziesca: i Nativi. C’è anche una percentuale di bianchi ammazzata dalla polizia. Quello che hanno in comune tutti costoro è che sono tendenzialmente poveri, è la dimensione di classe.

Avrei finito con le domande, ma le pongo un’ultima provocazione, secondo lei può essere il rap la nuova musica dei movimenti, come lo sono stati il folk-revival e gli spirituals negli anni Sessanta-Settanta?
Il problema è che il rap non si può fare in coro. Lo spiritual sì, le canzoni di lotta sì. Esiste un rap con contenuti militanti, così come è esistita nell’industria culturale una What’s going on di Marvin Gaye e così via, ma la musica dei movimenti è legata a qualcosa che puoi cantare insieme. Allora qui entrano in gioco due elementi: il primo è che da più o meno mezzo secolo la musica che si produce non è più una musica destinata ad essere ricantata, tant’è vero che quando ancora si cantava alle manifestazioni, le canzoni che si cantavano erano quelle dei nonni. Secondo, per ragioni differenti è molto più difficile cantare in piazza adesso, in Italia non si può più perché ti mettono il sound-system e chi gestisce la manifestazione decide che musica si suona, neanche più gli slogan si cantano. Negli Stati Uniti perché la dimensione dello scontro è sempre stata più violenta, più fisica, come diceva Malcolm X: «You don't do any singing; you're too busy swinging», ovvero non puoi cantare perché sei troppo impegnato a fare a botte. La relazione tra musica e movimenti è culminata nel Movimento dei diritti civili, con l’apice nel riuso dello spiritual ecc. in questo momento è decisamente in crisi. Per cui sì esistono Kendrick Lamar e artisti come Ani DiFranco, ma se tu prendi i video di Occupy Wall Street, in cui non potevi avere l’amplificazione, cosa cantavano? Cantavano We Shall Overcome e Which Side Are You On? che vengono dal movimento dei diritti civili e da quello operaio. Tra l’altro l’aria è quella di uno spiritual. Cantavano le canzoni di una-due generazioni prima. Ani DiFranco ha reinciso Which Side Are You On? elettrica in studio, ma in strada l'ha cantata in acustico come si faceva decenni fa. Quello che cambia sono proprio le modalità di produzione della musica e quindi il fatto che sempre meno abbiamo diritto a cantare noi, a me non lo permettono perché sono stonato come una campana (ride sotto i baffi N.d.R.), e sempre più produciamo una musica che non è riproducibile al di fuori di uno studio di registrazione, questo è un po' il problema.
[1] La statua di Edward Colston di Bristol è stata abbattuta e buttata nel fiume della città durante le proteste per George Floyd legate a Black Lives Matter nel 2020.
[2] https://www.ilpost.it/2012/09/30/il-monumento-a-rodolfo-graziani/
[3] https://www.sfgate.com/disneyland/article/2021-04-snow-whites-enchanted-wish-changes-witch-16144353.php
[4] Il riferimento è al monumento del generale Robert E. Lee in Richmond, Virginia. La statua è stata rimossa nel 2020 a seguito delle proteste per George Floyd.
[5] Termine stigmatizzante utilizzato da media e politici per indicare le donne single afro-americane con figli che abuserebbero del welfare state per non lavorare. Il suo uso è stato popolarizzato da Reagan per giustificare lo smantellamento del welfare state americano.
[6] https://www.theguardian.com/us-news/2022/oct/26/amazon-union-workers-strike-protests
[7] https://www.theguardian.com/business/2022/dec/16/us-starbucks-strike-union-walkout